Alceste Mainardis

Amaro - 26 agosto 1944. Triste ricordo della prima invasione Cosacca (*)


Non so se Amaro ha delle date fauste o infauste nel suo calendario; probabilmente, come ogni buon paese cargnello, condannato a ricavare dalla grama terra la non ricca vita, non avrà tempo di fare la cronaca. Ma la data del 26 agosto 1944 resta, e resterà per molti anni, si può stare ben certi, inchiodata nella cervice dei paesani.
Ecco come andarono le cose in quel giorno. Era un giorno di agosto come un altro, vale a dire si viveva con la solita paura di essere, da un momento all'altro, prelevati e spediti a fare più grosso il già Gross-Reich, da parte della S.S. e accoliti. Sui monti i patrioti, l'arma alla mano, vigilavano. Poteva essere prossima l'ora della sollevazione in massa di tutta la regione: occorreva fare qualcosa. Fu così che nei cervelli ammalati dello S. M. tedesco, d'accordo con altri cervelli non meno ammalati italiani, si dovette pensare che per sanare la situazione pericolante, in questa zona di transito alpino, occorreva un'operazione in grande stile. E l'operazione fu fatta.
Essendo rimasti liberi, perché senza terra da guardare alle spalle dei tedeschi operanti in Russia, i rinnegati del Caucaso, la Carnia ed i territori affini si prestavano all'impiego di questa ciurma. Chi erano costoro? Erano i kulaks, quelli che si erano ribellati al regime sovietico perché il regime sovietico, anzi tutto, a loro imponeva di lavorare, e di lavorare gran voglia non ne avevano; poi perché voleva che anch'essi contribuissero al progresso della Russia, e loro del progresso non ne avevano un gran buon concetto. La vita nomade e sregolata che avevano condotto sotto gli zar sembrava loro il massimo bene; per ignoranza, essendo incapaci di sopportare i sacrifici che la rapida marcia verso la civiltà ed il benessere collettivo della giovane Russia loro imponeva, avevano preferito, non appena fu loro possibile, tradire la Patria e darsi allo straniero. Il quale straniero, facendo leva sul loro egoismo e promettendo mari e monti, li aveva convogliati nella sua stretta così come un masso rotolante a valle trascina i massi minori. Rotti i ponti col passato, armali e lanciati contro i fratelli, erano diventati soldati del Reich. In questa veste erano qui giunti.
A Stazione per la Carnia già fin dal 15 agosto si erano viste giungere strane e lunghe tradotte di uomini barbuti e laceri, di donne scarmigliate e con poppanti, miste a cavallini striminziti e a carretti mal congegnati. Tutta la vecchia Russia della tradizione viaggiava miseramente su ouei vagoni ove uomini e donne, esseri umani e animali si accumulavano. Massimo Gorki diede il suo nome ai vagoni-merci trasportanti, invece, uomini affastellati, in Russia, nel periodo rivoluzionario, ma qui non c'erano più vagoni alla Gorki, c'erano delle tradotte di 40-50 vagoni e di queste tradotte ce ne fu una cinquantina!
Un certo numero di questi esemplari erano già sistemati nell'ex polveriera di Pissebus, più vicini a Tolmezzo che ad Amaro: sembravano innocui profughi che la guerra avesse sbandato. Erano invece l'avanguardia del nuovo flagello.
Così fu che sabato 26 agosto 1944, poco prima di mezzogiorno, una robusta colonna per buona parte a cavallo, varcava il ponte Fella ed entrava nel territorio del Comune.
Una gamma di facce che andavano dal ieratico al patibolare, imberbi giovinetti e barbe veramente patriarcali, berrettoni di pelo con cordoni d'oro e senza, caffettani orientali e divise della Wermacht, armi automatiche di ultimo tipo, e in abbondanza, tedesche e russe e poi al seguito immediato le «impedimenta» costituite da decine di carrette cariche di donne, di marmocchi, di paglia e, si può stare ben certi, anche di parassiti. Il variopinto corteo sembrava rinnovasse in pieno secolo XX una calata di barbari del più alto Medioevo. Tolte le armi, che erano automatiche e ben moderne, tutto il resto era lontano, lontano di secoli per chi sapeva la storia, per chi non la sapeva era una cosa straordinaria. Davanti alla colonna camminavano a piedi, con armi pronte ed esplorando minutamente ogni viottolo, delle pattuglie feline, questo non era il medioevo. Giunti all'altezza dell'abitato, tutti gli abitanti, con quella prudenza che l'esperienza aveva ormai insegnato quando si trattava di soldati e di armi, si erano dali a sbirciare la strana colonna, incerti fra lo stupore e la meraviglia che facevano vincere anche la paura.
Diavolo! Quelli non erano soldati, così malconci com'erano; ma le armi le avevano e abbondanti e le facce non erano affatto serafiche.
Fecero un alt. Uscirono dalla strada nella campagna. Si pensava che si fossero tolti dalla strada per misure di sicurezza contro il pericolo aereo e che dovessero proseguire e già si facevano commenti sui disgraziati paesi che avrebbero dovuto ospitarli.

