Elio Martinis "Furore" (Vice comandante della Divisione Garibaldi - Carnia)

Volevo essere libero...


 

Annata 1921, ampezzano purosangue, alpino reduce dai Balcani, sono stato sempre un ribelle.
Negli anni della giovinezza in primo piano c'era solo il lavoro. Non si soffriva la fame, ma tutto era misurato al minimo indispensabile. Mio padre, Tita, muratore, partiva i primi di marzo per i cantieri della Francia e fino a novembre la famiglia, bambini ed adulti, doveva sobbarcarsi i duri lavori della montagna. I rapporti fra generazioni erano duri, gerarchici. Non sopportavo quella mentalità dominante, passiva, del chinare sempre la testa della società d'allora e... di sempre.
Dopo l'8 settembre, fuggiti da Piedicolle, raggiunta la Carnia a piedi, ho guadagnato subito il bosco sopra Cretis con alcuni sbandati del Regio Esercito. Sul Pura si trovava già la squadra, una ventina d'uomini, di "Barba Toni" Mario Candotti.
Non volevo essere uno strumento dell'invasore. La lotta armata era l'unico modo per potersi liberare dall'occupante, di gran parte dei suoi servitori e della situazione economica.
Ma volevo essere libero, senza tessere di partito in tasca. Il colore politico che la Garibaldi assunse, per me non aveva importanza. Come militare pensavo di far finire la guerra prima possibile liberando l'umanità dall'oppressione di tutti i prepotenti.
Nella scelta obbligata del di qua o di là, optai per la difesa degli sfruttati.

Fu l'uccisione di mio cugino Battista Candotti, il 14 marzo '44, presso Ampezzo, a determinare, per reazione, il battesimo nella lotta armata con un agguato ad un'auto tedesca - il 2 aprile - in transito a la Maina verso Sauris. Battista Candotti era gran lavoratore, immune dalla politica. Quel giorno scendeva da Cretis con la scure sulla spalle. Incrociò un camion di repubblichini provenienti da Forni di Sotto. Lo presero per partigiano. Dai e tira: volevano caricarlo sul camion e Battista, preso dal panico di finire internato chissà dove, fuggì verso il Rio Mala Pala. I fascisti lo inseguirono e gli spararono dall'alto fulminandolo sul greto del Mala Pala.
Poi ci fu il rastrellamento tedesco di Lateis al nostro gruppo composto da una quindicina di uomini guidati da "Elio" e da "Marco" Ciro Nigris. Ritirati nel Novarcia, proseguimmo verso Mont da Riu. Inseguiti, arrivammo al Passo del Colador. C'erano tre metri di neve. Andavamo avanti nuotando nella neve, uno alla volta per dieci, quindici metri ciascuno... A rotoloni raggiungemmo Malga Chiarzò. Stanchi, senza cibo, bagnati fino alle ossa, ci spogliammo nudi. Fisicamente eravamo allo stremo e decidemmo di restare lì, a vendere cara la pelle. Ma gli inseguitori non arrivarono. Poi da Pani, mandammo ad Ampezzo un uomo affinché ci portassero dal paese qualcosa da mangiare.
Un'altro rastrellamento colpì l'ampezzano e da Pani dovemmo traslocare sul Monte Jof. Qui ci raggiunse, valigia in mano, "Tredici" Angelo Cucito. Dal Jof compimmo una puntata "alimentare” a Forni di Sotto. Ottenemmo il cibo, ma la situazione in paese era critica, tanto che il giorno dopo un fascista del luogo tirò una bomba contro alcuni giovani nostri simpatizzanti ferendone uno all'occhio. Due giorno dopo, un rastrellamento delle forze tedesche di Udine frugò Cima Corso. Dal Jof li vedemmo giungere e ci dividemmo sopra Oltris:"Falco" Vincenzo Deotto, con altri sette-otto rimasero nell'ampezzano, io, "Elio" Domenico Nimis e "Marco" Ciro Nigris ci avviammo verso la Val Degano.
Attaccammo le caserme dei carabinieri di Chialina, Comeglians, Forni Avoltri, Paluzza, Timau. Nella vallata trovammo il dottor Aulo Magrini, già nostro collaboratore dell'inverno, che aveva costituito in zona formazioni clandestine armate.
Con la corriera arrivammo a Mione. Con noi c'erano cinque carabinieri i fatti prigionieri a Paluzza: tre optarono per le nostre formazioni.
Ripreso il controllo della Val But, subìto un mucchio di rastrellamenti, ci spostammo verso Paularo.
Se la metà di luglio mi vide caposquadra del Btg. Carnico, con 5-8 fedelissimi, poi, con l'ampliarsi del movimento di resistenza, assunsi il comando di una compagnia, per finire quale vice comandante della divisione Garibaldi - Carnia, alla pari dei commissari politici. Però, quando li portavo in combattimento per insegnar loro "come si faceva", diversi rincularono...
Nel maggio '44 si attuò l'idea strategica del Comando Gruppo Divisioni Garibaldi d'interrompere la strada e la ferrovia pontebbana, per tagliare l'afflusso tedesco in Italia. Non c'era però un accordo con altre formazioni straniere, cioè gli jugoslavi: personalmente sono sempre stato contro la loro mentalità, li avevo conosciuti nei Balcani...
In quell'occasione fui ferito in Val Aupa. Caricato su di un mulo dovetti rientrare all'ospedale partigiano di Mione. Successivamente con una Compagnia del Carnico di distaccamento a Naunina, operammo puntate fino a Caneva. Ci fu il blocco di Tolmezzo con gli attacchi al ponte di Casanova e al fortino sulla via di Paluzza. Con la compagnia, poi Btg. Nassivera, prendemmo posizione a Terzo di Zuglio.
Arrivò la fine della Zona Libera...

