Massimo Dubini

La casa del diavolo. Capitolo 1


PREMESSA

Questo lavoro nasce dal desiderio di raccontare le origini e gli sviluppi del movimento operaio nella Val Pesarina nei primi anni del ‘900, in particolare di alcuni paesi come Prato Carnico, Pradumbli e Pesariis.
Il lavoro si articola attraverso una sistematica ricerca delle manifestazioni del socialismo pesarino, utilizzando un taglio che non segue uno schema organico ma che pone in evidenza gli avvenimenti che hanno segnato e motivato la crescita del movimento operaio attraverso le sue dinamiche economiche, sociali e politiche.
All’interno della tesi si sono evidenziate le cause dell’emigrazione, veicolo essenziale per la diffusione di idee anarchiche, socialiste e marxiste nella Val Pesarina; furono proprio gli emigranti che appresero all’estero tali idee e le trasferirono nella valle al loro rientro stagionale; questi portarono con sé innovazioni politiche e culturali tra cui l’internazionalismo, l’anticlericalismo, e l’antimilitarismo.
Si sono inoltre analizzate le prime forme di associazione e cooperazione, all’interno delle quali la comunità si riuniva liberamente per risolvere problemi e studiare forme di aiuto reciproco; si è dato rilievo alle lotte interne alla Società di Mutuo Soccorso, tra le nuove forze proletarie e quelle conservatrici.
Si è quindi focalizzata l’attenzione su due degli avvenimenti più importanti della Val Pesarina in questi anni e cioè la costituzione del Circolo Socialista e la costruzione della Casa del Popolo -“Casa del Diavolo” per i clericali-, fulcro di aggregazione sociale e cooperativistica per gran parte degli abitanti della vallata. Del Circolo Socialista è stata presentata la struttura organizzativa e politica, e la particolarità che vide la sovrapposizione del circolo stesso ad una struttura sociale di tipo tribale, antropologicamente ostile all’autorità soprattutto se proveniente dall’esterno, come sarà quella fascista mai penetrata definitivamente nel popolo carnico.
E a dimostrazione di questa particolare e unica realtà di tale comunità, si è deciso di presentare brevemente la vita dell’anarchico Giovanni Casali, divenuto celebre soprattutto per il suo funerale “sovversivo”, ulteriore manifestazione della solidarietà di vallata e di anti-fascismo.

Il quadro completo degli avvenimenti che si sono succeduti è stato ricostruito utilizzando giornalistiche dell’epoca tra cui il settimanale dei lavoratori Il Lavoratore Friulano, i quotidiani liberali moderati La Patria del Friuli e Il Giornale di Udine e il clericale Il Crociato.
Per quanto riguarda lo sviluppo del movimento operaio si è attinto a diverse fonti archivistiche. Grazie al Comune di Prato Carnico e al Presidente della Casa del Popolo, Ido Petris, è stato possibile visionare l’archivio di tale istituzione operaia, presente dal 1997 nella biblioteca comunale di Prato Carnico. Esso è un’interessante raccolta in cui sono confluiti archivi minori che raggruppano ciò che si è salvato dei documenti prodotti dalle organizzazioni economiche e sociali dalla fine del 1800 fino ai nostri giorni.
Un’ altra fonte archivistica consultata è stata il Catalogo Fondo Roia con le cronache di S.Canciano che si trova nella biblioteca del museo di Arti Popolari Gortani di Tolmezzo. Tali fonti sono essenzialmente di carattere ecclesiastico e riguardano i diari di Don Antonio Roia (Prato Carnico 1875-Udine 1943), cultore di memorie locali. Esse non sono mai state analizzate per una ricerca di questo tipo, ma sono risultate significative soprattutto per le informazioni sui parroci che presidiarono le parrocchie della vallata, attraverso la raccolta e la trascrizione della loro corrispondenza.

 

EMIGRAZIONE: MUTAMENTI SOCIO-ECONOMICI E INTRODUZIONE DEL SOCIALISMO

Cenni sulla morfologia e sulla popolazione.

Il Friuli è una regione che per posizione geografica e precedenti storici, porta con sé ancora oggi il peso di molti problemi inerenti a sviluppo economico e ammodernamento.
Le valli carniche, per esempio, poste a distanza dai centri di potere, hanno sempre avuto enormi difficoltà nell’adeguarsi ai mutamenti socio-economici succedutisi nel tempo e accentuatisi sia a livello nazionale che regionale dopo l’unificazione dello stato italiano nel 1866.
La zona che andremo ad analizzare in questa sede è la Val Pesarina. La valle fa parte di un più vasto territorio chiamato Carnia, costituito dall’alto bacino del Tagliamento fino alla sua confluenza col fiume Fella; “è una regione ricca di acque e rilievi, stupendamente incasellata in meravigliose valli. I suoi confini girano per 208 km e di essi 44 km la dividono dall’Austria e precisamente dalla Carinzia; cinquantaquattro la dividono dalla provincia di Belluno. La Carnia è certamente uno fra gli angoli più settentrionali del regno d’Italia. ”
Se le vie di comunicazione alla fine del XIX secolo potevano sembrare ben sviluppate (“dei quasi 194 Km di strade, sono sistemati Km 164,5 ”), l’isolamento e la lontananza dalle arterie principali dove confluivano i traffici commerciali rimanevano problemi che frenavano lo sviluppo industriale della Carnia come quello del settore del taglio del legname;“in montagna a fine secolo mancano ancora i ponti su alcuni dei principali corsi d’acqua, la zona non è traversata da alcun troncone ferroviario, la Pontebbana che unisce Udine a Tarvisio e pertanto all’Austria, è inaugurata solo nel 1879 e finisce comunque per favorire l’afflusso del concorrente legname carinziano”. Quindi “il movimento che si ha sulle strade carniche è quasi esclusivamente locale ed interno, e si deve notare che se la rete stradale si presenta sufficientemente capillare e diffusa per quanto attiene ai collegamenti fra località limitrofe, non appare soddisfacente rispetto ai grandi assi di collegamento, contribuendo così ad aggravare l’isolamento sia nei confronti di una regione periferica come il Friuli sia nei confronti delle regioni contermini”. Dalla strada nazionale Pontebbana si raggiunge un bivio dove a sinistra si stacca la strada Nazionale Carnica n.1 iniziata nel 1878 e conclusa nel 1890. “Passato il lungo ponte sul Fella, la strada volge ad Oso, e superando con molte volte e risvolte, una serie di falde ghiaiose, e da ultimo un talus torrentizio” s’incontra subito un paese chiamato Amaro, primo della Carnia, che sembra introdurre a un paesaggio aspro e selvaggio. Immediatamente si scorgono le Prealpi Carniche sorelle delle più imponenti Alpi; “le montagne della zona carnica sono quasi interamente di natura calcarea e dolomitica, costituite quindi da rocce poco adatte a formare, col loro disfacimento, buoni terreni magri,” altro elemento di concausa dell’emigrazione.
Passando per Tolmezzo poi si percorre la valle del Tagliamento attraverso Villa Santina dove una biforcazione divide la strada nazionale: una è diretta ad Ampezzo fino al passo della Mauria nel Cadore (Belluno, Veneto) e l’altra, provinciale, detta del Gorto e costruita nel 1870, porta a Gran Villa di Sappada.
“Accanto alla strada nazionale e alla provinciale, in Carnia vi è una rete di strade comunali la cui realizzazione a carico dei comuni, fu resa obbligatoria dalla legge del 30 agosto 1868.”
Una di questa è quella che da Luincis porta a Prato Carnico per via Chialina : “si risale la bella strada provinciale per 20 minuti fino alla borgatella di Chialina (524m), d’onde si discende a Baus (505m) casali notevoli soltanto per le importanti seghe dei signori Screm, e dopo poche centinaia di metri si passa il Degano sul ponte (520m), della bella strada comunale del canale di S.Canziano che risale in dolce pendio la riva sinistra della Pesarina e circa in un ora e un quarto si è a Prato Carnico.” Il comune fa parte di uno dei due distretti della Carnia, più precisamente Tolmezzo, che con Ampezzo e Moggio formano la totalità della Carnia.
La Val Pesarina è “una vallata che costituisce il bacino del torrente che comincia col nome Ongara e finisce con quello di Pesariis, vallata nota come canal di S. Canciano o canal di Prato, questo territorio è vasto non meno di 74 kmq e si estende dal monte Cimone al nord, ai pascoli di Navarza nel bacino del Lumiei al sud, e dal passo di Lavard?t ad ovest fin quasi allo sbocco della Pesarina nel Degano a est”. Ancora secondo il Marinelli “la popolazione residente della Carnia, considerata entro i limiti amministrativi attuali è nel 1890 di 53300 abitanti. Tale popolazione è divisa in 28 comuni, 8 appartengono al distretto di Ampezzo e 20 a quello di Tolmezzo.”
Il comune di Prato Carnico “ divide la sua popolazione di 2657 anime (alla fine del 1896 calcolate a 3345) in non meno di nove frazioni, esse sono: Prato Carnico, Pradumbli, Avàusa, Prico, Pièria, Sostasio, Osais, Truja e Pesariis.”
I carnici utilizzano la parlata friulana che però si distingue da villaggio a villaggio per qualche particolarità fonetica, diversità ancora più forti se si passa da una valle all’altra .
Cercando una semplificazione si possono ridurre a quattro tipi, di cui il terzo appartiene alla valle interessata, quella di S.Canciano; “questo tipo si allontana più dagli altri dal friulano comune, sia per le numerose differenze fonetiche, sia per la gran copia di parole speciali che comprende”; gli abitanti della Val Pesariina “parlano con la ‘a’, ma si contraddistinguono per l’andamento più lento e quasi cantato della loro parlata, che i locali giudicano molto caratteristico”. Il carattere degli abitanti della Carnia è: “ospitale e generoso, operoso e tenace, parco di gesti e di parole, profondamente emotivo ma fermamente chiuso nei suoi sentimenti, educato e rispettoso ma non servile, talora scettico e diffidente, il carnico ha conservato nell’intimo un animo poetico e nel contempo fiero e ribelle ad ogni ingiustizia.”
Il sistema sociale di convivenza tra le varie famiglie si costituiva in unità cooperative di villaggio, sotto forma di autogoverno: “la pratica dell’autogoverno del villaggio ha una lunga storia. Fino alla fine del XVIII secolo ogni paese carnico era un comune- municipalità- a pieno titolo. Era amministrato da un’assemblea di capifamiglia e da un gruppo di funzionari eletti, che avevano l’autorità di far osservare gli statuti locali e che in pratica, potevano esercitare un controllo minuzioso sulla vita quotidiana. Nel primo decennio del XIX secolo il regime napoleonico abolì gli antichi comuni-villaggio, sostituendoli con l’attuale sistema di comuni formati da diversi paesi che ora si denominano frazioni.”
Comunque la pratica dell’elezione dei “capifrazione” è oggi ancora vigente anche se “la forma di autorità del villaggio si è modificata nel tempo e cambiando da paese a paese”. Bisogna sottolineare che alla base di ogni villaggio le famiglie furono unite da vincoli di solidarietà e di sostegno reciproco molto forte: “quando una donna che lavora i campi si ammala c’è chi la sostituisce nelle varie necessità della coltivazione, mentre altre donne la assistono e la aiutano nelle faccende di casa. La vita sociale si basa per lo più su semplici incontri serali che le famiglie tengono a rotazione nelle case di ogni frazione e che, particolarmente d’inverno, permettono di risparmiare le spese per il riscaldamento e la luce.” In un’ intervista di Claudio Venza a un valligiano questo gli rammentava il principio solidaristico anche per il lavoro normale nei campi: “l’erba era già matura per poter essere falciata in determinati posti e chi non aveva tanti campi, prati, dava una mano a falciare e portare il fieno. Dopo riceveva a sua volta quando l’erba era matura magari ad altitudine superiore.”

