L’AFFERMAZIONE DEL SOCIALISMO
3.1. Il Circolo Socialista di Prato Carnico.
Il Circolo Educativo Operaio Democratico di Prato Carnico, poi sezione n. 267 del Partito Socialista, fu il primo della Carnia insieme a quello di Ampezzo e il terzo in Friuli. Iniziò la sua attività nel 1900 (“inizialmente ebbe sede dove oggi vi è l’hotel Canciani”) contemporaneamente a quello che “i numerosi documenti di polizia definiscono il gruppo anarchico.”
Nella prima relazione che sancì la fondazione del Circolo Socialista pesarino risultarono “presenti in numero 53” soci, e all’ unanimità vennero eletti come consiglieri: “Per Pieria Giosuè Fedeli fu Giobatta, per Osais Puntil Ottavio di Giacomo, per Truia Luigi Cimador, per Prato Carlo Cappellari di Giovanni, per Avausa Giorgessi Carlo fu Luigi, per Pradumbli Toniutti Giovanni, per Sostasio Leon Giacomo,” come segretario e cassiere venne nominato Giorgessi Giuseppe.
Ciò pone in rilievo come vennero rappresentate tutte le frazioni del comune e come “ai promotori certo non era sfuggita la necessità di garantire un collegamento con tutte le comunità dei paesi della vallata, dislocati lungo il torrente Pesarina e distanti l’uno dall’altro, nonché la necessità di un indirizzo unitario nell’azione, evitando l’insorgenza di questioni di ordine campanilistico.”
I termini come capofrazione o capogruppo ritornano frequenti all’interno dei verbali; essi sicuramente rappresentarono una figura sociale che ebbe e ancora oggi ha un significato profondo nella cultura dei villaggi carnici. Ricorda Ido Petris che “il senso di comunità e identità era molto forte e fino a poco tempo fa si parlava dell’Italia, intendo…come rappresentanza dell’autorità, come una cosa a parte. In questi paesi si viveva in una situazione quasi tribale dove lo stato era lontano e poco sentito. Nelle frazioni esistevano i Meriga, capifrazione eletti dalla gente del paese ogni anno che avevano il compito di visionare e far mettere a posto le strade, gli intoppi creati dalla neve, suddividendo i lavori in maniera equa…quando si riusciva...tra le diverse famiglie.”
Un’osservazione questa che sembra derivi da una preconcetta visione anarchica, ma che non può non essere stata influenzata da memorie e tradizioni che mantengono ancora oggi in vita quel forte senso di unione direi quasi parentali nelle comunità montane. Non è un caso che gli stessi elementi siano stati colti, in un altro paese della Carnia, da Patrick Heady ; ad Ovasta “ la comunità si occupava della manutenzione dei sentieri che conducono ai prati ed ai pascoli d’altura nonché delle strade che portano al paese quando le strade erano ingombre di neve,” e ancora oggi “ vi sono due corpi elettivi: la consulta, che rappresenta gli interessi del villaggio nelle trattative con il consiglio comunale; l’amministrazione frazionale che gestisce la terra di possesso collettivo e dispone altresì del profitto che ne deriva.”
L’autorità di villaggio fu sempre legata ad un controllo da parte della popolazione e ciò potrebbe far pensare che in essi vi fu un primordio di democrazia diretta. Un’ipotesi alquanto eccessiva, ma non bisogna dimenticare che in Carnia “la divulgazione dell’idea cooperativa veniva attuata su una larga base popolare di partecipazione, diretta ed indiretta, perché dal comune lavoro non traessero giovamento soltanto i soci, ma tutta la popolazione, con il fine ultimo di contribuire a combattere anche speculazione commerciale ed usura;” le idee libertarie e socialiste non potevano non trovare in questo tessuto sociale un terreno fertile in cui poter coltivare una “comunità operaia dai tratti e contorni di classe ben definiti.” L’utilizzo dei capifrazione all’interno del Circolo Socialista non fu un caso o un mero elemento organizzativo ma la naturale conseguenza derivante dalla tradizione, dal senso associazionistico che esisteva nelle latterie sociali, “manifestazioni originarie e spontanee di cooperazione, destinate a svilupparsi maggiormente in Carnia;” esperienze di cooperazione che poterono svilupparsi grazie ad uno spirito di volontarismo e di spontaneità, favorito dal contesto economico e sociale peculiare di queste zone.
Alla fine della prima seduta consigliare si deliberò che venisse “dato incarico ai consiglieri dei singoli paesi di riscuotere la tassa di ammissione e di versarla al cassiere segretario entro il giorno 7 corrente; nel giorno stesso il consiglio è incaricato di disporre del capitale per acquisti di libri e riviste basandosi sul capitale incorporato. L’assemblea delibera di avere una copia dell’Avanti in ogni singolo paese.” Il Circolo si abbonò anche ad altre riviste tra cui l’Asino, il Friuli, l’Evo Nuovo, Rivista Popolare, il Sempre Avanti, Il Lavoratore Friulano e il Divenire Sociale.
Il Circolo fu sostenuto in maggior parte da operai emigranti ed è per questo che tra le prime delibere fu deciso di “far stampare dei libretti per i compagni, il cui frontespizio doveva essere scritto in lingua tedesca ed in lingua italiana,” in maniera tale da divenire un lasciapassare che consentisse ai lavoratori di partecipare anche all’estero alle riunioni sindacali e politiche.