L'8 ottobre pioveva che dio la mandava: alle 6-7 del mattino, i cosacchi tentarono di forzare il blocco di Casanova, a cavallo. Li ricacciammo.
Ritentarono verso le 8, appoggiati da due panzer tedeschi. Un carro rimase impantanato nel But, poi forze cosacche e fascisti sfondarono. Devo dire che proprio le formazioni fasciste si dimostravano le più pericolose: mentre qualche ufficiale tedesco "mostrava giudizio" non rischiando, i fascisti creavano bande assai imprevedibili. A Ponte di Zuglio ci dividemmo: diversi tornarono a casa, noi prendemmo la via di Fielis.
I cosacchi salirono il monte: cercai di tener inquadrata la mia trentina di uomini. Valicato l'Arvenis, arrivammo alla Patussera, in comune di Ovaro, all’imbocco della Val Pesarina, dove si trovava il Comando Divisione. Ci rimandarono sul Zoncolan con un camion della ditta Cimenti, e di lì, a piedi, verso Monte Tamai: vedemmo i cosacchi occupare la Val Calda. Tornati indietro alla Patussera, fummo spediti, a gruppi, a svernare in alta montagna.
Andammo a Mione. Nell'ospedale partigiano erano ricoverati dieci altoatesini, tra i quali il tenente comandante del presidio, presi nell'attacco a Sappada. Passò un reparto osovano: volevano far fuori gli altoatesini. Glielo proibii, anche con l'aiuto del cappellano don Lodovico Sandri, minacciandoli di morte. Trovammo poi "Gracco" che stava celebrando un processo sommario a due coniugi del luogo accusati di spionaggio: esigeva la loro fucilazione. Ciò avrebbe significato, vista l'avanzata cosacca, la morte sicura degli abitanti maschi e la deportazione. Impedii la fucilazione.
Trovai rifugio in uno stavolo sotto Malga Avedrugno, con 10-12 uomini. Tra un rastrellamento e l'altro, spostandoci di località, nella neve alta - l'inverno '44-45 fu uno dei peggiori del secolo - sfuggimmo alla caccia cosacca.
Per non morire di fame e di freddo, o farci catturare, nell'interno d'uno stavolo di Mione costruimmo una falsa parete di steli di granoturco. Sfidando la fucilazione in caso di scoperta, Giacomina Pol "da Feranda" ci ospitò e pensò, nonostante la miseria, a farci pervenire anche del pane. Il mangiare ci veniva passato da sotto la greppia. In cambio cedevamo il bugliolo di legno...