La Val Pesarina

1.1. Fine dell’ emigrazione “tradizionale” e nascita di un nuovo reddito.

Il periodo che chiude il secolo XIX è ricordato come quello delle grandi migrazioni soprattutto per le regioni settentrionali e meridionali d’Italia; dal 1880 in poi l’emigrazione assume un’intensità crescente, favorita dalla crisi agraria che ridusse al pauperismo molte famiglie sia al nord che al sud.
Il Friuli e in particolare la Carnia furono tra le maggiori fornitrici di emigranti in cerca di occupazione anche se vi fu “un adattamento alle nuove condizioni di un fenomeno già considerato antico costume popolare”.
La predisposizione all’emigrazione stagionale delle popolazioni alpine “ha le sue radici storiche nel nomadismo della caccia e dell’artigianato itinerante, che doveva essere presente già in età Paleolitica: gli uomini si sono mantenuti nomadi, trasformandosi in emigranti stagionali, le donne si sono mantenute allevatrici seminomadi” affiancando alla raccolta una magra agricoltura integrativa. Infatti per molti secoli si cercò di trovare, ed il tentativo fu coronato da successo, un punto di equilibrio fra le scarse risorse locali disponibili e la popolazione crescente, attraverso il ricorso all’emigrazione stagionale che integrasse l’economia agricola, che per sua natura non richiedeva un costante apporto di forza lavoro. “Questa emigrazione era svolta d’inverno ed aveva un carattere prevalentemente terziario essendo effettuata, per la maggior parte dai Cramars, merciai girovaghi che costituivano l’apparato distributivo del mercato delle spezie”.
Il fattore migrazione si risolveva insomma in modo vantaggioso per la regione, la cui comunità si presentò lungo un periodo di cinque secoli, con una caratterizzazione a-classista, in quanto gli individui non erano lavoratori ma proprietari, seppur di un misero pezzo di terra e membri di una comunità che lavoravano.
Zone prevalentemente rurali, ricche di artigiani e contadini, le vallate della Carnia sentirono più che altrove le trasformazioni di fine secolo. I sistemi di sussistenza si basavano su un modello economico chiuso, che tendeva all’autosufficienza attraverso un ciclo di produzione tipico delle comunità montane, “la famiglia di solito ampia e patriarcale, si procura il cibo quotidiano unendo la coltivazione di piccoli appezzamenti a quella dell’allevamento di qualche capo di bestiame per lo più bovino. La polenta è la base alimentare, ma non mancano, sia pure in quantità limitate, fagioli e patate, uova e burro, latte e formaggio. Ciò che è carente rispetto al nutrimento cittadino è la pasta, oltre ad alcuni tipi di verdura e di frutta.”
Il terreno per le sue caratteristiche (limitazione del suolo coltivato a causa della sua costituzione morfologica, abbondanti piogge durante l’anno) si estendeva a prato per il pascolo, e così “lo sviluppo delle colture se non al di sotto di certi limiti, determinano condizioni atte alla produzione foraggiera” suddivisa “ in tre ordini di colture: prati delle valli, prati dei monti o maggenghi, pascoli alpini.”
Una moltitudine di micro-aziende familiari si divideva la ridotta superficie a seminativo, i prati di media quota ed anche l’abbondante patrimonio zootecnico.
Si potrebbe parlare dell’azienda agricola carnica come di un’ “impresa lavoratrice poiché condotta da un contadino senza lavoro di terzi, autonoma in quanto assorbe tutto il lavoro della famiglia o più fondi di proprietà del contadino” .
Questo tipo di sistema economico autarchico vedeva proprietà e impresa unite insieme; il frazionamento dei terreni con a capo una miriade di piccoli proprietari fece sì che il grande possidente risultasse un’eccezione e che aziende di stampo capitalistico praticamente non esistessero.
Il sistema di sussistenza andò a creare un circuito che mantenne un suo equilibrio, coadiuvato dalla vendita al mercato del paese dell’eccedenza di prodotti come il formaggio, il burro, la ricotta e “qualora manchi la legna del proprio pascolo, al combustibile provvede il bosco comunale. Altri mezzi di sostentamento possono essere forniti dalla vendita della frutta, dei bozzoli e dei prodotti di altre colture. ”

