Cantacronache e altro: non son solo canzonette

Cantacronache



“Cantacronache” che fu? Fu un’avventura

che ha cercato di risponder per le rime


a chi allora usava strofe e partitura


per imporre un canzoniere di regime.


Si era in pochi, ma si volle dar l’esempio,


ben decisi a dare effetto all’intenzione

di cacciar tutti i mercanti via dal tempio,


da quel tempio dedicato alla canzone.


Componemmo versi, musiche e canzoni


con l’intento, per quei tempi un po’ blasfemo,


di dar voce a personaggi e situazioni


mai di casa alle serate di Sanremo.


Fu così che, poco a poco, in mezzo a noi


si formò una galleria di tipi strani,


di operaie, pescatori ed avvoltoi,


di soldati, di vecchiette e partigiani. 
 


Fu così che demmo voce e melodia


agli stenti zolfatari di Sicilia


ed ai cinque che ammazzò la polizia


nel sessanta, in una piazza a Reggio Emilia.


Si era in pochi, ancor meno eran le lire ;


è successo però, a forza di cantare,


che, fra quanti ci riuscivano a sentire,


quasi tutti ci restassero a ascoltare.


E succede che ci chiedano anche adesso


se noi siamo stati i padri spirituali


di certuni cantautori di successo


che si ispirano ad analoghi ideali:


io non so se sia così, ma mi compiaccio,


pur correndo il rischio d’essere inesatto,


di affermar che, grazie a noi, si è rotto il ghiaccio


e che si è contenti assai di averlo fatto.

 



Così Fausto Amodei, architetto e cantautore, ha raccontato anni fa l’irripetibile esperienza dei Cantacronache. Ma per chi non ne sapesse nulla, cominciamo dall’inizio. 



C’era una volta il "Cantacronache", un gruppo di artisti (musicisti e non) che narravano in parole e musica i problemi di un'Italia ancora in cerca di stabilità e di identità dopo la devastazione della guerra. Un  sodalizio troppo presto interrotto per incomprensioni, da cui però scaturirono esperienze importanti come quella del Canzoniere Italiano promotore di  un importante revival folklorico della canzone popolare e dello sviluppo della canzone politica negli anni Sessanta e inizi Settanta.
Per la precisione correva l'anno 1957 quando alcuni poeti, uomini di lettere e musica, s'incontrarono per dare vita a quella felice, straordinaria stagione. Sì, uomini di lettere, oltre che di musica, perché  la poesia può cantare e la canzone può poetare.



Il Cantacronache  esce dalla fase progettuale il 1° maggio 1958 partecipando al corteo della CGIL con, tra l’altro, la canzone Dove vola l’avvoltoio? di Calvino-Liberovici. Nasce poi artisticamente il 3 maggio del 1958 a Torino nel corso dello spettacolo "13 canzoni 13" tenuto presso la sala dell'Unione Culturale. I giovani compositori, ancora in buona parte sconosciuti sono: Fausto Amodei, Giorgio De Maria, Emilio Jona, Sergio Liberovici, Michele Luciano Straniero. Il successo dello spettacolo porta a repliche e a nuovi adepti al gruppo, fra gli altri gli scrittori: Franco Fortini, Italo Calvino, Franco Antonicelli 1. Fu il tempo della scrittura, dei dischi, della passione e del divertimento fino al 1962 quando le strade di alcuni si separarono, ma  senza pedere di vista valori mai cancellati.



Parola d’ordine “Evadere dall’evasione”, “dichiarare guerra alla luna e cantare gli sposi infelici” (vedi la “Canzone triste” di Calvino-Liberovici) ossia contrapporre una canzone in certo qual modo “neorealista” alla melensaggine da cartolina illustrata e all’artificiosità delle canzonette di moda. Il gruppo contribuirà a modificare il gusto popolare nobilitando il genere “canzone”, da sempre considerato un sottoprodotto culturale; le armi saranno in un certo senso le stesse della canzonetta d’evasione, linguaggio piano e accessibile, forme metriche tradizionali, una musica melodica ed immediatamente emotiva.



La produzione del Cantacronache è costituita da otto dischi a 45 giri di cui il critico Franco Antonicelli scrisse: «...nella scelta degli argomenti, pescati non in un'astratta eternità ma in un concreto tempo di cronaca, si avverte palesemente la polemica civile; ma non è un difetto, poichè essa non doveva per nulla restare nascosta. Scrittori autentici accanto a musicisti autentici, gli autori del Cantacronache sanno di dover infrangere una dura tradizione di abusi, di faciloneria, di falsità ... per me queste canzoni sono intrise di sincerissimo pathos, scattanti di amara, bruciante ironia. Per forza esse diventano popolari, perché sono popolari. È la verità a renderle così autentiche».