Arrivò primavera: il 28 aprile mi venne segnalato il rientro a Lenzone di due repubblichini del Btg. alpini Tagliamento. Evitata la guardai cosacca sul ponte di Ovaro, salimmo verso Lenzone. Il primo, che abitava nelle prime case, ci cedette l'arma senza far discussioni; l'altro, figlio di un maresciallo della forestale, lo trovammo a letto. Appena mi vide inveì, ma gli dissi: "Non vociare, non fare storie. Dovresti essere fucilato. Se tu mi avessi preso mi avresti fucilato sul posto o l’avresti fatto fare da altri. Dammi il tuo mitra e finiamola qua." Il milite tentò di prendere tempo finché, spazientito, gli urlai: “O me lo dai oppure ti porto via al comando!" L'uomo, preso il mitra nascosto sotto il materasso di un altro letto, me lo consegnò.
Il 29 mi portarono a Mione l'interprete del comando tedesco di Tolmezzo: era ricercato da tutte le formazioni partigiane per collaborazionismo. L'uomo, nativo di Luincis, mi raccontò i motivi della sua scelta di campo: aveva 7-8 figli. Piangeva. Ritenevo la guerra oramai conclusa e così lo lasciai andare con queste parole: "Vai e non fare stupidaggini. Sei hai qualcosa di cui rispondere, la magistratura si occuperà di te..." Tanto fu che il 2 maggio anche lui partecipò ai combattimenti contro i cosacchi ad Ovaro.
Il 7 maggio fu fucilato al km 15, sul ponte del Vinadia, dagli osovani. Mi dissero che gli osovani avevano fucilato una spia sul Vinadia e andai sul posto: riconobbi nel cadavere l'interprete che avevo graziato a Mione. Sceso a Villa al comando osovano feci le mie rimostranze. "Era una spia e bisognava fucilarla!" fu la loro risposta alla mia affermazione: "Ma lo sapete che la guerra è finita? E ora chi manterrà la sua famiglia? Se avessi ritenuto quell'uomo colpevole avrei fatto io quel lavoro per tempo." Controbatterono: "Non c'interessa. Era nota la sua colpa, e abbiamo agito di conseguenza!"