Con la rivoluzione industriale, cambiarono i sistemi di produzione, i vecchi rapporti agrari e familiari nelle campagne cominciarono a sgretolarsi e questo sistema di auto-sussistenza già precario venne stravolto; “sotto l’urto della rivoluzione introdotta nella vita famigliare e pubblica di quei tempi dalla grande produzione capitalistica, che veniva affermandosi sui mercati col moltiplicarsi e facilitarsi dei mezzi di comunicazione, cadeva il vecchio concetto di quella parsimoniosa economia patriarcale che sino allora aveva presieduto all’ordine della casa”
I cramars furono “spiazzati dallo sviluppo dei sistemi di trasporto e dall’organizzazione delle catene commerciali trans-nazionali, così i tanti emigranti impegnati nei lavori di tessitura artigianale, tesser che giravano con i loro telai tanti paesi italiani e austriaci, avevano visto chiudersi le loro possibilità di lavoro non potendo reggere alla concorrenza dei telai meccanici”. Le strutture economiche si trasformarono e al bracciante-proprietario, all’artigiano o al boscaiolo non bastò più il sostentamento procurato con il modello finanziario antico; i nuovi mercati con i loro prodotti industriali uccisero la concorrenza, fecero scomparire le aziende casalinghe e la terra da sola non poté più soddisfare una famiglia sempre più numerosa; la costituzione calcarea e dolomitica delle montagne che univano “all’estrema magrezza del loro fasciume, una friabilità caratteristica generatrice di sempre più vaste zone di ghiaia sterili, che tendono a ridurre la già scarsa superficie coltivabile”, dava una minor produttività del suolo coltivato, sia a livello quantitativo che qualitativo.
Se prima lo scopo del lavoro fu “il mantenimento del singolo proprietario e della sua famiglia, come il mantenimento della comunità nel suo insieme, all’interno della quale, per lento e faticoso processo, si viene componendo un nucleo di ricchezza mobile, tramite i profitti commerciali conseguiti dai Cramars”, ora a causa della sfavorevole condizione naturale che inficiava la produttività dei fondi, la famiglia dipendeva in qualche modo sempre dal mercato esterno non solo per l’acquisto del superfluo, ma soprattutto per l’essenziale, ricercandovi non tanto la comodità o il lusso, quanto il necessario per la sua esistenza. L’antica tradizione di un’emigrazione, pur sempre limitata, utilizzata per ottenere un surplus di denaro atto all’acquisto del necessario per poter campare non poteva più bastare.
I venditori ambulanti che ebbero più fortuna trasformarono il loro commercio da itinerante a fisso; essi non si limitarono solo alla vendita di quegli articoli che servivano praticamente alla comunità - dai generi alimentari, al vestiario, alle medicine di più alto consumo- ma svolsero quasi sempre un ruolo commercialmente attivo, “fungendo da tramite fra il micromercato paesano, in cui agivano in condizioni monopolistiche, imponendo quindi prezzi che consentissero margini di guadagno elevati, ed il mercato esterno, con il quale erano gli unici della comunità a mantenere relazioni costanti”.
Essi divennero emigranti fuori dal mondo della sussistenza e legati alle logiche dell’impresa economica e della speculazione finanziaria, gli unici che forti di appoggi e di relazioni in patria e all’estero poterono mobilitare capitali anche consistenti diversificando la loro attività in vari campi produttivi, da quello commerciale a quello immobiliare e finanziario.
Il loro nuovo ruolo sociale divenne insieme ai pochi detentori di rendite fondiarie la prima forma pre-borghese (il termine è del Renzulli) che veniva a controllare il credito nella veste dell’usura in quanto “proprio per la deficienza del capitale circolante, la maggior parte delle vendite di genere di consumo, veniva effettuata a credito.”
Le famiglie meno abbienti furono costrette a emigrare per riuscire a pagare i debiti contratti per il mantenimento della propria famiglia nonché della propria terra, “l’emigrante privo di denaro per il viaggio, il contadino colpito da particolari avversità od intenzionato a sviluppare la propria azienda facevano spesso riferimento al negoziante stesso, che era naturalmente persona molto conosciuta”.
Dai villaggi si allontanarono sempre più uomini soffocati dai debiti, dagli obblighi clientelari o sollecitati a sgravarsi dalle ipoteche e a prorogare i pignoramenti e i sequestri; persone prive di esperienza trasformate in “trafficanti occasionali e improvvisati”; ai banchi dei ricchi commercianti si rivolgevano “parenti, vicini, clienti, contadini in difficoltà, costretti con maggior frequenza ad allontanarsi dalle attività legate all’autoconsumo per avventurarsi nel mondo economico del rischio”.

Gruppo di emigranti carnici e di cittadini austriaci a Leoben (1904)

Tutto ciò produsse la crisi e la scomparsa di mestieri antichi e la nascita di nuovi; “le basse mercedi in patria, i debiti verso i proprietari, il tradizionale costume di emigrare della popolazione, le lusinghe di un certo guadagno” spinsero primi fra tutti agricoltori o contadini, ed i braccianti, categorie che avevano una maggiore riserva di braccia disponibili, a lasciare il lavoro dei campi alle donne e ai vecchi. L’emigrazione portò alla sostituzione della “vanga dalla cazzuola, l’aratro dal piombino”, all’occupazione dei braccianti nel lavoro di sterro, nella costruzione di ferrovie e dei canali, nelle fornaci di mattoni, nelle cave, come manovali nelle costruzioni edilizie.
La distanza tra la fortuna del ricco e la miseria del povero andò progressivamente accentuandosi, mentre “tutta la montagna appariva ingabbiata in un’impalcatura di oneri, di gravami, di debiti che imprigionavano uomini e terre e nei villaggi si consolidava il potere di élites, di notabili, di mercanti agiati”. Il nuovo secolo si apriva così con il dissanguamento dei ceti più deboli, con la confisca delle terre e l’accumulo di capitali monetari in poche mani.

1.3. La presenza socialista in Friuli.

È necessario ricordare che il grande movimento migratorio iniziato alla fine dell’800 si sviluppò all’interno di un contesto storico che vedeva l’Italia sottoposta ai governi autoritari di Crispi (succedutisi dal 1887 al 1896) incapaci di comprendere le cause politiche e sociali della cosiddetta “questione sociale”, cioè della miseria che dopo l’unificazione colpì soprattutto la grande massa della popolazione urbana e rurale della penisola; correvano anni difficili per l’Italia e anche per il Friuli.
Il panorama della situazione economico-sociale friulana era dominato dalla gran massa di contadini, che “dai magri solchi ricavavano a stento il necessario per vivere e andavano fornendo schiere ogni anno crescenti all’emigrazione”; non vi erano i mezzi per un artigianato “capace e intelligente” per sviluppare una sia pur modesta industria e la borghesia rurale dalla terra o dal piccolo commercio “ritraeva a stento quanto necessario a immettere qualcuno dei suoi figlioli nelle libere professioni”. Nel mese di maggio del 1897, lo stesso capoluogo friulano fu contrassegnato da agitazioni e scioperi da parte di diverse categorie di lavoratori; i muratori per esempio si mobilitarono per primi costituendo un comitato “per ottenere equa riduzione di orario ed aumento di stipendio”, seguiti dai bandai ed ottonai che riunitisi “nell’osteria Al Cacciatore, in via Anton Lazzaro Moro”, deliberarono di “mettersi in sciopero, e dichiararsi solidali con i falegnami e coi fabbri”, tra i quali si era già manifestata qualche agitazione per ottenere che l’orario fosse limitato a dieci ore di lavoro.
I falegnami attraverso il loro comitato diedero incarico di “dirigere a buon fine l’agitazione fra gli operai” diramando in tutti i laboratori della città “una scheda, per raccogliere le adesioni scritte” ; l’agitazione dilagò anche tra i fornai che lamentavano “come taluni proprietari di forno abusino della forza di resistenza umana”, tra i calzolai che chiedevano “l’orario di dieci ore per i giornalieri e l’aumento nel compenso per i cottimisti” e nelle varie filande della città “che parevano (…) in stato di assedio (…) con carabinieri, guardie regie di pubblica sicurezza in divisa ed in civile”.
È in questa situazione che il 27 agosto 1897 “il R. prefetto ha dichiarato sciolto, per motivi d’ordine pubblico, il circolo degli studi sociali- circolo socialista- che aveva sede in via Cicogna al numero 12 ”; vennero altresì perquisite le abitazioni dei “presunti capi, signor Arturo Zambianchi, impiegato ferroviario, Demetrio Canal calzolaio e Luigi Pignat fotografo”. È con essi che lo sforzo socialista tentò di “definirsi e caratterizzarsi” attraverso per esempio il settimanale l’Operaio (agosto-ottobre 1896) diretto dallo stesso Canal; questo innanzitutto si qualificò come uno strumento di battaglia popolare, tesa sia alla rivendicazione d’autonomia e di individualità del movimento socialista rispetto ai radicali -definiti come “gli ultimi gendarmi della borghesia”- sia contro l’espansione organizzativa cattolica. Era infatti comune ai due schieramenti “la convinzione che la lotta finale avrebbe veduto in campo soltanto socialisti e cattolici”. L’operaio non mancava di esortare “i compagni della provincia a formare gruppi, fornendone le modalità di costituzione” e allo stesso tempo si occupava di questioni riguardanti “l’orario delle operaie delle filande, il trattamento economico delle guardie daziarie e degli spazzini, affidando al partito il compito di tutela, di promozione, di indirizzo nei confronti delle prime azioni sindacali”. L’azione di polizia rientrava nel quadro della repressione antisocialista del governo di Rudinì, però l’occasione d’intervento fu fornita dal fatto che “Canal, Zambianchi e Pignat si erano resi promotori”dello sciopero delle filandiere. Lo scioglimento del Circolo segnò “una grave battuta di arresto nella già faticosa costruzione del partito socialista in Friuli”, e anche se non possiamo affermare con certezza che esso fu “l’unico tramite della diffusione delle idee socialiste”, mise a tacere “quelle prime espressioni organizzate” che facevano di Udine “un preciso punto di riferimento per tutti coloro che abbracciavano la causa”.