Nonostante la mancanza del battage pubblicitario delle grandi case discografiche (la Rai nemmeno, solo “La Stampa” prendeva un po’ sul serio i C. , ma perché il critico musicale era Massimo Mila, attento anche per queste esperienze) si formò un circuito alternativo per i C. Niente di monetizzabile: i concerti erano quasi sempre gratuiti, al massimo con un rimborso delle spese; si vendevano  circa quattro - cinquemila copie di dischi (con evidenti perdite di  alcune case discografiche...), ma il  pubblico “alternativo” era affezionato e li seguiva.



Veniamo alle canzoni.



Fu una sorta di manifesto la “Canzone dei fiori e del silenzio” di Jona-Liberovici: “Ci dicono cantate/dei boschi e dei fiori/degli amori felici/della genete lietamente/con filo di ferro/le palpebre cucite/ e di sorda ovatta/le orecchie riempite. […] Ci dicono tacete/ perché il silenzio è d’oro/ su miseria e lavoro/ tacete della vita/ se ha giorni grigi e duri/ tacete degli amori se sono tristi e oscuri/ tacete anche dei fiori…”



Di Fausto Amodei si ricorda "Il tarlo" che parla dello sfruttamento del lavoro da parte di certo padronato (la canzone venne definita da Umberto Eco: una divulgazione pressoché perfetta de "Il capitale" di Marx): "L'altra parte del raccolto / ch'è mangiata dal signore / prende il nome di maltolto o plus-valore".



In "Lettera dalla caserma" sempre Amodei riapre la polemica contro il servizio militare obbligatorio (vedi anche "Le cose vietate"). "Diciotto lunghi mesi / piuttosto male spesi / ma a questo siamo, in fondo, rassegnati / ma non è di mio gusto / e non mi sembra giusto / che sian diciotto mesi mal pagati. Diremo un po' sul serio, un po' per gioco / chi per la patria muor, pagato è poco.



"Una vita di carta" è un satirico attacco contro la burocrazia che obbliga dalla nascita alla morte ad essere provvisti degli appositi certificati. Ne "La ballata ai dittatori" Amodei sono protagonisti  coloro che credono di poter disporre della vita altrui solo perché protetti dalla ricchezza. “Per i morti di Reggio Emilia” esprime la solidarietà con le vittime della repressione, da parte del governo Tambroni, nel 1960,  dei moti popolari antifascisti.  E ancora di Amodei si ricordano "Il censore", "Il pane", "Il giornalista", "I lupi e gli agnelli" e "Sciopero interno" scritta dal vivo nell'autunno caldo del 1969. La situazione aziendale Fiat è ripresa dai pezzi: "Nei reparti della Fiat", "La Taylorizzazione", "Pensaci tu", "Un sindacato di comodo". Nel '73 Amodei scrive " Se non li conoscete" (sui neofascisti) e "Fanfaneide" contro la Democrazia cristiana e anche "Il divorzio" problema sentito in quegli anni.



Nella produzione di Emilio Jona, anche lui piemontese come Amodei, è da ricordare "Tredici milioni" sull'Olocausto. Il milanese Michele Luciano Straniero dedicò "La zolfara" alla situazione drammatica dei minatori, "Partigiani fratelli maggiori" a coloro che hanno sacrificato la gioventù ad un ideale di libertà, "La canzone del popolo algerino" rivolta ai giovani algerini che hanno perso la vita per l'indipendenza; scrisse, inoltre, "Viva la pace", satira contro gli armamenti, e infine "Storia di Capodanno", la vicenda vera di un bimbo morto per fame durante la notte di S. Silvestro alle Casermette di Torino mentre la gente per bene festeggia tra feste e brindisi la fine dell'anno.