L’azione politica della sezione di Prato Carnico si sviluppò in un quadro nazionale e provinciale caratterizzato da quella “lotta per le tendenze, che si dispiegò agli albori dell’Italia giolittiana” all’interno del Partito Socialista Italiano.
Al riformismo di Filippo Turati (Como,1857- Parigi,1932) si contrappose la posizione intransigente dell’ala rivoluzionaria rappresentata da Arturo Labriola (Napoli,1873-1959); entrambi tentarono di dare una risposta ai lavoratori di fronte ad una “situazione mutata rispetto al clima novantottesco” e d’indirizzare la classe operaia e contadina ad “un’offensiva all’interno di una economia capitalistica in pieno sviluppo”.
La connotazione del circolo pesarino si basò, come si è potuto più volte sottolineare, su di un’impostazione operaista, che si richiamava “all’intransigenza ed alla rigida contrapposizione di classe”; posizioni queste che emersero via via nelle azioni e nelle scelte assunte dalla sezione di Prato Carnico nel corso del primo quindicennio del secolo.
È in occasione del settimo congresso nazionale del P.S.I. che si tenne ad Imola “entro la prima decade di settembre del 1902” che ebbe inizio “la lotta vera propria tra la tendenza riformista” turatiana e quella “sindacalista rivoluzionaria capitanata dal soreliano Arturo Labriola, cui si era unito Enrico Ferri”. Il circolo, che per questioni economiche non poté mandare nessun rappresentante, si dichiarò favorevole ad una linea “transigente”, quindi vicina al riformismo turatiano, tenendo però a evidenziare il primato del partito su ogni altra rappresentanza, anche di carattere parlamentare, in maniera tale che i “deputati siano moralmente obbligati alle richieste delle sezioni” e che nella direzione del partito “si introducano miglioramenti nel modo di funzionare, e specialmente quelli di eliminare dalla direzione i deputati socialisti”; da queste parole è evidente che pur appoggiando gli uomini e le tesi riformiste, l’assemblea “stabiliva in maniera inequivocabile, il primato del partito su ogni altra rappresentanza, anche di carattere parlamentare”.
Anche nel socialismo pesarino non tardò a mostrarsi l’esigenza di operare una netta distinzione fra “democrazia borghese e socialismo”, separazione che a livello provinciale si enunciò nello “scontro aspro e senza quartiere” fra la posizione più “rigida e classista” del giornalista udinese Libero Grassi direttore de L’Evo Nuovo, e quella più “elastica ed attenta ai fermenti degli ambienti democratici-borghesi” dell’avvocato Giovanni Cosattini. Divisioni in seno al circolo si fecero sentire per esempio nella risposta che con il titolo “Le cose a posto” venne inviata a L’Evo, che precedentemente si era compiaciuto del fatto che il signor Giorgessi in rappresentanza di Prato Carnico, avesse partecipato al Congresso ed avesse votato in favore dell’ordine del giorno Ferri. Precisazione che sottolineava che “per le sue speciali condizioni economiche non ha potuto inviarvi alcun rappresentante” e se avesse potuto avrebbe scelto una persona che “rispecchiasse l’opinione della stragrande maggioranza, opinione che si manifestò nell’assemblea generale del 31 agosto, dove proprio il Giorgessi votò per la sedicente tattica rivoluzionaria”; che il compagno Giorgessi non avvertì “questa direzione che si sarebbe recato ad Imola” ed infine che esso non poté rappresentare le idee della sezione ma bensì “quelle di un socialismo suo proprio”. Il Giorgessi rispose alle polemiche della sezione, sostenendo che riteneva logico che il circolo non avesse fornito alcun mandato di rappresentanza imperativo essendo “dei 50 e più iscritti, soli 27 all’assemblea del 31 agosto essendo gli altri all’estero” lasciando poi cadere la polemica. Questo fatto è significativo in quanto fa intravedere che anche all’interno della sezione pesarina esisteva un dibattito vivace sulle posizioni riformiste e rivoluzionarie.
Così non è da stupirsi se al IV congresso socialista provinciale del 1906, “il gruppo di Prato Carnico (Ottavio Puntil, Giacomo Leita, Giovanni Toniutti)” sostenne con grandissima decisione una tattica elettorale intransigente e autonoma, che rifiutasse alleanze con altri partiti.
Dagli stessi verbali si nota che fu proprio la linea portata avanti dal Grassi Biondi quella su cui s’indirizzò il circolo carnico nella prima decade del ‘900, una tendenza che venne definita dagli stessi aderenti “sindacalista”. Elementi intransigenti si colgono nella polemica della sezione verso “la Direzione del Partito e la Confederazione del Lavoro per l’azione svolta al fine di reprimere ogni virile azione” a riguardo dei ferrovieri scesi in sciopero in segno di protesta contro “gli infiniti eccidi commessi dalle guardie del governo sempre impunite se non premiate”. Il “fraterno saluto ai compagni di lotta che si agitano per la liberazione del proletariato da tutti quei politicanti e arrivisti che lo inquinano”(in un articolo del Lavoratore Friulano, l’ordine del giorno finiva con: “manda un saluto ai compagni di lotta che si adoperano per purgare il Partito da quegli arrivisti e politicanti che lo inquinano”!) rappresenta bene quello spirito di avversione verso “gli elementi estranei alla classe operaia” a quella politica di staticità fatta dai “predicatori dell’emancipazione del lavoro”, i quali ritenevano che il proletariato “non dovesse muoversi mai” . Coerentemente con questa linea non fu un caso che lo stesso Libero Grassi sia stato scelto dalla sezione di Prato Carnico, che allora contava “numero 80 soci”, come proprio rappresentante al “V convegno provinciale socialista ”.