 

1.4. Il crumiraggio e la classe dirigente di fronte al fenomeno dell’emigrazione.

I cambiamenti dei rapporti produttivi, devastanti soprattutto per le zone friulane più povere e prive di uno sviluppo commerciale, modificarono profondamente aree come la Carnia e le sue vallate. La disoccupazione sempre più pesante, le scarse condizioni economiche di base, l’improduttività dei terreni, non fecero nascere immediatamente una coscienza proletaria, “anzi lo stesso principio collettivistico, sottinteso all’ideologia socialista, era di per sé, in una struttura dominata dalla proprietà piccolo coltivatrice, indice e causa di un acceso individualismo, fattore non trascurabile di preconcetta ostilità alla nuova idea”.
A cavallo tra ‘800 e ‘900 si assistette ad un esodo di grandi dimensioni dalla Carnia. Giovanni Marinelli nel suo testo, basandosi sulle statistiche ufficiali, calcola circa “7000 emigranti temporanei all’anno su una popolazione di 50.000 abitanti”; dalle vallate partirono contingenti di boscaioli, muratori, tagliapietre, arrotini, fabbri, fornaciai, braccianti, falegnami.
Gli schemi delle pagine che seguono denotano come il massimo sviluppo dell’emigrazione si manifesti nel passaggio da un secolo all’altro e come sia direttamente proporzionale ad un aumento della densità demografica, fattore questo da annoverare tra le maggiori cause dell’emigrazione; infatti “tanto più maggiore è il coefficiente di natalità, tanto più difficile si riuscirà a provvedere ai mezzi di sussistenza, se l’aumento di produzione della regione non procede di pari passo”. Le zone montane ebbero rispetto a quelle collinari una maggior densità demografica, non proporzionata ai mezzi di produzione e di sussistenza. La sterilità dei terreni, l’ampiezza delle foreste e dei pascoli, i sistemi non evoluti di coltura dei terreni, l’assenza di uno sviluppo industriale locale e la conseguente mancanza di attività commerciale spinsero lontano quantitativi esuberanti di questi montanari, alla ricerca di migliori risorse per vivere.



Gli abitanti della Carnia dal 1871 al 1901


Anno Abitanti Abitanti per kmq Aumento annuo Aumento progressivo
         
1871 43.897 36 0.38 69.1
1881 50.627 42 1,53 95.4
1901 57.160 46 0,64 120.6

Dati desunti da Renzulli Gabriele in Economia e società in Carnia fra ‘800 e ‘900

 

La Val Pesarina fu tra le zone più colpite dal fenomeno migratorio come dimostra un documento dell’epoca in cui si legge che “nel comune di Prato Carnico di circa 3.000 abitanti sono da 800 a 850 persone che emigrano dall’età di quindici anni ai sessant’anni ”. Se “nel distretto montano e pedemontano la percentuale di emigranti fu in totale del 13% nel 1899”, nel caso di Prato Carnico la percentuale si aggirerebbe intorno al 30%, il che vorrebbe dire che in questi luoghi il movimento rivestì un carattere di massa, quasi dovesse essere l’unica fonte di vita del paese. I luoghi raggiunti dall’emigrazione erano “la Germania (Baviera, Wurtenberg) e più ancora l’Austria-Ungheria (Carinzia, Stiria, Salisburgo, le due Austrie, Croazia, Ungheria), la Bosnia, la Serbia, la Bulgaria, la Turchia propria, la Rumenia, e da qualche tempo la Russia, anzi persino la Siberia”. Interessante notare anche quelle colonie che si vennero a formare nel nuovo mondo; dalle vallate partirono operai che si stabilirono soprattutto nel nord-est statunitense “questi operai costituiscono piccole comunità carniche in Pensylvania (a Pittsburg, o sui monti Allegheny), nel Maine, nella stessa regione di New York”.
Il flusso migratorio fu esclusivamente temporaneo; esso si verificava “nella stagione di primavera per i muratori, tagliapietre, segatori di legname, boscaioli, braccianti in genere ed arrotini ed in autunno per i tessitori, sarti e domestici. I primi sono in netta prevalenza e l’emigrazione permanente è in questa fase, del tutto sconosciuta”.
L’emigrazione temporanea, vide da una parte coloro che con “mezzi civili”, seppero vincere la concorrenza degli indigeni, fino ad “ottenere sovente salari maggiori”; si trattava dei “Polier, capomastri, che compresero la necessità di coltivare con lo studio le proprie conoscenze professionali, di educare l’intelletto nelle scuole d’arti e mestieri e la mente con le letture e con lo studio delle lingue”. A quest’ “aristocrazia del lavoro”, si affiancavano una miriade di braccianti e contadini che venivano occupati nelle fornaci, nei lavori di sterro e nei lavori inferiori non specializzati, dove primaria era la forza fisica e modiche le richieste salariali. Questi ultimi per avidità di guadagno e ossessione del risparmio potevano ridursi ad attuare una concorrenza fatta di stenti e di privazioni, malamente equilibrata da “fenomenali libazioni”.
Questi contingenti di lavoratori venivano reclutati attraverso dei mediatori incaricati di mantenere i contatti con le imprese soprattutto tedesche. A volte questo compito spettava agli stessi polier ai quali si rivolgevano i capi-opera dell’estero; essi reclutavano operai di loro conoscenza, formavano squadre di lavoratori, trattavano le condizioni di ingaggio, le paghe, e amministravano i proventi, di norma ricevendo un compenso per il reclutamento degli operai e per le spese relative, che veniva fissato un tanto per individuo. La loro attività comunque si distingueva da quella degli imprenditori e sub-imprenditori italiani, ai quali furono note e normalmente applicate “le arti dello sfruttamento più raffinato”.
Essi “esplicano l’opera propria della gestione delle fornaci”, stipulavano contratti molte volte orali e senza testimoni, altri scritti e per la scarsa conoscenza della lingua, infarciti di cento patti poco chiari. Le loro arti di reclutamento si rivolgevano al contingente più rozzo, meno colto dell’emigrazione che, incapace di un controllo, di una efficace protesta qualsiasi, veniva abbruttito nel lavoro più estenuante; quando poi imperversavano crisi o all’orizzonte si prospettavano scioperi, e la disoccupazione dilagava, costoro “che non furono educati in una lunga scuola alla solidarietà”, rompevano i patti comuni con gli altri operai e cedevano alle lusinghe dei capitalisti. Subito famosi per la triste piaga del crumiraggio, gli emigranti furono utilizzati contro operai in sciopero nei cantieri tedeschi, austriaci, svizzeri, francesi, che si videro sostituire da squadre di lavoratori italiani e friulani, etichettati come “Krumiri”o “scabs”, o “sarrasinis” o “ Streikbrecher”. Gli operai delle fornaci, per esempio, “lavorano dalle 3,30 del mattino alle 9 della sera 16 o 17 ore di lavoro con due ore d’intervallo (½ alle otto del mattino, 1 a mezzogiorno, ½ alle 17). La loro vita sembra non abbia nulla di umano; non hanno rispetto del riposo settimanale e sovente interrotto e guasto anche quello della notte. Vanno facilmente soggetti a mali intestinali e reumi; l’anchilostomia è fra loro diffusissima. Nelle piccole fornaci e in quelle non provviste di macchine, lo sfruttamento del lavoro è incredibile” .