Maggio 1945. Eravamo di stanza a Mione. Il primo, verso le 9,30 il CLN Val di Gorto mi mandò a chiamare, dato l'impasse nelle trattative intavolate ad Ovaro con i cosacchi. Per la piazza e le vie del paese cosacchi e osovani convivevano pacificamente mentre a casa Martinis CLN e il magg. Nasikow stavano discutendo. I cosacchi avevano posto una pregiudiziale: non volevano aver nulla a che fare con i garibaldini.
Non volevo intervenire operativamente. I cosacchi erano troppi, ben armati, ad un passo dall'Austria, con in più la sicurezza dell'arrivo di rinforzi. La coda della loro colonna in ritirata era ancora in movimento nella conca di Tolmezzo.
Militarmente un attacco avrebbe comportato gravi rischi per gli attaccanti e rappresaglie sicure sui paesani. La cosa ad un occhio militare era lampante. Inoltre, a nemico che fugge ponti d'oro! Tanto più che i cosacchi sapevano di trovarsi sull'uscio di casa e il pensiero d'una loro resa proprio a un soffio dalla salvezza, era un'idea peregrina.
Ma venne a chiamarmi prima Dino, un uomo di Entrampo, poi uno di Chialina, infine Giobatta Martinis, macellaio di Ovaro. Disse: “Il CLN ti ordina di scendere ad Ovaro!” Come militare dovetti infine obbedire, pena il processo per disobbedienza. Prudentemente, però, mi recai nella chiesa di Cella dove potevo osservare la situazione. A Cella mi raggiunge Fabian che mi disse: "Furore, se possibile, astieniti dall'entrare in paese, perché sono in atto attriti fra CLN e comandante cosacco. I cosacchi non vogliono arrendersi. Stiamo attraversando una fase inconcludente. I cosacchi stanno solo prendendo tempo..."; poi riprese la via di Ovaro.
Arrivò un'altra staffetta del CLN invitandomi, per la quarta volta, a scendere. Ubbidii.
Nel CLN Val di Gorto - Rinaldo Cioni, Giovanni Cleva, Leandro De Antoni, Candido, Osvaldo Fabian, don Cortiula parroco di Ovaro - solo Osvaldo Fabian ed un altro, inutilmente, si dichiararono per far liberamente defluire i cosacchi verso l'Austria. Ma l'ing. Cioni, e tutti i "nuovi partigiani", compresi quelli d’un camion arrivati balzandosi con bandiera e canti da Rigolato, no.
L'Osoppo era certa d'ottenere la resa dei cosacchi. Nulla sapevo delle trattative in Tolmezzo con l'ataman per una libera ritirata dei cosacchi fino a Monte Croce. Arrivai in piazza ad Ovaro verso le 16,30 con 12-13 garibaldini e una decina di georgiani. I cosacchi guardavano con odio il nostro fazzoletto rosso. Lo levammo per non alzare la tensione. La piazza brulicava di cosacchi, di fazzoletti verdi e di “nuovi partigiani”. Erano stati fatti giungere da tutte le località prossime per far pesare il numero sul tavolo delle trattative, ma non avevano inquadramento ed esperienza di guerra.
Mentre i miei uomini si fermarono di fronte Casa Martinis, fui invitato nella la sala dove il CLN stava trattando con Nasikow, perché si pensava che la mia presenza avesse un peso per la resa. Onde non offrire pretesti, entrando tolsi perfino le insegne di grado.
Ad un certo punto Nasikow abbandonò la seduta rifiutando la resa. Il CLN invitò me e "Paolo” Giancarlo Chiussi, a compiere un estremo tentativo per far ricredere il maggiore cosacco. Nasikow entrò nel suo comando all'Albergo Martinis, noi arrivammo fin sotto. Da una finestra, Nasikow, con un gesto della mano ci interrogò su cosa volessimo. Nel frattempo, nel centro della piazza del municipio fu portata, legata su di una sedia, dagli osovani, la moglie del Nasikow. Avrebbe dovuto servire ad “ammorbidirlo"; Nasikow, invece, rientrando dal riquadro dalla finestra, ci lanciò una bomba a mano. Fui ferito leggermente ad una guancia.
I cosacchi spararono anche dalla scuola adiacente al Municipio. Ritiratomi, scomparsi Chiussi e Foi, ci rifugiammo per la notte nella cartiera.
Nevicava. Il 2 mattina burrascava. Tornammo in paese. Dal cortile delle scuole, verso le 8,30-9, ritentammo il contatto con i cosacchi colà acquartierati, ma non vollero darci retta, anzi, aprirono il fuoco dalla finestra dei gabinetti mentre stavo salendo le scale dal municipio. Sotto il fuoco, raggiunsi il tetto del municipio: da lassù cominciai a lanciare bombe a mano sui cosacchi dappresso. Non si arresero. Era tarda mattinata. Decidemmo allora di far saltare l'edificio: dalla miniera recuperammo due cassette di esplosivi e le piazzai sotto il muro: invece d'esplodere s'incendiarono e la costruzione cominciò a bruciare: crollò parte del tetto e un mucchio di cosacchi rimase ucciso nell'interno; quelli che cercarono d'uscire caddero sotto il mio Breda.
Arrivarono i rinforzi cosacchi da Tolmezzo ed i loro arrivò scompaginò le forze raccogliticce del CLN. Sparando, mi sganciai verso Comeglians. I cosacchi avevano posto in posizione un pezzo anticarro in mezzo alla strada nazionale, 40 metri dietro la curva dell'albergo, e da qui battevano le frazioni di Ovaro sulla destra. Tirai l'ultima raffica sui serventi e 2 caddero a terra. Arrivato sul ponte di Chialina, esaurite le munizioni, mi trovai sotto il fuoco: saltai il parapetto e presi per Mione. Sulla curva, adagiati sul ciglio, trovai i georgiani del capitano Uruschadse Akaki, morti.
Tornato a Chialina, trovai "Da Monte" Romano Marchetti, commissario dell'Osoppo, in borghese e senz'armi, e ci scambiammo chiarimenti: restava solo la ritirata.
Marchetti proseguì verso Comeglians, ed io, da solo, varcato il Degano, salii verso Ovasta. Da lassù vedevo i cosacchi venir avanti a plotoni sulla discesa di Chialina: trovato un mitragliatore russo a ruota, lo posai sulla forcella di un melo e sparai giù. I cavalli si imbizzarrirono, spaventati, volarono in alto zolle di terra. Pensai che quello sarebbe stato l'ultimo mio combattimento. Giunto a Ovasta decisi di farla finita: prima di soccombere avrei sparato fino all'ultimo. Basta, non ne potevo più...
Mi tornarono in mente le fatiche trascorse per cambiare il mondo, e la la lotta, il sangue..., ma senza mai essermi sporcato le mani con esecuzioni o condanne a morte, anche di spie confesse.