3.2. “Giustizia è fatta”: la conquista socialista del comune di Prato Carnico.
Gli anni che videro la più grande realizzazione del movimento operaio della Val Pesarina, concretizzatisi nella costruzione della Casa del Popolo, sono quelli che parallelamente portarono alla conquista dell’amministrazione municipale da parte delle forze proletarie.
Nelle elezioni amministrative del 1902 la sezione socialista di Prato Carnico “scese per la prima volta” in lotta contro le forze clerico-conservatrici, dando prova delle “prime avvisaglie della battaglia per la civiltà, che si combatteranno in futuro”.
Da una lettura della stampa di questi anni, risulta in maniera evidente lo stato di agitazione dei socialisti contro il sistema amministrativo comunale: in un articolo datato 5 agosto 1905, si accusava lor signori di applicare tasse ingiuste per la costruzione degli acquedotti, in quanto “le tasse si devono pagare in proporzione alla ricchezza”, e non in maniera tale da “favorire e rafforzare quelle clientele delle quali lor signori hanno tanto bisogno”.
Molti sono gli attacchi alle inaudite forme di angherie, di soprusi, di ingiustizie e favoritismi che andavano a dilapidare i proventi comunali. “Bisogna epurare l’amministrazione comunale da certi parassiti e da certi sfruttatori” sembra il leit- motiv della cronaca dei corrispondenti da Prato Carnico: “con lo sfruttamento a Pesariis si diventa capitalisti allo stesso modo come certi sindaci possono impunemente fare i periti per conto del comune e possono far costruire a spese dello stesso certi ponti di lusso di dubbia utilità pubblica, così come certi ex marescialli, sebbene assessori, possono impunemente essere i sorveglianti remunerati della costruzione delle scuole e dei cimiteri appaltati da propri nipoti (senza avere mai preso in mano in vita loro la cazzuola) e deliberatarii delle aste per gli schianti dei boschi” e ancora denuncie sulla “spesa di lusso per il ponte di legno sul Pesarina, costruito per uso e consumo di quanti hanno fatto del nostro comune una preda, ed hanno lasciato tracce di sangue per la losca via dello sfruttamento”.
L’acutizzarsi della lotta tra i socialisti e i loro avversari, si fece ancora più dura quando da parte cattolica venne fatta cadere la pregiudiziale verso i liberali che con questi costituirono le liste cosiddette del “partito dell’ordine”, per bloccare l’avanzare dei socialisti. Già nelle elezioni amministrative dell’8 dicembre 1907, i socialisti videro nella conquista di “qualche scanno di più” nel consiglio comunale, un segno chiaro della sofferenza “di un regime abituale di angherie, di ingiustizie”; così anche ad Osais, lor signori “impastatori di preti” fecero più danno che bene, in quanto i compaesani mandarono al consiglio due socialisti, irritando molto i “forco-papisti”. Non è un caso quindi che “quelle accozzaglie di oppressori” che fino alle ultime elezioni amministrative avevano desolato il comune, nella prima seduta consigliare fecero in modo “che la maggioranza guidata da un ex maresciallo disoccupato, all’entrata dei socialisti abbandonasse la sala senza il coraggio d’una protesta”. Così la borghesia “affidando alla velocità delle proprie gambe il sollievo alla tremarella si squagliava all’avanzarsi del socialismo forte dei suoi diritti”.
Numerosi furono i reclami e le accuse verso il sindaco Polzot, responsabile dello “spreco” e dei “fori del pubblico denaro”, causa di un “enorme debito pubblico per la conduttura delle acque (su progetto dello stesso sindaco perito e non ingegnere, pel quale intascò la bella somma di circa 2000 lire) per dare alla popolazione la medesima acqua poco potabile di cui si era sempre servita” - e “a conti fatti l’acqua oltre a essere notoriamente non potabile riusciva salata ai contribuenti”.
Seguono cronache agguerrite per il disservizio sanitario che andava a rotoli essendo “affidato, in odio ai socialisti, a crumiri e incoscienti”. Si è già accennato all’ostracismo che subì il medico Luigi Grassi Biondi da parte del comune per le sue idee socialiste e delle inchieste sul suo operato e la sua moralità. Il circolo reagì attuando una campagna di boicottaggio contro lo stesso comune e i suoi rappresentanti, deliberando “che tutti i compagni coscienti si astengano dalle osterie tutte, massimamente da quei certi che dirigono il comune e che ci fanno sprecare i danari per i loro capricci”; e ancora in data 23 dicembre 1906 “dietro proposta di Fedeli Giosuè” il circolo deliberava “di astenersi da tutte le osterie e massimamente da quelle che sono di proprietà di quei tali che per il loro capricci fanno soffrire l’intero comune”.