Il marchio del crumiraggio segnerà indelebilmente l’operaio italiano, il quale anche dopo il suo ingresso in organizzazioni di tutela come i sindacati, fu “generalmente calcolato (anche se organizzato) come un essere inferiore e questo non tanto dagli imprenditori, quanto dai medesimi compagni tedeschi” perché bollato come sabotatore di scioperi. Ciò avvenne ad esempio durante lo sciopero degli edili di Halle (Germania) i quali furono traditi nelle loro migliori speranze da un migliaio di crumiri italiani, e da allora in poi “in quella città simpatica gli italiani sono stati odiati tanto che nessuno più ha potuto metterci piede”. Da Hattingen nella Ruhr un operaio scriveva al lavoratore che “è vero- pur troppo- che anche essendo organizzati si ha un trattamento non molto gentile dai compagni tedeschi i quali ci calcolano come i cinesi; ma (…) questo è un po’ colpa nostra perché non frequentiamo le assemblee e non diciamo le nostre ragioni ai compagni tedeschi” e concludeva dicendo “organizziamoci e quando saremo organizzati tutte le cose muteranno di molto”. Come si vedrà più avanti non fu un caso che tra le contromisure adottate dal Segretariato dell’Emigrazione contro il crumiraggio ci fu quella di indurre gli emigranti a iscriversi “alle organizzazioni operaie all’estero a fine di prevenire incresciosi conflitti”derivanti dal crumiraggio.
È importante ricordare che nei primi anni del ‘900 il dibattito sull’emigrazione cominciava a interessare l’opinione pubblica ed ad entrare in quelle dinamiche socio-politiche alle quali la classe dirigente non poteva sottrarsi.
Il pensiero corrente consolidato negli anni verso il fenomeno dell’emigrazione vedeva la parte liberale inizialmente divisa: da una parte l’emigrazione fu “un’occasione per realizzare un espansionismo Italiano all’estero, una pacifica penetrazione in altri continenti,” un problema “consolidato e divenuto tradizionale della montagna, sfogo per quella disoccupazione che è pensata inevitabile in zone a scarsa produzione agricola.” e dall’altra si lamentava che “l’emigrazione sottraeva operai alle loro industrie e coloni alle loro campagne”.
Quindi la non presa di coscienza del vero problema, cioè la mancanza di uno sviluppo di infrastrutture delle zone più arretrate ed esportatrici di manodopera, poneva la classe politica dirigente in uno stato di acquiescenza nei confronti delle cause sopra elencate. La mancata costituzione di un ceto medio illuminato che potesse dar vita ad attività industriali e la conseguente valorizzazione della forza lavoro del luogo, fu un’occasione mancata che spianò la strada alle nuove idee socialiste.
Ciò cominciò a denotarsi dal cambiamento d’opinione alla fine del XIX secolo quando andò “definendosi un anti-emigrazionismo che unisce settori liberali e socialisti riformisti”, i quali cominciarono a guardare il lavoro super-sfruttato, dequalificato soprattutto di donne e bambini, come ad una piaga che nasceva da un mancato sviluppo economico interno al territorio (problema che accompagnerà le valli alpigiane fin ben oltre la seconda guerra mondiale).
Veniva così finalmente riconosciuta la “questione sociale” come problema di fondo, e si cominciarono a prendere provvedimenti legislativi per fermare l’emorragia della “nostra immane esportazione di braccia”(posizione condivisa anche da Giovanni Valar, direttore del quotidiano tedesco l’Operaio Italiano) . A tutto ciò ora si affiancava anche la visione di una patria matrigna, come esprime nelle sue memorie statunitensi “il soldato dell’esercito del capitale”, Giacomo Fabian: “ingrata matrigna la nostra terra tiranna ci fu.” Andava ad evidenziarsi la critica al nazionalismo liberale “che chiede il sangue di tanti operai ed artigiani per le guerre di conquista coloniale e nega loro il lavoro in patria.”
La Chiesa fu la prima a cogliere i mutati atteggiamenti culturali e mentali del nuovo emigrante, come si evince nella relazione Ad Limina del Vescovo di Udine, Andrea Cassola. L’emigrazione veniva etichettata come uno degli “allettamenti più pericolosi, le cadute nella lussuria, le bestemmie, le liti… i principi erronei che talvolta si tenta di insinuare e diffondere,” e ancora sul Crociato, giornale cattolico, si leggeva: “il nostro popolo è disingannato dalle promesse dei conservatori, esacerbato per il lungo servaggio (…) l’alleanza del prete col capitalista è efficacemente messa alla gogna davanti alle folle che bestemmiano agli sfruttatori.”
L’emigrazione “povera e cenciosa sfruttata che porta con sé i vizi dei paesi industrializzati dimenticandosi della sua casa e della sua famiglia, nonché della fede e della salvezza dell’anima, che trova anche una parallela rispondenza negli ambienti del nascente socialismo riformista friulano,” pian piano tende a trasfigurarsi verso l’ emigrante “ribelle, socialista, anarchico, imbevuto di principi sovversivi”.
Così nell’inchiesta del 1909 condotta nei comuni di Udine dall’ispettore del lavoro Guido Picotti, alla domanda se utile o dannosa l’emigrazione, il comune di Amaro rispondeva che “l’emigrazione è utile nel senso delle risorse che porta seco, ma è poi dannosa nel senso che gli emigranti si corrompono nei costumi, nel carattere e nella condotta. Prepotenti perché socialisti, refrattari ad ogni disciplina di legge dello stato e spesso molesti alle autorità ed alla vita sociale dei ben pensanti (…) sempre proclivi allo sciopero, al disordine, alle pretese che esuberano alle regole della vita sociale del lavoro.”
Lo stesso aggiungeva che in Carnia “la maggior parte dei risparmi” degli emigranti “finisce all’osteria” procurandogli danni dal punto di vista morale: “gli operai emigranti d’inverno vogliono godere e per loro, il maggior godimento è quello di prendere la sbornia”.