Il poi, dopo tre anni di cure per la TBC, la paleontologia, la pittura e la scultura, mi hanno dato l'opportunità di ripensare obiettivamente, senza protagonismi, alle mie azioni...


Elio Martinis "Furore"

Nato ad Ampezzo (UD) il 26 ottobre 1921, morto a Tolmezzo (UD) l'11 dicembre 2013, Medaglia di bronzo al valor militare.

Elio Martinis, il partigiano “Furore”, Comandante del Btg “Leone Nassivera”, Divisione Garibaldi “Carnia”, insieme a Mario Candotti “Barbatoni” e a Ciro Nigris “Marco”, fu uno dei protagonisti della Repubblica libera della Carnia (link a https://www.anpi.it/storia/144/carnia-e-friuli-orientale). Diventa partigiano nella primavera 1944, dopo una durissima esperienza con le truppe alpine nei Balcani e dopo essersi sottratto nell'autunno '43 agli occupanti tedeschi, nascosto insieme ad altri compagni nei boschi sopra Ampezzo.

Era stato sempre un uomo libero Elio, ribelle a tutte le costrizioni cui il fascismo sottoponeva gli italiani, come sempre era stato fortemente legato alla sua gente, dividendo le sofferenze di suo padre muratore, dei suoi ampezzani, dei carnici, sottomessi all'oppressione economica dei sorestans (padroni, caporioni, in friulano). Così, quando si trattò di scegliere da che parte stare, divenne garibaldino, coltivando non solo il sogno della libertà politica, ma anche quello della liberazione dallo sfruttamento e dalle quotidiane angherie.

Dopo l'uccisione fascista di un suo cugino, Battista Candotti, capì che era ora di agire e divenne partigiano, uno dei primi e dei più combattivi. Insieme ai suoi compagni fu artefice di esemplari e incisive azioni contro i presidi repubblichini e tedeschi, contro le colonne nemiche che cercavano di entrare nei territori divenuti liberi, la Carnia e l'Alto Friuli. In un combattimento in Val Aupa venne ferito e ricoverato nell'ospedaletto partigiano di Mione. Ma ormai la Zona Libera era stata realizzata e si apprestava a diventare una delle più importanti Repubbliche partigiane d'Italia.

La reazione tedesca portò alla fine di quella straordinaria esperienza di democrazia, consegnando la Carnia all'occupazione cosacca e caucasica (libere fino a dicembre rimasero invece le valli friulane dell'Arzino, Tramontina, del Cosa, del Cellina e del Meduna, insieme alla Val Colvera).

L'inverno '44-'45 fu uno dei più nevosi e freddi del secolo, la vita partigiana divenne particolarmente dura, nonostante l'aiuto della popolazione. Sul campo, attivi, rimasero solo circa duecento garibaldini, fra i quali “Furore”, arroccato a Malga Avedrugno. Poi venne la primavera e, con essa, la ripresa dell'attività partigiana e infine la Liberazione.

Elio Martinis portò i segni di quella aspra guerra che fu la Resistenza. Si ritrovò malato di tubercolosi e impiegò ben tre anni per guarire.

In seguito coltivò due passioni che lo resero celebre a livello internazionale: la pittura e la scultura, e la paleografia. Dal punto di vista artistico, la sua importanza è documentata da un catalogo pubblicato in Svizzera con le quotazioni delle opere dei pittori europei, dove la regione friulana compare con tre nomi: Ciussi, Celiberti e, appunto, Elio Martinis.