Molti gli articoli che denunciano come l’amministrazione comunale “dopo aver per tre anni consecutivi aggravato i rispettivi bilanci per un importo di ?. 7500”, fece ricorso alla Giunta Provinciale amministrativa “per aumentare le aliquote sui terreni e sui fabbricati, già superanti i limiti di legge per ?.10700” , andando ad aggravare la situazione già precaria dei lavoratori che “si logorano la salute per ingrassare i parassiti”. Gli aiuti finanziari a determinate “latterie, al veterinario, all’associazione agraria friulana, alla mostra bovina” erano solo alcuni esempi che si andavano ad aggiungere alle “tante e migliaia di lire sprecate per i capricci di certi superuomini”. Altro versante fu l’istruzione; gli operai lottarono per l’apertura immediata di nuove scuole perché “se quelle esistenti hanno risposto fino a pochi anni fa alle prescrizioni legali, di igiene e della pedagogia, attualmente ciò non è più ammissibile per il numero sempre crescente degli alunni” e dato che è “la classe operaia” a pagare “con i propri sudori le tasse, che è sbalzata annualmente dalla famiglia, essa ha non solo l’interesse ma anche il diritto che la sua prole cresca con un’ istruzione sana e vigorosa senza che si trovino agglomerati in una stessa aula un centinaio di alunni ai quali deve soprintendere un solo insegnante.”
Il tentativo di conquista del comune da parte dei socialisti fu coronato con le amministrative del 1910:
“Mentre venti comuni della Carnia eleggevano a consigliere provinciale il compagno geometra Severino Somma (…), Prato, che respirò in questa regione le prime aure del socialismo, vinceva un’altra bella battaglia mandando a far parte del proprio consiglio comunale ben sedici compagni su venti consiglieri da eleggersi. L’entusiasmo per così splendida vittoria fu veramente indescrivibile. Quando nella sala della proclamazione cessò l’ultimo applauso, eruppe spontaneo e con tanto irrefrenabile impeto l’inno dei lavoratori da rendere inutile ogni invito a desistere (...), la vittoria del resto era prevista: la cessata amministrazione con una serie di errori, dimostranti l’assoluta inettitudine dei preposti all’amministrazione della cosa pubblica aveva creato uno stato di cose che avrebbe significato la rovina del comune (...). L’autorità tutoria, quella che protegge anche le canaglie, purchè combattano il socialismo dovrà convincersi delle verità da noi dette. L’ex sindaco Polzot, il famoso progettista di ponti, acquedotti, il fautore di cause perse ha preso un voto…liberali, preti, ex socialisti e reazionari sono ricaduti in una fossa comune a marcire le loro vergogne e le loro dedizioni (..). Giustizia è fatta”.
Tra le prime delibere del consiglio comunale vi fu quella indetta il 25 aprile di concedere “vacanza a tutti gli alunni in occasione del primo maggio” festa del lavoro; il consiglio diede incarico ai maestri di esporre agli stessi alunni le ragioni della festa come viva “espressione delle aspirazioni del popolo alla sua redenzione”.
La nuova giunta comunale andò settimanalmente documentando gli sperperi della “vecchia società a delinquere” tramite la pubblicazione dei passati bilanci; una mossa questa che fu dovuta ai feroci attacchi “che con vero accanimento idrofobo” gli avversari fecero per essersi visti aumentare “le tasse famiglie e esercizio”. Coloro che “strillano di più per questo rincrudimento d’imposte sono quegli stessi colpevoli della attuale situazione finanziaria del comune”; tra essi venivano nominati due ex sindaci e due ex assessori i quali non si guardarono a gettare il municipio in liti disastrose e in lavori sbagliati.
3.3. La Casa del Popolo e la scissione del gruppo anarchico.
L’affermazione del movimento operaio pesarino ebbe sicuramente il suo apice con la realizzazione della Casa del Popolo (“malignamente chiamata Casa del «Diavolo» dai clericali”), espressione di maturità non ancora raggiunta in altre zone del Friuli.
L’idea di costruire “una casa o sede dei lavoratori aperta a tutti”, nella quale fosse possibile “riunirsi liberamente a discutere i problemi comuni e nella quale far nascere ed ospitare associazioni di svago e cultura”, venne ad alcuni emigranti di Prato Carnico che “riunitisi in una birreria di Dortmund (Westfalia) si accordarono ed approvarono con entusiasmo l’iniziativa di costituire una Casa del Popolo per ospitare le varie associazioni della vallata e creare una palestra di svago”.
Rientrati in patria la proposta “per la costruzione di un fabbricato del circolo”, venne presa in seria considerazione dal consiglio socialista; successivamente venne deciso “ad unanimità” di acquistare un fondo per l’edificazione “nella frazione di Pieria accanto alla chiesa per la somma di L. 425 oltre le spese di contratto”.
Per l’acquisto del terreno si decise di utilizzare il capitale che si trovava alla cassa postale, e se questo non fosse bastato, lo si sarebbe raccolto attraverso il ricavato da “diverse feste da ballo”; si richiedeva poi ad ogni socio di “versare non più tardi della metà del mese di gennaio 1906 non meno di L. 2”.
Nel settembre del 1907, ad Hattingen vicino a Dortmund, si svolse un’altra riunione tra emigranti di Prato Carnico, dove venne decisa la spesa complessiva e l’organizzazione del lavoro:
“Fra i compagni di Prato Carnico ebbe luogo il 15 volgente una riunione in Witten allo scopo di promuovere la costruzione in Prato C. di una Casa del Popolo. Gli intervenuti erano una quarantina…(..). Il costo complessivo sarebbe di circa 14 mila lire, ma data la buona volontà non sarà difficile compierlo. Facciamo vivo appello a tutti gli operai di Prato, in specie agli emigranti in America di contribuire nelle offerte…(..). Quanto alla manodopera è da avvertire che i lavori più importanti saranno fatti in economia e gratuitamente nell’inverno e nella primavera, limitando le spese all’acquisto dei materiali e di quanto è indispensabile..(..)”.