1.5. Gli emigranti come “emissari del socialismo”.

In uno dei giornali più autorevoli del socialismo friulano d’inizio ‘900, la prima pagina si apriva con il titolo “Primavera proletaria in Carnia” e continuava :

“dalle belle vallate, divise dall’alte rocciose montagne che sono la rabbia dei venti, a noi arriva l’eco d’un gran movimento. (…) La vostra cooperativa o compagni, che ha ormai rassicurato basi tetragone, che sapranno indubbiamente resistere a tutti gli assalti che la classe borghese, ferita ne’ suoi interessi di sfruttatrice del proletariato (…) diverrà in breve tempo un focolare di provvide e sane energie radianti (…). Sarete così voi all’avanguardia d’ogni movimento, a voi guarderanno sempre fidenti e la storia delle ascensioni proletarie segnerà a caratteri profondi ed imperituri l’opera vostra: opera di redenzione.”

Da queste parole possiamo notare come la zona montana fu all’inizio del XX secolo il punto di riferimento del movimento operaio.
Ma questa coscienza di classe da dove nacque? Quali sono le basi su cui si fondò e si costruì questo proletariato di sane e provvide energie radianti ?
L’inizio del secolo vide le prime organizzazioni di forze operaie e contadine far riferimento ai temi anarco-socialisti, all’interno di un grande ciclo di lotte dei lavoratori che si aprì negli anni ’90.
L’Italia era un paese agricolo nel quale lo sviluppo di un proletariato di fabbrica, escludendo quello siderurgico e meccanico dei nuclei urbani, fu pressoché inesistente. Alla fine del XIX secolo non si erano ancora formate masse operaie nel senso moderno della parola; il proletariato italiano nella sua maggioranza non conosceva la fabbrica e se si, non si trattava di operai veri e propri, ma di contadini che stagionalmente vi lavoravano, specialmente donne e bambini. Esso si costituiva di operai non qualificati, braccianti, mezzadri, artigiani ed anche intellettuali. Questi gruppi sociali, che si sentivano emarginati, erano facilmente attratti dall’idea dell’insurrezione armata e dal gesto capace di abbattere lo stato che, con le sue oppressive istituzioni, era (per loro)solo l’espressione di gruppi capitalistici.
Anche se “l’attività anarchica è ricordata lontanissima nel tempo ed ha riscontro nella sezione di Pradumbli, una delle prime in Italia” e se “nell’inverno del 1897 nasce a Prato Carnico il circolo Educativo Democratico Operaio, poi sezione 267 del partito socialista italiano, la terza sezione del Friuli,” l’incontro tra le idee socialiste e libertarie e le future organizzazioni operaie della Carnia, presupposero un intervento esterno all’influenza del socialismo ufficiale indigeno. Questo fondamentale elemento è incarnato nelle migliaia di emigranti che divennero gli “emissari del socialismo ”.
Questi emigranti portarono iniziative di socialità, anarchia e marxismo, idee apprese all’estero e che vennero trasferite in zona nel rientro stagionale; essi attraverso le organizzazioni sindacali tedesche entrarono in contatto con una nuova visione del lavoratore. Come visto fin dall’inizio, gli stati che maggiormente videro il maggior flusso di emigranti furono l’Austria, dove il friulano per la prima volta “sentiva parlare di assistenza in caso di infortuni sul lavoro, di indennità di disoccupazione, di pensione di anzianità,” e la Germania dove l’ultimo decennio del secolo viene ricordato come il “decennio dei sindacati ”.
A contatto con le organizzazioni operaie tedesche gli operai emigranti cominciarono a sviluppare un sentimento di appartenenza, d’unione al di là delle differenze di nazionalità come dimostrarono gli scioperi dei falegnami carnici insieme a quelli tedeschi per ottenere l’aumento della paga: “anche noi abbiamo dovuto fare un mese di sciopero –dal 18 aprile al 18 maggio- per restare d’accordo con questi lavoranti falegnami,” così come nell’aprile del 1900 a Graz (Stiria) per la seconda volta venivano interrotti i “vani tentativi dei socialisti” di portare a termine una loro riunione, bloccata dall’irruzione di capi-mastri e sgomberata dalla polizia. Internazionalismo, anticlericalismo, antimilitarismo (tendenza quest’ultima che si rafforzò soprattutto dopo l’impresa italiana in Libia nel 1911) divennero le parole chiave del nuovo bagaglio culturale degli emigranti, portatori di una “nuova visione del mondo, condizionata fortemente dall’universo concettuale proprio delle organizzazioni tedesche. Emergeva innanzitutto una forte identità di classe, nella polemica contro il prete e l’aristocrazia paesana, e lo spiccato internazionalismo come sentita necessità di solidarietà operaia internazionale.”
È interessante osservare che “la situazione della Carnia costituisce un caso evidente di come il fenomeno migratorio introduca idee e atteggiamenti nuovi che sconvolgono le abitudini, il sistema di valori della comunità;” questa nuova ondata migratoria sottintendeva una mutazione di pensiero del classico lavoratore stagionale, un cambiamento radicale dei suoi valori. Oltre alla crescita e alla maturità di una coscienza civile e morale vi fu anche un profondo e vivo interesse verso nuovi tipi di cultura. Dai paesi tedeschi, austriaci, poi francesi, svizzeri e americani “anarchici o socialisti, rivoluzionari o riformisti, ribelli o evoluzionisti, tutti i lavoratori quando rientrano nella valle portano con sé libri e giornali e diffondono un sentimento di apertura e di sensibilità verso le idee di progresso e verso ogni tipo di conoscenza e novità culturale. I numerosi romanzi a sfondo sociale e i testi classici dell’anarchismo e del marxismo, circolanti fin dalla prima internazionale, sono letti avidamente per decenni e sedimentano nella coscienza popolare una cultura di classe simile a quella del proletariato dei centri urbani più avanzati.”
Le idee di emancipazione operaia e dei diritti dei lavoratori cominciarono a essere ovunque dibattute nelle borgate della Carnia, come evidenzia la diffusione de L’Operaio: “in Carnia il giornale viene letto avidamente dagli operai ai quali il socialismo non è cosa nuova abituati a recarsi ogni anno in Germania,” o anche da “La Lotta, Il Seme, La Critica Sociale, e più avanti La plebe, L’Avanguardia, La Folla, L’Avanti che diffondevano le nuove idee con irresistibile forza, creando nuovi adepti”. Tutto ciò mi è stato anche ribadito da Ido Petris il quale mi disse che: “a Pesariis come a Pradumbli prima dell’avvento del fascismo c’erano delle biblioteche con libri che venivano letti da tutta la comunità, per esempio vi era la sezione naturalista di Darwin o i libri di Bakunin, arrivavano poi riviste anarchiche come Il Libertario”; così nella prima assemblea del circolo socialista di Prato Carnico, all’oggetto III veniva dato incarico al consiglio di “disporre del capitale per acquisti di libri e riviste basandosi sul capitale incassato”.
Lo stesso Fermo Solari (Prato Carnico 1900-Udine 1988), ricorda nella sua biografia che quand’ era piccolo all’inizio del ‘900 lui e i suoi coetanei “spesso sentivano dai più grandi i nomi di Marx e Bakunin e capivano che quei giovani la sapevano lunga” ; racconta di come rimaneva affascinato dalle “cravatte rosse a nodo piccolo su alti colletti bianchi dei socialisti”, e da “quelle nere a grande fiocco degli anarchici della piccola frazione di Pradumbli”, aggiungendo che ciò era “l’unico risultato positivo della emigrazione.”
Nel 1904 uscì il primo numero del Lavoratore Friulano, le innumerevoli sottoscrizioni a favore del giornale che arrivarono dall’estero sono la cartina tornasole di come l’idea socialista si espanse a macchia d’olio tra questi nuclei di valligiani. Vediamone alcuni esempi: da Garj W. (U.S.A) sottoscrivono “Giovanni Machin di Pesariis ? 1.25, Modesto Monaci ? 2, Giacomo Monaci salutando (alla larga!) l’ex maresciallo L.G. di Pesariis con ? 2.25”; da Nandorheghy “Petris Antonio con cent.50 e Casali Antonio 50, protestando contro i succhioni del pubblico denaro”; da Pittsburg (U.S.A) “raccolte dal compagno Giacomo Troian fra emigranti da Prato Carnico: Troian Giacomo ? 7, Cimador Antonio 5, D’Agaro Osvaldo 1, Cleva G. B. 1, Strazzaboschi Giacomo 1.25, Gonano Osualdo 2.55, Maria Gonano 1.25, Gonano G.B. 1.25, Igino Capellari 1.25, Marchin Giovanni 1.25, Solari Giuseppe 0.50”; da Prato Carnico “raccolte tra compagni a mezzo Puntil Ottavio plaudendo a don Marcuzzi che va vestito da maschera al Consiglio provinciale (…) perché siamo in Carnevale!”; e ancora “Petris Lisa infischiandosi di certe autorità, Petris Giacomina protestando contro i falsari dell’anticlericalismo di Pradumbli, Petris Antonio invitando i socialisti di Prato Carnico a fare propaganda antimilitarista e antistatale, Casali Lorenzo protestando contro i socialisti di Prato che fanno battezzare i figli e sostengono la morale religiosa”.
I protagonisti che ebbero ruoli e cariche attive nell’ambiente operaio del comune di Prato Carnico furono in gran parte giovani nati tra il 1870 e il 1880, personaggi come: “Ottavio Puntil, scalpellino, emigrato in varie località della Germania, in Siberia e in sud-America, futuro segretario della Sezione Socialista di Prato Carnico”, Giacomo Fabian (dal 1909 negli USA) e Giacomo D’Agaro”, muratori emigranti in varie località della Germania e dell’attuale Polonia impegnati nell’organizzazione sindacale dei lavoratori emigranti; “Pietro Pontel e Antonio Petris, boscaioli veterani dell’emigrazione in Romania e in particolare nel piccolo centro di Brezoi, sulle alpi transilvaniche, socialista il primo e anarchico il secondo”.
Poi ancora “Carlo Agostinis, muratore, Sebastiano Pomarè, Giovanni, Romano e Giuseppe Toniutti, Osvaldo Lucchini, Giobatta Cleva, tutti muratori, presenti in varie località della Germania”; Muratori come “Giovanni e Giacomo Monaci, Osvaldo, Giacomo e Giuseppe Gonano, Giacomo Troian, che sottoscrivono per anni in favore della stampa socialista dagli Stati Uniti. Giacomo Martin e Giacomo Martin Negus, Luigi e Gioacchino Martin, Carlo Giorgessi, Giuseppe Giorgessi, Lugano e Federico Cimador, Giacomo Leita , Giacomo Leon, Leonardo Solari, Giosuè Fedeli, Luigi D’Agaro e Giovanni Casali e molti molti altri ancora.”
Ad essi si aggiungeva l’attività di propaganda svolta da persone che ebbero una presenza più costante sul territorio, come Mattia Troian, corrispondente da Prato per il Lavoratore Friulano, attivo polemista dai banchi del consiglio comunale, cassiere della Casa del Popolo e presidente negli anni che precedono la prima guerra mondiale della Società Operaia. Il Dottor Luigi Grassi-Biondi, medico del comune, intellettuale di origine siciliana, allievo del poeta Mario Rapisardi e del clinico napoletano Antonio Cardarelli, dai quali apprese convinzioni positiviste ed umaniste. Attivo nella Società Operaia fu tra i primi aderenti al circolo socialista e per questo dovette subire un tenacissimo boicottaggio da parte della borghesia locale. O ancora il “fabbro Carlo Capellari e Giovanni Cleva, impiegato e tecnico dell’industria del legname che sarà uno dei protagonisti del movimento socialista friulano e carnico”.