L'altra passione fu la paleografia: in contatto con i più importanti scienziati del mondo, a Martinis si deve la scoperta del paleozoico carnico in importantissimi affioramenti scoperti nella zona di Preone: il pesce volante Thoracopterus martinisi (che prese il nome in onore proprio di Elio) e il piccolo rettile arboricolo Megalancosaurus preonensis (lucertola di Preone). I risultati delle sue ricerche impreziosiscono oggi il Museo di storia naturale che egli volle con fortissima determinazione istituire ad Ampezzo, e il Museo di storia naturale di Udine.

Ed ecco la motivazione della Medaglia di Bronzo al Valor Militare conferita al Comandante “Furore”:

“Fin dall'inizio partecipava attivamente alla lotta di liberazione alla testa di un battaglione di volontari segnalandosi per notevole slancio in numerose, durissime azioni contro il nemico. Alla vigilia della liberazione, di sua iniziativa attaccava un forte presidio che riusciva ad indurre alla resa soltanto dopo che egli, arditamente portatosi sul tetto della sede del comando nemico ed avervi appiccato il fuoco, lo ebbe fatto saltare in aria gettandovi dentro una cassetta di esplosivo. Carnia, Valle del But, Ovaro, settembre 1943-2 maggio 1945”.


da: ANPI Donne e Uomini della Resistenza

FURORE

Testimonianza raccolta dagli studenti dell'ITIS Marco Martinis e Omar Spangaro nel 1994

da "50° Zona Libera della Carnia" video realizzato dagli studenti dell'I.T.C. 'Mario Gortani' - nov. 1994

Trascrizione e traduzione dal carnico di N. M.

Elio Martinis, “Furore”, attraverso il racconto della sua esperienza come partigiano nella zona carnica, ci fa capire l'assurdità della guerra e mette in luce i valori per i quali ha combattuto affinché finisse.


Il 3 o 4 di settembre ci hanno condotti, a piedi, fino a Tolmino e a Tolmino è venuto un reparto di camion, sempre da Udine, ci hanno caricati e ci hanno portati fino al bivio di Tarcento, dove siamo rimasti fino all'8 settembre. Mi ricordo sempre... lì ci siamo un po' spidocchiati e preparati per andare a casa. Nei tre, quattro giorni prima, a Tolmino c'erano già le colonne di tedeschi che scendevano per occupare l'Italia […] abbastanza di brutto. E sul bivio per Artegna, davanti al cimitero che si vede sulla collinetta, siamo rimasti fino all'8 settembre, come dicevo, e alla sera dell'8 settembre vado a lavare la gavetta alla fontana del casello ferroviario, e mentre sto lavando la gavetta, sento dalla radio che avevano in casa che c'è stato l'armistizio. Torno là e in mezz'ora è scattato l'allarme, ci hanno di nuovo inquadrati e via, siamo andati a Qualso e lungo la strada incontravamo gente che veniva da Trieste, militari, che scappavano, andavano a casa, perché dovevano averlo saputo prima, alla mattina. Allora siamo rimasti là fino a mezzanotte e continuava ad arrivare gente che scappava, così mi sono detto: “Eh no, qui bisogna andare a casa!” Allora ho trovato cinque, sei amici e siamo partiti. Il capitano è venuto a dirci: “Se domani non siete qui, io vi denuncio al tribunale militare”. Era pericoloso, perché si poteva finire a Peschiera o alla fucilazione per diserzione.


Durante il tragitto verso casa incontra un posto di blocco tedesco.


Non sapevamo, non avevamo nemmeno chiesto, che lì, sotto il campo di aviazione, c'era un deposito di armi dell'esercito italiano. Noi siamo passati così, rasente, e ci hanno sparato delle raffiche. Erano tedeschi che avevano già occupato il deposito, e […] erano con la contraerea. Mi hanno preso appena di striscio e mi è rimasta giù nei pantaloni (dovrei avercela ancora in giro) quella pallottola di Maschine.


A Villa Santina incontra suo padre, che lo stava cercando.