Ma le ore passano, i fuochi si accendono, il bivacco diventa stabile, i cavalli pascolano, gli uomini rubano e.... non c'è nulla da fare. L'indomani altra ondata. Nei giorni successivi, con un crescendo davvero sconfortante il ponte Fella seguita a far passare ospiti.
Erano a un dipresso tutti dello stesso formato. Preferivano la campagna, che era magnifica in quel finire di agosto, forse per rifarsi delle lunghe ore passate sulle tradotte.
E la marea montava spaventosamente. Migliaia di uomini e di cavalli avevano ormai saturato la campagna. Sorgevano nuovi tuculs, si conglomeravano ove il sito era pittoresco, accanto all'acqua; strade e piste attraverso campi e filari si formavano con la celerilà di un baleno. Sembrava che la febbre avesse preso questi uomini dopo la lunga stasi del viaggio e con essi i cavalli che si pascevano beati del gran turco tenero col latte, tanto beati che poi scoppiavano gonfi nella gloria del sole fra sciami di mosche. Nel paese non erano ancora apparsi in massa, un'ondata di caldo li faceva stare bene all'adiaccio. Ma settembre ad un certo punto aprì le cateratte con una burrasca di acqua e di vento: un vero diluvio! Allora si vide la massa muoversi e, come un grosso serpente, entrare in paese. Sotto l'impeto e l'urto i portoni e gli usci furono aperti e gli ospiti colle rivollelle in pugno, picchiando e urlando entrarono ovunque. Da padroni scelsero i vani che loro sembravano opporluni e migliori; in certi casi cogli stivali si cacciarono nelle lenzuola. Avevano un certo senso artistico; piacevano loro gli ambienti migliori, per sporcarli, imbrattarli, ridurli a luridume in breve tempo e poi cambiare. Grandi ed interminabili visite venivano scambiate e l'ospite si degnava accennare all'amico il padrone di casa con la famiglia che era tolleralo in un cantone, se non era stato addiritlura espulso. Su tutto gravava il rumore ferrato degli stivaloni, il puzzo della carne di pecora che infrolliva al sole e l'odore dell' umanità sporca misto a quello dello sterco di cavalli. Sparatorie a getto continuo, fatte a scopo intimidatorio e tanto per darsi coraggio. Ricche carrozze con dame dignitose e gallonati ufficiali accanto a scalzi sanculotti passavano per le strade.
Le visite ed i piccoli trasferimenti anche di pochi metri erano fatti a cavallo, che serviva come da noi la bicicletta. Tentativi di arrivare a parlare con i comandi per protestare erano falliti.
Nessun ufficiale, assicurava di comandare quegli uomini; il Deutsche-Berater di Trieste non sapeva nulla e meno ancora a Udine.
Qui si svolgevano scene di distruzione e di orrore inenarrabili e... nessuno sapeva nulla. II mistero fu spiegato da un tenente della Gestapo della Carnia il quale ci disse che in paese anche gli alberi erano partigiani. La cosa durò a lungo e nonostante che i comandi ad un certo punto intervenissero non migliorò affatto, anzi. Poi in novembre, rinforzati da altre truppe regolari tedesche, o quasi, andarono in Carnia, e il nostro auguro più fervido, perché non tornassero indietro, li accompagnava. Pensavamo con struggimento ai fratelli carnici, colpevoli come noi di essere italiani e di aiutare gli italiani contro Io straniero, che avrebbero visto e subito questa massa.
Poi venne il colonnello Michailoff, che era stato profugo a Parigi e parlava francese. Con lui ci fu una caterva di vecchi ufficiali fra cui un decrepito generale che diceva «buon giorno!» a tutti con un sorriso senile e stava rintanato sempre in camera.
Erano, per buona parte, profughi che le armate tedesche avevano racimolato per l'Europa e avevano messo assieme - Dio sa con quali bugie - per farne una specie di scuola allievi ufficiali. Nei confronti dei caucasici della prima ondata questa scuola allievi ufficiali segnò indubbiamente un certo progresso. Il colonnello Michailoff, nonostante si pulisse il naso con l'aiuto delle mani, era un soldato e gli anni parigini lo avevano aggiornato. Per quanto si ingegnasse assieme ai suoi di fare anche lui il conquistatore, preferiva l'astuzia alla violenza. E poi gli eventi precipitavano e tutti lo sentivano. Un pope avendo occupato la vecchia chiesa di San Valentino e avendo piazzato le debite icone, incensava le medesime e cantava, assieme ad un coro artistico, lodi all'Altissimo. Ma l'Altissimo non doveva ascoltarlo... Infatti, il coro che si apprestava a celebrare solennemente la Pasqua ortodossa, partì in velocità e dovette celebrare, se l'ha celebrata, una ben magra Pasqua di fuggiaschi perseguitati e maledetti.
Venne anche una compagnia di varietà, composta di mature e imbellettate donzelle le quali sgambettarono davanti agli allievi ufficiali, al signor colonnello ed al suo seguilo, nonché alle autorità locali, gentilmente inviiate. Si sa: la guerra andava bene ci si poteva anche divertire... Era la kultur ...
Infine, un bel giorno andammo dal colonnello Michailoff - otto giorni prima dell'arrivo degli Inglesi - a dire cosa ne pensasse e se non fosse il caso a preparare le valigie. Il colonnello non fu sorpreso; qualcuno accanto a lui fece la faccia feroce ma non ci fu nulla; era solamente un sogno che per loro svaniva e per noi si realizzava.
Si sa: la vita è un'altalena, guai se così non fosse. L'indomani il colonnello partiva con armi e bagagli e con un certo anlicipo sull'orario di marcia. Forse non gli piaceva slar solo con i suoi quatlrocento guerrieri, si univa all'altra massa russa in Carnia, come fanno i bambini quando hanno paura di notte.
Anche i cosacchi erano passati; di loro era solamente rimasto un ukase (che ora si capisce non c'è più) scritto con molli errori, ma in italiano, di non sporcare l'acqua della fontana grande e di pulire ogni giorno il paese, pena 100 lire di multa prima e dieci giorni di prigione dopo.
E a dire che loro avevano sporcato anche... l'Amariana.

(*) articolo pubblicato in due parti, l'8 e il 15 settembre 1945, su
LAVORO
, settimanale economico - sociale della Carnia, Canal del Ferro, Tarvisiano e zona pedemontana