Quel che è successo a Torino con il "Cantacronache" e che ebbe degli adepti anche a Milano, non solo con Straniero ma anche con Dario Fo ed Enzo Jannacci che ne colsero i temi più alti, non passò inosservato nel resto d'Italia e a quell’esperienza  si legano altri cantautori, alcuni del Sud: Paolo Pietrangeli, Ivan Della Mea, Gualtiero Bertelli e Giovanna Marini che hanno spesso collaborato per mettere insieme i brani che hanno fatto la musica popolare italiana e in particolare quella di denuncia (saranno poi gli artefici della nascita di un altro gruppo culturale legato alla canzone popolare "Il nuovo canzoniere italiano").
Ma colui che sopra ogni altro ha operato una vera e propria ricerca etnomusicale è stato Roberto Leydi il quale è riuscito a raccogliere tutti i canti politici, di classe, di lavoro, degli emigranti così come quelli delle filande e della mondariso cantate da Sandra Mantovani. Leydi è riuscito così a dare una risposta a quell'esigenza che nasceva agli inizi degli anni '60 ovvero la curiosità di conoscere le matrici della cultura popolare, sociale, storica e politica italiana. La ricerca si concretizzò in due spettacoli del 1964 a cura dello stesso Leydi di Filippo Crivelli e Dario Fo i titoli sono "Bella ciao" e "Ci ragiono e canto".



Non si possono, infine,  non citare le canzoni di Giovanna Marini come "L'eroe", sorta di melodramma popolare, "La grande madre impazzita", "Il processo", "I treni per Reggio Calabria", "Correvano coi carri". Giovanna Marini è stata anche l’unica, forse, che a livello musicale ha cercato di fare qualche esperimento e a tentare di coniugare musica popolare e cultura orale come cultura antagonista: partendo da un approfondimento della cultura popolare antagonista del sud (nel sud non adoperano il costume di cantare per terze parallele, come nei nostri canti di montagna, ma cantano da una quarta aumentata parallela) è arrivata all’avanguardia.



Di Paolo Pietrangeli (che ora fa il regista del "Maurizio Costanzo show") sono la famosissima "Contessa" sulla contestazione del '68, "Karlmarxstrasse" che è anche uno spettacolo teatrale e "Anni settanta nati dal fracasso".
Ivan Della Mea è autore di "Ballata della piccola e grande violenza", "Io so che un giorno", "Sudadio", "Giudabestia", "La balorda", "Se qualcuno ti fa morto" ecc. 

Quattro chiacchiere con Fausto Amodei: Cantacronache e altro



Racconta Fausto Amodei che l’incontro con  i futuri Cantacronache avvenne in modo abbastanza casuale. Era allora studente di architettura, strimpellava la chitarra, si  interessava di musica e, soprattutto, amava profondamente (un amore di tutta la vita) George Brassens. Michele Straniero  si occupava di ogni forma possibile di cultura e scriveva poesie; Emilio Jona, avvocato, scriveva poesie; Sergio Liberovici, musicista, aveva interessi musicali multiformi e non aveva mai accettato di essere considerato “musicista da conservatorio”. Aveva composto anche cose pregevoli, musiche da balletto, si  era già occupato sia di ricerca sul campo di musica popolare, per conto della Rai, sia di elaborazioni musicali di canti popolari. Si aggiunsero poi al gruppo, e divennero gli elementi focali gli scrittori Italo Calvino, Franco Antonicelli e, ad un certo punto, Franco Fortini.



Alla fine degli anni Cinquanta dominava nell’ informazione - radio e televisione - e nella società italiana un conformismo assoluto: il miracolo economico stava producendo omologazione tra le varie culture. Le canzoni che si canticchiavano erano quelle di Sanremo, “spinte” dalle grandi case discografiche: l’ampliamento del mercato era pagato con il  loro bassissimo livello stilistico, musicale, poetico.



In questo contesto i C.  si proposero di scrivere canzoni,  che fossero tali e non ballate o sinfonie, canzoni da cantarsi e fischiettarsi che però avessero un testo dignitoso ed una musica che non fosse solo “orecchiata”.



Si voleva fare una canzone popolare, di qualità, ma non “snob”,  che potesse essere compresa da tutti. Il nome scelto per il  progetto era allusivo ai contenuti: “Il Cantacronache”. Il nemico da battere era l’evasività della canzone di consumo, una canzone priva di riferimenti con i fatti che avvenivano, con le idee che circolavano... Lo scopo era  fare una canzone legata non tanto ai fatti di cronaca in sé, ma che guardasse alla realtà, non ai sogni.