E siamo arrivati, sempre camminando, fino al ponte Avòns e lì abbiamo incontrato delle persone che andavano su a Verzegnis e ci hanno detto: “Non andate a Tolmezzo perchè lì è tutto occupato, perché tutti i militari li prendono e li arrestano, e li mandano in Germania.” E infatti era così. Allora siamo andati su a Verzegnis e siamo scesi a Invillino. Arriviamo vicino a Invillino, da dove allora si vedeva la stazione ferroviaria, che era isolata, c'era poco o niente intorno, solo le segherie di “De Antoni” e di […], mentre ora è tutto occupato. Allora siamo passati alla larga, dietro, e siamo usciti al campo sportivo, sulla strada, perché un tempo non c'erano tutte le strade di oggi, c'era solo quella che portava al campo sportivo. Allora usciamo su quella strada e vedo venirmi incontro mio padre! C'era Puli, il vecchio, il padre di Gianni (Zatti), lì c'era già Cjandìn di Serena (Candido Candotti, 1924), che era scappato da Verona. Pensa: lui scappato da Verona, era già arrivato fin lì! E Puli (Gianni) era qui in Friuli, a Collalto, e anche lui era riuscito ad arrivare. Mio padre era stato fino a Qualso, sapeva che ero là, e mi dice: ”Guarda che io sono stato là e mi ha detto il capitano che se domani non vai giù ti denuncia senza fallo. Devi essere laggiù domani sera entro le nove”. “Cosa? Sei matto?”.


Inizia per “Furore” l'avventura come “bandît” sulle montagne della sua zona.


[...] i proclami dei tedeschi e i repubblichini, quelli che erano rimasti fedeli a Hitler, ci dicevano di tornarci ad arruolare, di tornare dentro, e quelli che non volevano tornare... E allora siamo andati in montagna tutti quanti. Erano tutti andati in montagna, ma loro, per non creare malumori, hanno cominciato a dire che avremmo lavorato con la Todt, che ci avrebbero dato lavoro, e che avremmo dovuto scendere in Friuli, ma in Friuli non si sapeva che fine si avrebbe fatto, non ci avrebbe trovato nessuno, quelli che andavano non tornavano. Cercavano di tergiversare, no? Io non mi sono mai piegato e non sono andato. Ho passato l'inverno andando sempre di qua e di là, e mi portavano da mangiare. C'era il povero Ottorino (Sburlino), che è morto la scorsa primavera, che mi diceva ogni tanto: “Ti ricordi Elio, di quando venivo a portarti da mangiare con quella piccola gerla che poi riempivo di stecchi?” E giravo su di là: Mulìn di Chiç, Bosc Bandît, o qui sopra, da dove potevo vedere il panorama.


Accade un fatto terribile.


Andavano sempre, loro, tanto tedeschi che italiani, in colonne di tre, quattro camion, e andavano a fare puntate qua e là, se non altro per far vedere la presenza, e (quel giorno) sono andati a Forni di Sotto. Tornando da Forni di Sotto, lassù di Gabrièl, dove c'è il (cippo che segna il) kilometro, fermano mio cugino Battista (Candotti) e “la Bèla”, Arturo (Felissatti), lo avete conosciuto? […] Aveva un casco da autista, di cuoio, e loro hanno pensato che fossero partigiani, ed era una cosa grave. “Dove andate?” “Eh, andiamo a casa” “No, non andate a casa, voialtri!” E allora, anche con Arturo, che era giovane, nel '43 aveva diciassette anni, perché era del '28. Anzi: quindici. Allora, gli fanno: “Salite sul camion.” ma lui si è messo a correre. Arturo è andato verso la Milia e lui verso il ruscello. E hanno rincorso lui. Lui è andato giù, e quando è stato nella Mala Pala (il ruscello), laggiù sotto, gli hanno sparato e lo hanno ammazzato. Noi siamo andati, quella sera stessa, con Mario “Barba Toni”, ne parla anche Ricchezza, qui (nel libro), scendiamo e cerchiamo. In un punto trovo dieci, dodici cartucce sparate, così dico: “La posizione, una cosa e l'altra, lo hanno ucciso laggiù”.