Il linguaggio fatto di slogan e di formule che riguardano la cosciente preparazione ed organizzazione del movimento operaio carnico, sono componenti culturali che filtrarono dalle organizzazioni politiche estere.
L’internazionalismo intransigente che poneva l’unità operaia al di sopra dell’appartenenza nazionale, si evidenziava in iniziative che si richiamavano all’unità con i fratelli tedeschi: “i nostri fratelli italiani dell’arte muraria cominciano a comprendere l’interesse immediato, il dovere che hanno di organizzarsi al fine di contribuire con la loro solidarietà a mantenere elevati i salari e possibilmente ad aumentarli,” e ancora “è necessario che gli emigranti friulani s’iscrivano alle società di resistenza austriache, come consiglia il Segretariato dell’ Emigrazione”.
All’interno dei gruppi operai emigranti si cominciava a sperare che in breve tempo si cancellasse “il ricordo del crumiraggio friulano” e che tutti loro potessero “ritornare alla patria lieti del dovere compiuto, rispettati ed amati dai compagni di qui come veri fratelli e non fuggiti come carne al primo negriero offerente”. Le denuncie contro crumiri sia singoli che in gruppo, dei capi-crumiri o degli impresari capi-crumiri sul Lavoratore Friulano nella rubrica In terra d’esilio sono un esempio lampante di come gli emigranti cominciarono a prendere coscienza della loro situazione; da Berlino alcuni compagni denunciarono come durante uno sciopero ad Altwasser-Waldemburg, “i crumiri friulani hanno voluto distinguersi, attirando su tutta la massa onesta dei nostri lavoratori l’antipatia ed il disprezzo di queste popolazioni”.
Le nuove idee cominciarono quindi a penetrare e sedimentarsi nei lavoratori dall’estero attraverso le organizzazioni sindacali, e al loro ritorno a casa venivano divulgate nella comunità locale tramite giornali, opuscoli, libri, propaganda; gli operai emigranti per lenta osmosi appresero le idee socialiste, stringendo rapporti una volta tornati in patria con quei pochi borghesi, in genere come vedremo liberi professionisti o maestri, trasferitisi in Carnia da altre regioni d’Italia, con convinzioni socialisteggianti o democratiche. Parallelamente essi trovarono un terreno già predisposto grazie a organizzazioni che da tempo univano la solidarietà al mutuo soccorso.
Credo che sia questo il doppio binario che si debba percorrere contemporaneamente per comprendere l’evolversi del movimento operaio in Val Pesarina che diverrà sempre più forte; proviamo quindi a vedere le componenti che andarono a formare questo doppio percorso.

1.6. L’ Operaio Italiano e il Segretariato dell’Emigrazione.

In Germania dal 1898 veniva stampato l’Operaio Italiano, settimanale in lingua italiana redatto dalla Federazione Muraria Tedesca di Berlino (il cui presidente fu Karl Liegen, dirigente del potente comitato sindacale), diretto e curato dal suo segretario, Giovanni Valar. La sua funzione fu duplice: formativa della coscienza sindacale ed informativa riguardo a tutte quelle notizie utili ad una appropriata conoscenza dello stato del mondo del lavoro, quali gli scioperi, i boicottaggi, le serrate ed le azioni di crumiraggio per cui gli italiani erano famosi.
Il giornale proponeva per quest’ultimo punto il massimo impegno così : “da Amburgo e ora da Berlino, per più di tre mesi a lungo pubblicò articoli roventi contro i friulani traditori e mise in testa alla prima colonna, in un trafiletto intitolato Alla gogna, i nomi di più imprenditori friulani capi crumiri;” quelli che danno il maggior contingente “alla bella schiera, sono di Ovaro, Osoppo e di Venzone”; Renzulli inoltre ci informa che l’unica copia rinvenuta nell’archivio del municipio di Lauco, contiene un elenco di muratori crumiri residenti nel comune. In essa veniva raccomandato caldamente ai compagni “la medicina” che era stata proposta per un caso analogo ai crumiri di Venzone: “quest’inverno a casa facciamo una propaganda attivissima per far comprendere agli ignoranti il male che fanno e il danno che recano ai loro confratelli, all’emigrazione e a se stessi”; e riguardo ai capi crumiri raccomandava di boicottarli “senza misericordia” soprattutto a primavera facendo si che non trovino un solo operaio disposto a credere alle loro parole e a seguirli all’estero così che “i padroni e gli imprenditori non sapranno che farsene di loro, e li cacceranno via a pedate”.
Lo stesso poneva in risalto le attitudini allo sfruttamento dei lavoratori friulani; in una circolare della Lega Imprenditori Edili di Konisberg del 23 luglio 1902, pubblicata nell’Operaio Italiano di Amburgo del 9 agosto 1902, diramando gli indirizzi di una ventina di imprenditori friulani, ai quali poter rivolgersi per avere operai in caso di sciopero, diceva che “gli operai del Friuli sono riconoscenti per giornate lunghe di lavoro e quando possono avere la comodità di dormire a poco prezzo”; contemporaneamente svolse attività d’informazione, educazione e di avvicinamento alle organizzazioni operaie proponendo conferenze e stampando opuscoli in lingua italiana.
Lo stesso Valar sarà presente a lungo in molti paesi della Carnia e del Friuli per giri di propaganda e attività organizzativa sino al primo dopoguerra. Lo troviamo presente al V congresso degli emigranti a Gemona indetto il 29 gennaio 1905; l’11 marzo l’organizzatore compie giri di propaganda in tutto il Friuli convincendo gli operai “che nella morale della fratellanza e della solidarietà quello (il crumiraggio) era un nuovo reato”.
Grande importanza riveste il nesso che egli vide fra l’emigrazione e la depressione economica friulana: “l’emigrazione cessa di essere un dato fatale ed immodificabile della vita economico-sociale del Friuli, bisogna renderla più produttiva e diminuirla attraverso scuole elementari e complementari invernali per adulti, scuole professionali, insegnamento del disegno d’arti e mestiere, geografia, tedesco. Inoltre bisogna studiare misure atte allo sviluppo delle energie locali, dell’agricoltura e dell’industria. Coordinare e stimolare l’attività delle società operaie, ma soprattutto dei comuni e dello stato.” Per i festeggiamenti dei dieci anni di battaglia dell’Operaio Italiano lo stesso Valar disse: “ora possiamo dire che il crumiraggio inteso nel più brutto senso della parola e considerato come specialità italiana, è quasi finito; ciò nonostante l’intesa tra gli italiani diramati in Germania e i tedeschi organizzati nelle federazioni di mestiere non è ancora perfetta, come si avrebbe diritto attendersi”.
In Friuli l’azione del Valar fu in stretta relazione con quella di tutela degli emigranti, che fu affidata al Segretariato dell’Emigrazione, “organismo atipico, con caratteristiche sia di società di miglioramento, sia di moderna camera del lavoro”.
Questo nacque a Udine nel 1899 su spinta di Giovanni Cosattini, fin da giovane vicino alle idee socialiste, con “un’impostazione e con intenti chiaramente progressisti;” egli fu membro della commissione esecutiva, conferenziere, propagandista, relatore in tutti i congressi che annualmente il segretariato indiceva nell’uno o nell’altro centro friulano. L’intento dell’organizzazione fu quello di combattere il crumiraggio internazionale attraverso collegamenti con le centrali sindacali estere spingendo gli emigranti ad “iscriversi durante la emigrazione alle organizzazioni operaie dell’estero”, quella di “svolgere opera di assistenza e tutela contro le frodi e truffe” allora frequentissime, ed anche di “promuovere e diffondere cooperative di lavoro al fine di favorire la diretta assunzione di lavori ed il risparmio mutuo e collettivo”. Dal 1903 fu chiamato alla direzione del segretariato Ernesto Giuseppe Piemonte, dottore in agraria, piemontese di Canelli, che da allora e sino alla morte rimase in Friuli e divenne uno dei principali esponenti del socialismo friulano. Inizialmente apparve all’opinione moderata come un abile compromesso fra istanze filantropiche, democratico-progressiste ed operaie, perciò con il volto rassicurante del servizio di pubblica utilità.
Ma sin dalle sue prime azioni il segretariato fu sempre “saldamente in mano dei socialisti, che ne fecero un potente vettore di propaganda politica e sindacale.” Il leit- motiv che si proponeva fu “la necessità di trasformare l’assistenza dovuta agli emigranti in quella auto-assistenza che trova i suoi più validi strumenti nell’organizzazione di mestiere nazionale ed internazionale e che viene tessendo l’internazionalismo sindacale.”
Anche ai livelli più alti del Partito Socialista ci fu una presa di coscienza dell’importanza della questione emigrazione “dalla lucida impostazione di Labriola al congresso di Zurigo dell’agosto del 1893, in cui si proponeva ai partiti socialisti d’Europa di affrontare il problema migratorio secondo uno spirito internazionalista, ai deliberati del congresso di Reggio Emilia del settembre dello stesso anno, che invitavano i lavoratori ad aderire alle organizzazioni sindacali dei paesi d’immigrazione.”
Fino alla grande guerra, il segretariato svolse un’intensa attività di tutela legale e di assistenza, anche in campo sindacale, contribuendo non poco a regolamentare e migliorare le condizioni di un’emigrazione imponente e caotica, “preda di truffatori di ogni nazionalità e tale da suscitare forti reazioni anti-italiane in alcuni dei paesi maggiormente interessati”. La sua attività fu in stretto contatto con l’Umanitaria diretta dal deputato socialista Angiolo Cabrini, l’Edilizia, l’Unione Muraria germanica e l’organizzazione dei fornaciai dell’Austria”.
È importante ricordare che questa non fu l’unica istituzione che si creò per tutelare gli emigranti poichè quattro anni dopo i cattolici crearono il Segretariato del Popolo. L’istituzione fece parte di quel “grande risveglio che si verificò fra i cattolici friulani alla fine del secolo,”seguendo le orme dell’enciclica di Leone XIII del 1891 d’impostazione sostanzialmente antisocialista. L’enciclica pontificia incoraggiò dovunque in Europa la presa di coscienza politica e sociale del cattolicesimo; i cattolici italiani nel 1894 elaborarono a Milano un Programma dei cattolici di fronte al socialismo, nel quale, rifiutate le soluzioni proposte dal socialismo, auspicavano un restauro sociale cristiano da realizzarsi con interventi straordinari dello stato, attraverso la creazione di corporazioni e, più realisticamente, con l’organizzazione di veri e propri sindacati cattolici.
In Carnia i tentativi d’intervento del mondo cattolico nelle organizzazioni operaie furono disparati, dalla fondazione di latterie, alla fondazione di casse rurali e cooperative di consumo come quella di S. Canciano a Prato Carnico, le quali però, come vedremo, ebbero poca fortuna.
Il Segretariato del Popolo si basò su di “un articolato programma di emancipazione morale prima ancora che economico e sociale; più specificatamente per opera di Don Eugenio Blanchini, erano stati costituiti degli uffici di corrispondenza, per l’assistenza religiosa, morale e materiale degli emigranti nel vicino Impero Austro-Ungarico e precisamente a Villaco, Linz, Kwittefeld, Leoben, Vienna, Graz, Lubiana, Klagenfurt. Presso questi uffici avevano sede, durante l’estate, pure le missioni religiose dei sacerdoti friulani, per portare conforti spirituali ed anche materiali”. Come le due organizzazioni divennero punto di riferimento per il popolo degli emigranti, è evidenziato nel 1909 dalla pubblicazione dei bilanci dei due enti: “i soci del Segretariato del Popolo (la quota era di cent. 50 l’anno) avevano versato lire 1.103,35, mentre quelli del Segretariato della Emigrazione avevano versato lire 6.402,42. Questo dimostra che la penetrazione socialista tra gli emigranti era di gran lunga superiore a quella cattolica e spiega le fortune socialiste nelle zone montuose, in particolare della Carnia”.
Gli istituti socialisti si diversificavano da quelli confessionali in quanto non avevano “carattere di beneficenza”, traevano le loro forze unicamente dalla organizzazione degli interessati e portavano “la loro assistenza solo a chi si eleva per coscienza, per istruzione, a chi sa conquistare la tutela che gli è dovuta”.
Dal 1906 si aggiunse anche la stampa di un bollettino chiamato l’Emigrante, con lo scopo di “divulgare tutto il cumulo di notizie, di idee da agitarsi, di programmi cui dar vita, poiché è essenziale che le proposte tracciate dai congressi, l’opera del Consiglio direttivo siano sistematicamente portate a contatto col movimento, affinché sullo stesso possano esercitare tutta la loro utile influenza.”
Elementi essenziali rimanevano comunque gli stessi emigranti, preparatori del terreno favorevole all’accoglimento delle nuove idee e fermenti: “questi buoni montanari quando nell’inverno fanno ritorno al paese natio ogni sera invece di abbruttirsi all’osteria, si raccolgono nel loro circolo e colà si istruiscono ed ammaestrano, non dimenticandosi, quando ad essi è possibile, di fare nei paesi vicini quella propaganda spicciola la quale ha procurato tante radici nel socialismo in Carnia.”