Il problema finanziario si dimostrò subito un ostacolo da superare; a muri eretti venivano lanciati appelli “ai giovani e agli emigranti oltre oceano”, per far sì che una costruzione non più di quattordicimilalire ma di ben “quarantamilalire” non rimanesse incompiuta per la mancanza di “tegole, ferramenta, di tutte le cose indispensabili che non si potevano avere senza denaro”. L’appello rivolto a tutti gli operai di Prato Carnico non cadde nel vuoto, come dimostrano le sottoscrizioni pro Casa del Popolo che arrivarono dall’Austria ( Klagenfurt, Tanasweg , Trofaiach) da Neguiazù (Cumeina), dall’Ungheria, dal nord e sud America, ma anche da “diversi compagni” della provincia carnica, da Treppo Carnico e da Paluzza, da Casanova di Tolmezzo, Tolmezzo, Enemonzo e Arta Terme, Ovaro, Belluno, e molti altri ancora che con il loro aiuto diedero man forte alla riuscita dell’opera.
Il sorgere della Casa del Popolo vide congiunto allo sforzo finanziario quello del sacrificio di uomini, donne e giovani per un totale di “150 lavoratori” che nel 1912 si costituirono nella “anonima Cooperativa Casa del Popolo” i quali “prestando gratuitamente la loro opera” compirono “in sole tre settimane, 540 metri quadrati di muratura”.
Un esempio di questa laboriosità può essere dato dal memoriale della frazione di Pradumbli, da cui risulta che “Agostinis Marianna di Paolo, una tra le più volenterose, lavorò gratuitamente dal 1907 al 1913 per un totale di ore 119, pari a un salario di ? 23,80 a ? 0,20 l’ora che sommate a un’oblazione di ? 1,85 donava un totale di ? 25,65”; la stessa cosa valse per un tal Agostinis Enrico di Paolo che con ben “874 ore totali” diede un contributo pari a “? 323,55”.
Mentre avveniva la costruzione della Casa del Popolo, tra il 1909 e il 1910, il Circolo Socialista si trovò a fronteggiare un “piccolo terremoto” con la scissione del gruppo anarchico; gli anarchici (radicati in maggior parte nella frazione di Pradumbli) e i socialisti erano stati fino ad allora uniti da finalità comuni e insieme divisero battaglie e vittorie come quella della costruzione della Casa del Popolo. Gli attriti fra i libertari e i socialisti s’inserivano all’interno di quelle “lotte intestine” che già pesavano nel Circolo Socialista; la figura di Giovanni Cleva, esponente di primo piano del socialismo pesarino, influì decisamente sulla linea politica della sezione, spostandola su posizioni “non definibili come operaiste”. Tra i maggiori esponenti “della Federazione collegiale della Carnia e Canal del Ferro” e del riformismo socialista carnico, la sua visione del partito “spiccatamente gradualista e interclassita” finì per identificarsi con il socialismo carnico intorno agli anni ’10 e in particolare nell’anno 1912.
La sua proposta di creare delle “associazioni di piccoli proprietari agricoltori” al III Congresso Socialista carnico, lasciò perplessi molti dei convenuti, creando divisioni tra chi si schierò a favore di una “più intensa cura della proprietà fondiaria (…) - perché dal miglioramento di questa dipende il progresso economico e morale della collettività” - e altri che manifestarono la loro avversità “all’organizzazione di classe dei piccoli proprietari autonoma, in quanto poteva potenziare i sentimenti egoistici e individualistici” che la caratterizzavano.
Fu sicuramente l’influenza del Cleva e di altre componenti moderate che spinsero all’abbandono del circolo, quei compagni che non ritennero più utile la lotta di classe mediante “l’organizzazione” nel partito. È necessario ricordare che in Italia e un po’ in tutta Europa, “l’anarchismo lo si concepiva in modo che non riusciva una cosa estranea e separata dal socialismo, e cotesto, a sua volta, lo si concepiva in modo da non essere in aperto antagonismo con l’anarchismo; il socialismo poteva benissimo essere anche anarchico, e l’anarchismo essere socialista non accampandosi nel socialismo se non come una scuola, la scuola cioè che non credeva nell’efficacia dell’azione legale e non ammetteva quindi fra i suoi criteri la partecipazione ai parlamenti per legiferare”.
Le posizioni sempre più riformiste sulle quali il circolo andrà ad inserirsi fino alla fine della grande guerra, creeranno forti tensioni anche all’interno della nuova sezione socialista.
Seguendo i verbali del circolo notiamo che nel consiglio direttivo del circolo di Prato Carnico del 15 gennaio 1910, è lo stesso Giovanni Cleva che sottolinea come “nell’attuale sistema non si può proseguire la via da noi intrapresa”, andando a porre in evidenza le divergenze che si stavano delineando all’interno del gruppo socialista; la proposta di “diversi compagni di costituire un circolo di studi sociali”, rappresentava una scelta di rottura con il sistema organizzativo-partitico che fino ad allora aveva caratterizzato il circolo socialista . I libertari proposero di procedere nella lotta “senza impegnativa di sorta”, spostando l’azione politica su di un versante ancora più intransigente e indipendente da ogni tipo di autorità, comprese quelle del P.S.I..