All’inizio ognuno ha dato il suo contributo, ma in modo casuale, senza un progetto preciso. Il documento è venuto dopo le canzoni. Italo Calvino è stato uno dei primi ad appassionarsi all’avventura, esprimendo da un lato la vena che gli veniva dalle fiabe italiane, dall’altra quella narrativa, un po’ vernacola e minimalista, de “Il sentiero dei nidi di ragno” con la sua unica capacità  di raccontare eventi eroici, come la Resistenza, ma in termini quotidiani ed anche un po’ fiabeschi. La coppia che ha iniziato con più entusiasmo ed ha affascinato anche gli altri è stata proprio quella Liberovici e Calvino. Liberovici era ebreo, con il padre che veniva dall’area Yiddish: questo ha contato tantissimo nelle sue musiche. In più aveva esperienze di musica da balletto e di canto popolare, per cui è riuscito subito a scrivere canzoni diverse, inedite, che si staccavano dalle mode imperanti. Non si conosceva ancora l’esistenza di un canto popolare politico, contadino e metropolitano, andato dissolto perché la radio e televisione non se ne occupavano (Uno dei libri più importanti di musicologia popolare, il Nigra, è stato ristampato da Einaudi solo all’inizio degli anni Sessanta).



Michele Straniero e Emilio Jona erano poeti ed hanno iniziato a dare più importanza sia alla semplicità del linguaggio sia alla regolarità del ritmo e delle rime. Jona era legato ad una certa avanguardia, ma per la canzone ha cercato di essere meno sofisticato.



“All’inizio” dice Amodei “non si voleva dare alcun connotato politico: volevamo fare una politica della cultura, una cultura che, rinunciando a certi elementi di eccessiva astrattezza e sofismo, potesse essere comprensibile. E’ diventato un fatto politico quasi subito, ma non faceva parte delle intenzioni iniziali…”

  • Così Fausto Amodei ricostruisce la storia “sua” e di Straniero nei Cantacronache
    in occasione del ricordo dell’amico scomparso nel 2000

    (da Per Michele Straniero profeta della canzone popolare. www.gliargomentiumani.com/012/doc/00_indice.htm)


“Fin dall’inizio dell’esperienza dei "Cantacronache" Straniero fu uno dei "parolieri" di riferimento; Italo Calvino e Franco Fortini sarebbero arrivati più tardi, dopo i primi esperimenti e le prime "realizzazioni" dell’accoppiata Straniero-Liberovici…



Era per esempio già stata composta la canzone "L’intellettuale" in cui Michele, con una sequenza molto arguta di rime, celiava su un intellettuale contrario all’engagement il quale, limitandosi con compiacimento a "parlar male" ed a lanciare frizzi e lazzi e motti sui razzi (così allora erano ancora chiamati i missili con o senza testata atomica), rifiutava le scelte concrete in base al principio che ci vogliono due staffe per cavalcare. La musica apprestata da Liberovici era un ricalco di aria da piano-bar, leggermente swingata, da cantarsi con l’affettazione con cui Petrolini avrebbe cantato "Gastone". Questo l’autoritratto dell’intellettuale stesso: studio i dialetti, conosco le lingue/ pochi giudizi/ molti indirizzi/ è la ricetta che mi distingue!



Era già stato composto dalla stessa coppia il "Mottetto n .1", dialogo tra un immaginario avanguardista (o giovane fascista) un po’ tonto, ed il suo capo manipolo che lo redarguiva. L’esaltata recluta del regime equivocava, con un meccanismo teatrale, da avanspettacolo, i termini di alcune parole d’ordine del regime: Meglio un giorno da leone che…vent’anni (trent’anni, quarantasette anni! No! Cent’anni) da pecora. Ai Greci spezzeremo… il menisco (il naso, i lobi delle orecchie. No! Le reni). E così ridacchiando. Il ritornello, che simulava l’inno trionfale della recluta recitava: Senso vietato, svolta, aiuola rotatoria?/ Chi se ne frega!/ Con noi marcia la storia /e tirerem diritto,/ a costo di marciare sul soffitto!



Ed ancora Viva la pace!: una filastrocca di dileggio degli accordi di pace periodicamente stipulati tra i grandi della terra fra un riarmo ed un esperimento nucleare che se, nei contenuti, risentiva sicuramente dell’esperienza di alcune canzoni di Boris Vian, nel succedersi di metri diversi e nella densità delle rime ricordava invece il raffinato artigianato di Giuseppe Giusti o di Ragazzoni. Io li credo e benedico/ ma un sospetto, ve lo dico/ mi costerna:/ che la pace tanto pia/ di costoro poi non sia/ quella eterna. La musica di Liberovici era un esile supporto ritmico ed armonico, piacevolissimo a canticchiarsi.