Infatti, andiamo giù ed era proprio... Gli avevano sparato nella schiena ed era supino. Allora ho chiamato Mario e gli ho detto: “Venite giù, è qui. E' morto.” Lo abbiamo preso e lo abbiamo portato sotto il municipio, dentro proprio. L'indomani […] sono venuti su i tedeschi e i repubblichini e non hanno fatto tante storie, perché la gente era tutta inferocita […]. Trovo un tenente che era con me (in Jugoslavia?), Piccoli, parente di quel Piccoli della Democrazia Cristiana, che è trentino. Allora con lui ho parlato, ricordo, all'angolo della farmacia. Gli ho detto: “Hai visto? Come si fa? Uccidere un povero lavoratore che viene giù stanco dal bosco e andate a farlo fuori? Non sono cose da fare, quelle, sapete?” Allora la gente era urtata, di conseguenza è stato anche un sostegno per noi, ci hanno appoggiato in seguito a quel fatto.


Da semplice fuga, l'azione si trasforma in vero e proprio desiderio di una rapida conclusione del conflitto. Ecco il racconto di un significativo episodio.


Telefonano a quelli di Lateis, da Spilimbergo, perché loro sapevano che eravamo qua sotto. Dicono che verranno a fare una puntata e si raccomandano con loro di collaborare. Uno di loro scende e ci riferisce della telefonata. Allora, quello che comandava la squadra, che era uno di Nimis, scende (alla postazione telefonica) e li chiama: “Se verrete su, noi saremo qui ad aspettarvi.” E loro sono venuti su, con 6 o 7 automezzi che poi hanno lasciato giù (in paese) e gli uomini sono saliti a piedi. Noi li stavamo aspettando, li avevo visti arrivare proprio io guardando con il binocolo, mentre passavano per Cjamesans. Sono arrivati su, sono passati sotto il Puintón, e allora ho detto che bisognava andare e siamo andati giù. Appena sotto il valico (l'Alt di Lateis?), sulla curva, c'era una scorciatoia per arrivare alla Novarza (rio). Laggiù c'era una teleferica di snodo, dei Nigris, che portava in Pala Pelosa. Ci siamo fermati lì per un poco e poi dice Ciro, e anche Giovanni Madeu: “Dovremo andare su a vedere cosa fanno, no? Perché può darsi che vengano da una parte e dall'altra e rimaniamo accerchiati qui. E allora siamo andati su per la Novarza fino ai Cercenars di sotto, non a quella di sopra, ma a quella di sotto (Cercenati di Losa), di fronte a Mont di Riù. Lì ci siamo fermati un po' e poi ci siamo detti che bisognava scendere a vedere se erano ancora laggiù o se erano arrivati fino alla teleferica. Allora sono andato giù io, un inglese, Ennio (quello della Niti), e Silvio (Bullian?). E allora scendiamo e per arrivare laggiù c'erano circa 30 metri di terreno scosceso, non c'era il sentiero. Allora ho sentito il cavo muoversi ed ho capito che erano arrivati. Ho fatto ancora due passi, per sincerarmi, e mi hanno dato l'altolà. Ho fatto un salto come un capretto e loro hanno sparato, ma non ci hanno presi, anche perché stava venendo buio. Però ci siamo presi molte botte sui sassi scivolosi, botte sulle ginocchia che non ti dico! E trascinavo quel povero inglese che aveva una paura... Lo vedo ancora annaspare, biondo e alto, e dovevo prenderlo per la maglia. O lo lasciavo lì, e lo avrebbero ammazzato, o dovevo trascinarlo. E così siamo arrivati su, dove intanto gli altri avevano acceso il fuoco e si erano un po' rifocillati. Ma non potevamo rimanere lì. Dove avremmo potuto andare? Verso Forchia era assurdo, perché c'era la strada e quelli sarebbero arrivati presto. Avrebbero anche potuto attenderci al varco, e quella sarebbe stata la fine. Allora siamo andati verso Mont di Riù seguendo il ciglio. Lassù abbiamo trovato sui tre metri di neve, facevamo 10, 15 metri alla volta, annaspando nella neve, e quando siamo arrivati sul Coladòr eravamo sfiniti. Eravamo bagnati, io avevo i piedi congelati, e così molti altri, ma siamo scesi lungo il Coladòr, una fatica da cani, iniziava il disgelo e c'erano slavine. Arrivati al torrente Scjarsò, non ne potevamo più e ci siamo detti che, se fossero arrivati, ci saremmo difesi finché avremmo potuto. Abbiamo acceso un gran fuoco, ci siamo spogliati e abbiamo strizzato i vestiti. Cosa avremmo dovuto fare?