La conseguenza fu lo scontro di due dottrine, quella marxista e quella anarchica, che vedeva nei primi il Partito Socialista come elemento d’azione e organizzazione e nei secondi una maggior propensione all’azione diretta e immediata dei lavoratori, senza mediazioni di sorta, o autorità istituzionalmente riconosciute. Un esempio è ben rappresentato dall’anarchico pesarino Giovanni Casali, che già nel 1909 durante una conferenza a Prato Carnico di Oddino Morgari “diplomatico del socialismo” e uomo impegnato nella “propaganda capillare delle posizioni riformiste”, “interruppe ripetutamente l’oratore, biasimandone le frasi troppo ossequienti verso le autorità ed invitando ad usare un linguaggio più violento”.
L’antico circolo socialista si sciolse dopo che con “voti 8 contro 6 favorevoli”, venne respinta la proposta del circolo libertario ed approvava la proposta di Giovanni Cleva di proseguire con “la lotta di classe mediante l’organizzazione” nel partito.
Così il 20 febbraio 1910, venne inaugurata la nuova Sezione Socialista, mentre gli anarchici fondarono il Circolo Pro Cultura Popolare e il Circolo Studi Sociali, rispettivamente a Prato e Pesariis, entrambi facenti capo a Giacomo Solari Pelarut”. Il gruppo “la libera cultura” di Prato Carnico si propose di fare “un’intensa propaganda libertaria in Carnia e in Friuli”; per ottenere “i mezzi necessari” fece stampare delle schede di sottoscrizione rivolgendosi a tutti coloro ai quali stava a cuore la causa della redenzione del proletariato e il suo progresso. In special modo fece appelli di solidarietà “ai compagni che trovansi nella lontana America” - nazione che “sin dagli inizi del ‘900” vide il proliferare di “comunità anarchiche italo-americane trapiantate nel nord-est”- che si schierarono a “favore dei migliori ideali democratici e contro ogni forma di sfruttamento, contro ogni privilegio economico e politico”.
Nelle sottoscrizioni permanenti del gennaio 1913 troviamo infatti, oltre a quelle del “gruppo femminile”, molti anarchici che sottoscrivono dal nord America: “Martin C. ? 41, Bortuzzo G. scheda n.100 ?10, Agostinis G. Scheda n.90 ?25, Machin, M. scheda 102 ?30, Agostinis Enrico, scheda n.104 ? 18, Machin Italo scheda n.112 ? 8.20, Longhi F. Chicago ? 21,30”, e dall’America del sud: “Pomarè P, ? 155, Claute L. scheda n.12 ?. 2.30, D’Agaro G. scheda n.113 ?. 16”.
La separazione fu vista con soddisfazione da parte clericale e dalle forze conservatrici, che nello scioglimento videro la crisi del movimento operaio pesarino, che per loro non era mai esistito, “mancando a Prato una vera classe di diseredati e una istruzione tale da rendere possibile la vita di un partito”.
Dalla parte opposta l’idea socialista non era assolutamente morta; “essa anzi ha fruttificato” in quanto “dalla primitiva concezione marxista ne sono usciti dei figli” e “il vecchio nucleo dei lavoratori di Prato si è scisso perché così vuole la legge dell’evoluzione”.
Le “lievi differenze di tattica” che separarono i due soggetti politici non impedirono ad essi di marciare insieme fintantoché “lotte fraterne” non li divisero e si rispettò “l’idea d’ognuno nei limiti voluti da una pratica espansione dei propri principi”; fu grazie alla costruzione della Casa del Popolo che si dimostrò come le divisioni tra anarchici e socialisti si potessero cancellare e si potesse creare un ambiente libero dove idee differenti convivevano in armonia.
Il concetto era presente nel manifesto d’inaugurazione della Casa del Popolo tenutasi il 2 febbraio 1913, che “nacque col sacrificio di oscuri lavoratori e per virtù dello spirito di fratellanza che li accomuna” e si prefiggeva di ospitare le “istituzioni laiche (…), la tutela giuridica, il miglioramento economico, morale ed intellettuale dei meno abbienti”.
La cronaca di quel giorno c’informa che accorsero da tutta la regione all’appello dei lavoratori pesarini, anche se il tempo non fu dei più clementi, in “quanto tutti i festeggiamenti si svolsero in mezzo la neve”, ma non per questo i “compagni e gli amici si astennero dal rispondere numerosissimi al cortese invito del Presidente della Casa del Popolo, Ottavio Puntil.”
Le diverse adesioni, da parte della “Società Operaia di Udine, di Cividale, di Tolmezzo, del Consorzio Carnico delle Cooperative di lavoro, dei circoli socialisti di Villa Santina, della sezione di Udine” per nominarne alcune, dimostrano come l’evento ebbe un forte richiamo in tutta la regione friulana; non per niente la Casa del Popolo di Prato Carnico fu “la prima della Carnia” mentre quelle di “Lauco e di Enemonzo” vennero realizzate solo negli anni che seguirono la grande guerra.
Sono comunque i discorsi fatti dall’on. Riccardo Spinotti e dell’anarchico Virgilio Mazzoni che rappresentarono bene l’essenza delle diverse anime che in essa vi confluirono. Il primo, socialista, si apprestò a sottolineare come la Casa del Popolo fosse il “segno di buono sviluppo politico-sociale”, dove riunire senza confonderle le due funzioni, politica ed economica, che non potevano svilupparsi se non attraverso l’unità dei lavoratori.
Per egli la Casa del Popolo doveva essere “il Tempio del popolo dove insieme al pane pel corpo (Cooperativa di consumo) il lavoratore riceverà il pane dello spirito”, e il luogo dove si unissero tutte le organizzazioni e istituzioni rispondenti ad un unico fine cioè quello dell’ “emancipazione” proletaria.