Ma … la prima canzone vera e propria composta da Straniero e Liberovici, rifacendosi con convinzione ad alcuni di quei modelli di canzone "seria" che contribuivano a costituire il Dna del gruppo (Brecht-Weill o Eisler, Georges Brassens, Tucholsky), fu "La ballata del soldato Adeodato", una fiaba antimilitarista, l’ apologo di un povero diavolo, capitato senza volerlo in un mondo di conformismi religiosi e di pseudo valori patriottici ed autoritari, con l’unica modesta ambizione di vedere le stelle, il quale, spedito al fronte, impara a sparare e finisce ucciso, senza poter vedere le stelle quell’ultima notte. Le strofe di Straniero anche in questo caso erano fitte di versi brevi in rima fra di loro (Era nato sfortunato/ di famiglia contadina./ Dalla madre, una beghina,/ fu educato.[…] Lo chiamarono Adeodato/ perché fosse molto pio:/ era il nome dello zio/ del curato) Una particolarità era il ritornello che rinunciava deliberatamente ad una totale chiarezza di enunciati, per permettersi dei significati più nascosti ed allusivi: Amava le stelle, ma non poté vederle che di notte.



La musica di Liberovici consisteva in una melodia che, pur fornita di una certa orecchiabilità, nasceva da un deliberato impegno compositivo, di costruzione e di elaborazione anche armonica, attenendosi ad un andamento "epico", come è giusto per ogni autentica ballata.



Il primo testo scritto da Straniero che mi toccò musicare fu "La zolfara"… nel ’57. Michele l’aveva scritto a ricordo di un incidente mortale capitato nella zolfatara di Gessolungo in Sicilia, dove perirono otto minatori. Il testo di Michele dava immediatamente atto del fatto di cronaca, con luoghi e cifre: Otto sono i minatori/ammazzati a Gessolungo. Mancava solo la data. Il poemetto accostava poi al tono cronachistico dell’avvio un tono più fiabesco di ballata da cantastorie, per narrarci come i caduti di Gessolungo, assunti in paradiso, partecipassero ad un lungo corteo con i quattro evangelisti, citati uno per uno, Marco, Matteo, Luca a Giovanni, assieme a tutti gli zolfatari morti sul lavoro negli anni precedenti per giungere in presenza di un Cristo vendicatore che, dopo averli benedetti, distruggeva la miniera con un fulmine. Il ritornello, reiterato dopo ogni strofa, riproduceva le grida del padrone o del capo cantiere, per accelerare i tempi: Spara prima/la mina!/ Mezz’ora si guadagna./ Me ne infischio/ se rischio/ se di sangue poi si bagna. Quello che mi colpì del poemetto di Michele fu questa capacità di rappresentare, facendoli parlare direttamente, diversi personaggi della vicenda: il cronista, che potrebbe essere l’evangelista dei recitativi di un oratorio bachiano, il cantastorie che rievoca i fatti che avvengono nell’aldilà, il capo-cantiere (il cattivo) che sprona i minatori a lavorare più in fretta. Il carattere della musica da fornire a questo testo era, ça va sans dire, quello di una ballata popolare meridionale, siculo-calabrese, che garantiva la necessaria epicità, permettendo di comunicare sia discorsi diretti che discorsi indiretti senza modificare lo stereotipo musicale e condiva il tutto col fascino di quella che parecchi anni dopo sarebbe stata chiamata "musica etnica". … In quegli anni si sapeva già qualcosa, tramite uno storico disco di canti popolari italiani curato da Alan Lomax e Diego Carpitella, della ballata meridionale e dei cantastorie tipo Ciccio Busacca; come pure che Domenico Modugno già cantava alcune delle sue prime canzoni in dialetto.