1.7. La presenza delle donne.

Si è vista l’interdipendenza tra il movimento migratorio della Carnia e la diffusione di nuove idee che si rifacevano al socialismo del primo ‘900. Un movimento nella gran parte fatto di uomini, “maschi dai 12 ai 40-50 anni” che però non furono i soli ad emigrare e a partecipare agli eventi che segnarono le conquiste operaie.
Da un articolo dell’ispettore del lavoro Guido Picotti si legge che “l’emigrazione femminile in Carnia si può calcolare nel numero di 900 sull’emigrazione totale,” di queste “un terzo è costituito da domestiche o donne di servizio; un altro terzo o poco più da donne che vanno all’estero col marito o con i genitori per accudire le faccende domestiche, per preparare il vitto a comitive di operai riuniti; le altre vi vanno per dedicarsi a lavori manuali e specialmente a portar malta.”
Quando i maschi emigravano, esse “grosse, forti, tozze e laboriosissime” erano le sole a rimanere con vecchi e bambini e ad accudire i lavori domestici e quelli dei campi: “colle braccia delle donne che lavorano da manovali si costruiscono i ponti, strade e si formano le dighe sulle rive del Tagliamento e di altri fiumi e torrenti; senza parlare del lavoro del campicello, delle fatiche della falciatura, della pastorizia e delle malghe che esse compiono”.
Così molte di loro vedevano il lavoro stagionale non come un sacrificio ma come un sollievo almeno nei propri riguardi, specialmente in considerazione dei faticosi lavori ai quali venivano a sottrarsi emigrando: “molte di queste ragazze cercano di sottrarsi ai lavori dell’agricoltura, pesantissimi, anche per mantenere la freschezza e la bellezza, alla quale un tempo preferivano la robustezza e la forza che era vanto delle carniche.”
L’emigrazione femminile comportò anche mutazioni dei costumi sessuali in quanto “l’assenza di controlli induce non solo ad una maggiore libertà sessuale ma anche all’apprendimento, soprattutto per quanto riguarda gli uomini, di nuove pratiche contraccettive.” Essa fu osteggiata dalla stampa cattolica che vedeva la donna per sua natura non “fatta per ramingare all’estero, ma per attendere alla casa,”con una propensione a bollare le donne e la ragazze emigranti come “prostitute condannate nella loro smania di emigrare e di emanciparsi dalle famiglie;” I parroci temevano “la perdita del pudore e della grazia, dal momento che queste sono senza custodia in terra straniera, sottratte ad ogni influenza religiosa.”
Non dobbiamo dimenticare che il sistema patriarcale aveva caratterizzato la famiglia fino a quel momento (elemento in parte riscontrabile ancora oggi nella società friulana) e che il ruolo maschile era quello del dominio e del sostentamento; questo è ben espresso dagli studi antropologici di Patric Heady, dove il ruolo maschile nella relazione sessuale viene pensato come un’affermazione di potere. Un simpatizzante autonomista gli disse di “non essere mona –gergale per vulva- e di voler difendere la sua cultura da coloro che volevano distruggerla”.
Il ruolo della donna inferiore era quindi quello della domestica e della madre, caratterizzato da reclusione e osservanze rigide. Tutto ciò è ben rappresentato se si guarda alla divisione dei compiti in casa la cui proprietà “è vista come un aspetto fondamentale del ruolo del maschio adulto, e simboleggia simultaneamente identità ed autorità;” e la cui proprietà “dà il diritto di decidere chi entra e chi esce.”
Non è possibile in questa sede accertare con sicurezza che con l’avvento delle nuove idee e culture portate dagli emigranti, si cominciò anche a scardinare quelle maglie rigide che soffocavano le libertà e i diritti del gentilsesso, ma è certo che non furono poche le componenti femminili che in prima persona si resero protagoniste di fatti eclatanti nel comune di Prato Carnico. Ed è proprio il gruppo di donne costituitosi in seno alla sezione socialista a divenire una presenza importante e ad essere protagonista, “fatto questo molto raro, eccezionale nel Friuli di quegli anni. Fra di esse, in gran parte familiari di emigranti, possono essere ricordate Albina e Teresa Pomarè, Filomena Puntil, Maddalena, Giacomina e Atonia Agostinis, Elisa Petris” che parteciparono attivamente con il gruppo maschile all’organizzazione del circolo e all’attività di propaganda.
Emersero personalità forti come Giacomina Petris, anarchica di Pradumbli, che negli incidenti della grande manifestazione contro la guerra a Villa Santina ingiuriò il questore e subì per questo lunghi anni di confino e molte furono le donne presenti nelle sottoscrizioni dall’estero per la stampa socialista. Da Pittsburg, assieme ai loro compagni, hanno sottoscritto per il Lavoratore Friulano “Margherita Machin, Emma Solari, Margherita Capellari, Palmira Troian, Romana Gonano”.