Più infiammato fu invece il discorso del direttore del settimanale pisano L’avvenire Anarchico Virgilio Mazzoni, continuatore dell’attività di Pietro Gori e sostenitore “negli anni precedenti al 1915 delle posizioni anarco-sindacaliste”. Il rapporto tra il Mazzoni e il movimento libertario pesarino non fu episodico; già “nei giorni dal 18 al 22 febbraio” del 1912 egli fu a “Prato Carnico, Pesariis, Ovaro, Comeglians e Tolmezzo”, per tenere conferenze sui “principi anarchici” per tornarvi poi il mese successivo per un “imponentissimo comizio contro la guerra e pro vittime politiche”; il Mazzoni parlò dal balcone del municipio accusando “i responsabili della ingiusta guerra e contro la giustizia borghese che dispensa condanne enormi a chi è reo di tener fede ai suoi principi e di portare fra il popolo diseredato e sfruttato l’incitamento alla riscossa redentrice”.
Il Giornale di Udine in data 25 marzo 1912, pubblicava una lettera che accusava il sindaco di Prato Carnico di aver ospitato nelle sale municipali un “certo Mazzoni Virgilio di Pisa”, per un ciclo di conferenze dal titolo “cos’è l’anarchismo”. Secondo l’articolo nessun sindaco “permise che ciò avvenisse nelle sale consigliari od in altri locali municipali”; sempre secondo il giornale liberal-moderato, il Mazzoni approfittando dell’assenza di funzionari, agenti di P.S. e carabinieri ne disse di “carine e belline contro la borghesia, contro le leggi dello stato, contro i governanti ed altri ancora che è meglio tacere”. La corrispondenza si chiudeva con un augurio verso le autorità, osservando che “sarebbe stato più opportuno proibire certe conferenze, nell’intento di impedire coi tempi che corrono il dilagarsi dei senza patria”.
L’ennesima dimostrazione del legame fra libertari pisani e pesarini fu appunto l’invito a presiedere l’inaugurazione della nuova istituzione operaia; dal balcone della casa del Popolo tenne un discorso infiammato, davanti a una folla entusiastica “inneggiando alla concordia dei partiti rivoluzionari onde sotto lo sforzo comune abbia a sgretolarsi la società borghese”, quindi non ebbe parole di riguardo verso l’autorità che bollò con “voce tonante e parole roventi”. Poi “fustigando il nazionalismo ricorda come il governo d’Italia abbia solo fatto gli interessi dinastici…ha pure una sdegnosa invettiva contro la vittoria delle armi italiane a Roccagorga, Baganzola e Comiso”, luoghi quest’ultimi in cui furono effettuati eccidi di operai e contadini da parte della forza pubblica, e che alcuni giorni prima la stessa Sezione Socialista di Prato aveva condannato con un comunicato in cui si affermava che questi “non avranno fine fino a quando la massa proletaria, colla organizzazione e colla forza di classe, potrà imporsi alla classe borghese”.
L’oratore continuò la sua arringa sottolineando che le dottrine anarchiche si ispiravano alla solidarietà, all’amore, alla bontà e alla giustizia, ricordando che la “violenza si annida in alto”. La cronaca continua dicendo che egli si “diffuse a porre in guardia i lavoratori contro il pericolo clericale e ha appassionati accenti, invettive contro il Vaticano”.
“La Casa del Popolo- termina il Mazzoni- deve essere di tutti e di nessuno, terreno neutro per ogni partito d’avanguardia sia il simbolo della ferma volontà di tutto il proletariato della Val Pesarina per raggiungere l’emancipazione che è in cima alle nostre aspirazioni”.
Dal discorso del Mazzoni, -più volte interrotto da ovazioni ed applausi-, ritroviamo diversi elementi che costituirono il movimento operaio di Prato Carnico: l’internazionalismo, l’anticlericalismo, la valorizzazione e la libertà della classe operaia che poteva avvenire solo attraverso l’unità e l’auto-organizzazione che il gruppo pesarino con le sue cooperative conosceva bene.
La Casa del Popolo ospitò la Sezione Socialista, il gruppo anarchico, la società filarmonica e fu sede della Società Operaia di Mutuo soccorso sorta nel 1892. In essa si svilupparono iniziative per lo svago e l’educazione dei lavoratori, tra queste la costituzione di una compagnia filodrammatica “composta da improvvisati attori-operai del posto e da improvvisati autori che con i loro bozzetti e drammi per lo più a sfondo sociale dettero un notevole contributo per la diffusione della cultura in tutta la Carnia”.
Nella grande “sala superiore capace di circa seicento persone” la Filodrammatica pesarina recitò opere come “Il Reduce di Tripoli”e “l’Ideale” dello scrittore anarchico Pietro Gori, vennero ospitate prima della grande guerra le conferenze della propagandista socialista Angelica Balabanoff che sviluppò i problemi della popolazione femminile e la sua emancipazione.
Da ricordare l’impegno congiunto tra la Casa del Popolo, il gruppo anarchico e la Società Operaia durante le agitazioni che tra il ’13 e il ’14 videro lavoratori occupati e disoccupati impegnarsi in lotte lunghe e durissime; essi, uniti, diedero vita alla sottoscrizione a favore dei lavoratori di Massa Carrara che da oltre 70 giorni si videro “serrati dai padroni delle cave e degli stabilimenti marmiferi” inviando in aiuto “cg. 340 di fagioli” per la causa proletaria.