La canzone successiva di Straniero, che ebbi il compito di mettere in musica, fu "La canzone del popolo algerino". Nella presentazione, che Straniero stesso ne fece, riproponendola in un disco pubblicato anni dopo, scriveva fra l’altro: Per la mia generazione, la guerra d’Algeria ha avuto il valore che ebbe per i nostri padri la guerra di Spagna, e per i più giovani quella del Vietnam: ci fece scoprire l’oppressione e la tortura, ci diede la certezza morale e l’entusiasmo di essere dalla parte giusta, ci aiutò a capire la dinamica della storia, fu quella che si dice una "presa di coscienza" che ci aiutò a diventare adulti. L’elemento del testo, che per me ebbe più importanza, e che tesaurizzai anche per le mie successive performances da cantautore, fu il fatto che, anziché risolversi in un’invettiva contro il colonialismo e contro le sue guerre di oppressione, riusciva a sviluppare delle riflessioni e dei giudizi meditati, allorché ad esempio rivolgendosi con aria dolente al soldato francese, mandato lontano a far la guerra, gli ricorda: Dal tuo paese un giorno, dalla Francia/ venne una luce immensa: / dicevano "Uguaglianza, Fratellanza…"/ Ora fermati e pensa!. Con una canzone cioè era possibile svolgere un discorso anche complesso, non solo elementare e visceralmente sentimentale, un discorso che, a naso avrebbe dovuto essere affidato di norma solo ad un saggio critico o ad un articolo di fondo. Fu un esempio che mi aiutò moltissimo a definire e sviluppare i caratteri e le possibilità della "canzone militante" della "canzone d’intervento"… . La musica di questa canzone si componeva di due distinte melodie alternate: la prima, dolente e da cantare sottovoce, accompagnava la domanda reiterata: Chi ti ha mandato/ soldato,/ col fucile alla mano?/ Chi ti ha mandato/ ragazzo,/ a sparare (ferire, morire) lontano? La seconda invece più concitata ed impetuosa, accompagnava le strofe in cui si chiedeva al ragazzo di rendersi conto della gravità di ciò che era obbligato a compiere, lo si invitava a ribellarsi in nome, appunto, delle nobili tradizioni del suo paese.



Più o meno nello stesso periodo componemmo "Partigiani fratelli maggiori". Nel gruppo era già intervenuto Italo Calvino, che aveva messo in versi un ricordo della sua esperienza partigiana, musicato da Liberovici e diventato una canzone molto amata, "Oltre il ponte". Fu per l’allora (1958) singolare esperimento di una canzone nuova dedicata alla Resistenza, che l’ANPI (Associazione Nazionale Partigiani) locale invitò noi Cantacronache a partecipare, con le nostre canzoni, alla celebrazione al Montoso di una celebre battaglia che lassù fu combattuta durante i venti mesi della Resistenza. Con Michele decidemmo di partecipare con una canzone composta appositamente da noi due, che per ragioni anagrafiche alla Resistenza non avevamo preso parte, per affermare la nostra fraternità di "fratelli minori inesperti", rispetto agli ex-partigiani. Michele… aveva concentrato in quattro strofe tutti i concetti essenziali dell’idea di base: il richiamo ai partigiani presenti ad ascoltare le nostre parole (l’equivalente del prologo di tante ballate e canzoni popolari: "sentite buona gente…", "or se ad ascoltar mi state…"), la constatazione che la memoria delle loro battaglie non era conservata nei libri di storia (a quei tempi Storace non avrebbe avuto da lamentarsi!) ma solo sui volti dei presenti, sui tratti sconvolti dell’Italia, e che era pervenuta a noi, "fratelli minori inesperti" come una favola strana ed un avvenimento remoto; infine la dichiarazione di orgoglio per essere chiamati con loro a vegliare la fiamma sui monti e l’invito, se un giorno tornasse quell’ora a chiamare anche noi con loro per i morti che avete lasciato/sulla montagna. Il testo della canzone non aveva, a differenza di altri testi di Straniero, un intreccio fitto di rime: le rime vere anzi erano poche, distribuite spesso a parecchi versi di distanza l’una dall’altra, sostituite sovente da semplici assonanze, ma in una struttura metrica rigorosissima: ogni strofa costituita da due quartine, in cui il terzo verso era un quinario e gli altri tre dei decasillabi. Il ritmo musicale che allora adottai era mutuato in modo molto indiretto dal canzoniere partigiano: voleva essere una canzone nuova e l’unico elemento di raccordo con questo canzoniere fu quello di rifarsi più all’andamento di "Bella ciao" che a quello di "Fischia il vento". La quarta ed ultima strofa della canzone, per accentuarne la perentorietà, andava cantata una terza minore al di sopra del tono delle strofe precedenti, e questo, se dava alcuni problemi di esecuzione a noi, cantori dilettanti con voci non proprio impostate professionalmente, garantiva però un certo effetto di solennità.



All’inizio degli anni Sessanta la direzione della Fiat offrì il denaro, il metallo ed il lavoro per installare una discutibile statua della Madonna in un punto strategico della collina torinese, sul piazzale antistante il Monte dei Cappuccini. Si discusse se l’intervento valesse ad arricchire o deturpare la prospettiva di questo luogo molto amato dal pubblico domenicale. Noi Cantacronache percepimmo però una stonatura di altra natura fra l’installazione di una statua sacra ed il carattere dell’impresa che promuoveva l’iniziativa. E nacque "La Madonna della Fiat" (Profezia del riflusso, come sottotitolo), una canzonetta fornita di un certo swing, cui Michele aveva fornito un testo tra lo scherzoso ed il sarcastico: E se non vi basta la paga, operai,/ e se vi annoiate o disoccupati,/ venite a Torino, prendete il tranvai,/la nuova Madonna vi consolerà; A quei sorveglianti, un tempo sì truci/ han fatto dei corsi di fede profonda;/ ormai circonfusi di mistiche luci/ non fanno la spia, non fanno la ronda./ Ma invece, con aria di pii sacrestani/ faran processioni, giungendo le mani./ Venite alla FIAT, la gran cattedrale/ profuma d’incenso e di carità. Con un ritornello piuttosto travolgente, che faceva: Una Madonna spider, modello centotrè/ sul Monte dei Cappuccini.



E dire che Straniero da giovane aveva avuto una serissima educazione cattolica, frequentando addirittura un seminario; ma presto all’interno dell’Azione Cattolica si era legato ad una pattuglia di "dissidenti" che, usciti polemicamente dall’organizzazione, si erano ritrovati in un gruppo legato alle esperienze di cattolicesimo progressista che venivano soprattutto dalla Francia attorno al pensiero di Mounier o di Maritain. Devo dire che il confronto con la spregiudicatezza di credente polemico, dubbioso, non integralista, Michele ha dato qualche lezione anche a noi miscredenti che, benché laici e razionalisti, avevamo le nostre carenze in fatto di spregiudicatezza e di anti-integralismo. Nel ’63 Straniero pubblicò, curato da Vanni Scheiwiller, un libretto di 36 sue poesie, intitolato "Danza del buffone". La prima di queste, intitolata nientemeno che "Dio", recitava: Dio è amore,/ e va bene;/ ma l’amore/ cos’è?”

  • Sull’eredità dell’esperienza del Cantacronache:


“Negli anni Settanta il Cantacronache era già morto, ma sulla sua scia era nato, a Milano, il Nuovo Canzoniere Italiano, che comprendeva una rete di canzonieri nazionali. In tutto questo calderone di esperienze musicali si erano insinuate alcune voci dichiaratamente eversive: si collegavano a dei movimenti politici come Autonomia Operaia... Si era creata una situazione difficile, confusa, in cui era difficile spiegare esattamente i contenuti e le idee. Era troppo facile essere fraintesi. Poi ad un certo punto ci si era talmente convinti della nobiltà degli intenti che non si aveva più nessuna attenzione per lo stile, e questo è stato uno degli elementi che hanno provocato la scomparsa della canzone politica. Si scrivevano testi e musiche che non avevano assolutamente più nulla di creativo; per cantare l’immaginazione al potere non si usava più assolutamente immaginazione.

  • Altre riflessioni su canzone e impegno politico, sulla  “cultura di massa”:


“Liberovici, che era stato ad un festival della canzone politica a Berlino Est, raccontava spesso un aneddoto: ad una fabbrica occupata, in sciopero, arrivarono Bertold Brecht, il musicista Hanns Eisler e Ernst Busch, attore e cantante del Berliner Ensemble. Dopo aver raccolto alcune testimonianze, in due ore Brecht aveva scritto il testo, Eisler lo aveva musicato e Busch la cantava davanti agli operai: la canzone divenne l’inno dello sciopero per gli operai. Questo aneddoto ci aveva particolarmente colpito, sia perché mirava sul vivo delle nostre convinzione politiche, sia perché era un esempio particolarmente significativo di come la canzone potesse essere un veicolo rivoluzionario di contenuti e di messaggi. In questo ci credevamo molto.”

  • Sui rapporti canzone d’autore- poesia:


“Ci sono alcune lingue in cui la poesia è solo cantata: alcune lingue monosillabiche, come ad esempio il cinese, hanno una modulazione vocale che può essere quasi assimilata ad una melodia. Secondo me il fatto che un testo per essere legato ad una canzone debba avere certi elementi di semplicità è un pregiudizio. Una poesia può essere complessa, avere diversi livelli di lettura, invece la canzone si ritiene debba avere un contenuto immediato. Non sono assolutamente d’accordo. […]



Secondo me fare una distinzione di generi secondo cui la poesia è solo scritta e non cantata è un accademismo stupido. Ci sono testi scritti che non sono poesie, e testi cantati che lo sono. Poi in Francia c’è la tradizione di musicare delle poesie nate non per essere musicate: alcune poesie di Aragon sono diventate per opera di Ferré delle canzoni celeberrime. Prevert si è poi messo a scrivere testi di canzoni, ma prima erano i musicisti che prendevano le sue poesie e ne facevano canzoni.Sicuramente ci sono delle canzoni molto belle in cui, se si legge solo il testo, si perde quel particolare andamento verso l’alto, verso il basso, il forte o il piano che gli dà la musica, quindi si perde moltissimo anche poeticamente. Ma non vuol dir niente: i Trovatori erano dei poeti che per recitare le loro poesie le cantavano accompagnandosi con uno strumento. […] 
I cantautori hanno portato la qualità nel prodotto musicale di consumo. In Italia non c’era un’esperienza precedente. Ho cercato anch’io di chiarirmi le idee su questo punto: non è facile. L’unica esperienza che può essere assimilata a quella di un cantautore è quella di Eduardo Spadaro, un fiorentino che ha fatto canzoni di successo, ma ha alle spalle tutto un canzoniere meno noto in cui il testo non è banale, è ricercato. Anche Brofferio, deputato del parlamento subalpino ai tempi di Cavour, un avvocato di Castelnuovo Calcea che faceva parte della sinistra garibaldina, aveva scritto dozzine di bellissime canzoni in dialetto. Credo che nel campo del dialetto in ogni regione si possano trovare dei cantautori. Certo, poi Brofferio non cantava le sue canzoni, le faceva eseguire da delle deliziose soprano che poi tentava di portarsi a letto, perché era un donnaiolo intemerato. Il principio di usare la canzone come strumento di comunicazione politica risale già a lui. Non è che facesse gli interventi in parlamento con le canzoni, ma tutti gli scandali politici li commentava con le canzoni. Era l’equivalente di Beranger: faceva delle canzoni in occasione dell’abolizione dei conventi da parte delle leggi eversive, polemizzava contro Cavour [...]



La lingua italiana non è mai stata una lingua nazionale nel vero senso della parola. È stata la lingua delle accademie fino all’inizio del secolo. La lingua con cui si creava e con cui si comunicava era il dialetto. In qualsiasi enclave dialettale si possono ritrovare tantissime canzoni dal Seicento all’Ottocento che raccontano la storia di quelle zone. Napoli è un caso eccezionale, ma anche in Sicilia, nel Veneto, nel Lazio. Non è vero che in Italia non esisteva una canzone: c’era una canzone regionale.



[…] Il discorso sulla cultura orale si era legato moltissimo con il movimento dei cantautori, soprattutto la sua parte più politicizzata. Attorno al Nuovo Canzoniere Italiano infatti gravitava l’Istituto Ernesto De Martino che era, ed è tuttora, il più grosso archivio di tradizioni orali. Per alcuni la cultura orale era l’unica vera cultura alternativa: non rispettava le regole del bel canto, non rispettava la grammatica e la sintassi nel testo scritto, era dialettale... In tutto questo complesso si sono ritrovati elementi non di sottocultura, ma di cultura antagonista. Poi, che i cantautori siano gli ultimi poeti orali... Secondo me cambia da tipo a tipo: sicuramente Guccini in alcune canzoni è l’ultimo dei trovatori. Lui ha la capacità di usare il linguaggio parlato, pur essendo sempre accuratissimo nei suoi testi. Legatissimo alla cultura orale era anche Ivan Della Mea, che adoperava anche il dialetto. […]



Nel  film dei fratelli Taviani La notte di San Lorenzo i contadini toscani recitavano l’Iliade: è tutto vero.



Secondo me la voce dà sì senso alla canzone, ma questo non vuol dire che i cantautori seguano o siano gli eredi della tradizione orale. Anche perché i cantautori hanno iniziato la loro attività quando ormai i giradischi e la radio erano di uso comune, quindi la diffusione non era orale. Che i cantautori abbiano avuto successo anche per la loro voce può avere una risposta strutturale: alcuni di loro sono poi diventati dei personaggi. Se Guccini fosse solo una voce registrata e non si presentasse come si presenta, la sua voce non avrebbe senso: si collega un certo modo di cantare al personaggio che lo propone. Non è un fatto solo di comunicazione fonica, ma anche corporale: come si veste, come si presenta.” 

da E. Jona e M. Straniero (cur.), Cantacronache. Un’avventura politico-musicale degli anni cinquanta,
DDT e Scriptorium associati-CREL (Centro Regionale Etnografico Linguistico), Torino 1996