3.4. L’antimilitarismo. “Il turbolento comizio di Villa Santina”.
La presenza oramai radicata delle idee anarco-socialiste nel comune di Prato Carnico fu dimostrata da uno dei momenti più intensi e tragici della movimento operaio carnico, cioè l’imponente manifestazione contro la disoccupazione e la guerra che si svolse a Villa Santina.
Questo fu un esempio di come l’internazionalismo e l’antimilitarismo fossero oramai divenuti patrimonio genetico del movimento operaio pesarino e di come esso avesse assimilato in maniera pregnante i principi e i valori del socialismo e dell’anarchismo.
Le critiche verso il governo e le sue imprese nazionalistiche si fecero sentire in queste valli già con l’avventura libica; si è già detto delle conferenze fatte dal Mazzoni contro la guerra in varie parti della Carnia alle quali “il pubblico intervenne numerosissimo”.
Come la tendenza e la propaganda antimilitarista venne a rafforzarsi nel movimento operaio pesarino è dimostrato dallo stesso comitato esecutivo della Federazione Collegiale Carnica riunitosi nell’agosto del 1912, al quale fecero parte quell’anno “Leita Giacomo, Giorgessi e Puntil” di Prato Carnico; in esso si stabilì che: “uno dei capisaldi della propaganda pratica sarà l’agitazione contro le spese militari che aumentano in modo impressionante, e contro la nefasta guerra che immiserisce la nazione”.
Per Osvaldo Fabian le “navi da guerra italiane, solcarono il mare per aggredire e massacrare altre genti”con l’unico motivo “della sopraffazione imperialistica”, e lo stesso sempre nelle sue memorie racconta di come “una violenta manifestazione sulla piazza del paese scaturì spontanea, senza bisogno di manifesti, ed i lavoratori accorsero ad esternare il loro sdegno” verso la guerra.
Fu -sempre secondo il Fabian- lo stesso parroco che ordinò ai carabinieri, una trentina in tutto, d’intervenire caricando e malmenando chiunque fosse presente con lo scopo di tutelare l’ordine pubblico; eppure la gente non si lasciò per niente intimorire, “anzi accorsero altre persone, anche molte donne e quando quegli eroi videro comparire nelle mani di qualche donna qualche arnese agricolo, qualche falcetto o qualche bastone, le prodi forze dell’ordine si ritirarono precipitosamente”.
Elementi simili si ritrovano per esempio nelle proteste contro i festeggiamenti “guerrafondai” indetti dalle forze conservatrici a favore dei “feriti e delle famiglie dei caduti in Tripolitania”; un esempio particolare è quello che successe durante una cerimonia per la distribuzione delle medaglie ai reduci dalla Libia, nel marzo 1914:
“Lo Stelso mi scrive : la grande festa di domenica (ma) erano circa 10.o.15 carabinieri, il sottotenente, il delegato, i reduci quasi tutti in divisa, e due tre mancavano ed i loro di famiglia si presentarono per essi. La cosa strana, tutti i diavoli erano sorti dai buchi, ed anche da Comeglians e da altri, il stradale era zeppo di gente da Prato e da Pieria, al corteo, le urla di abbasso la guerra e tanti altri, così pure anche durante il corteo.”
Per i giornali moderati come il Giornale di Udine e La Patria del Friuli, i fatti si svolsero in maniera differente:
“Ieri a Prato Carnico vi fu la cerimonia della distribuzione delle medaglie ai reduci dalla Libia. In ogni altro paese alla simpatica festa non è mancato un’onda di patriottico entusiasmo (...). A Parto Carnico invece, ove questi sentimenti sembrano apprezzati e sentiti in maniera diversa, la bella festa di ieri è stata deturpata da una sparuta dimostrazione di protesta fomentata e voluta da pochi sconsigliati. Alle ore 14 sull’angusto piazzale del municipio sfolgorante di sole si radunò una folla di 2000 spettatori, donne ragazzi in prevalenza. Non tardarono a frammischiarsi con essa alcuni avvinazzati disturbatori, mercè i quali si assistette all’edificante spettacolo della distribuzione delle medaglie, fra fischi e grida di protesta che partivano qua e là in mezzo alla folla e non mancò finanche chi, per fare dello spirito intonasse l’inno dei lavoratori (...).Vorremmo astenerci da ogni commento, ma non possiamo fare a meno di rilevare con la franchezza che ci distingue come nella circostanza di cui ci occupiamo, la popolazione di Prato Carnico, astrazione fatta dalle idee più o meno confutabili che in essa prevalgono, non ha dato prova con tale contegno, di civile educazione e di gentilezza di sentimenti (...).”
È interessante osservare come il quotidiano liberale, all’interno della sua cronaca, tenda a contraddirsi; mentre all’inizio i facinorosi sono solo pochi “avvinazzati”, un numero di “pochi malconsigliati”, alla fine fa intendere che fu la popolazione pratese a non dar prova di contegno e civiltà. Ciò starebbe a significare che l’opposizione verso l’inganno nazionalista e colonialista, doveva essere ben diffusa tra la gente del posto. Non è un caso, che proprio alla Patria del Friuli, tocchi riprendere con tono polemico, l’uscita di carreggiata del Giornale di Udine:
“Oltre duemila persone assistevano alla patriottica festa e fu veramente una imponente dimostrazione, una severa lezione ed un monito ai socialisti anarcoidi di Prato per avvertirli che la loro parabola è già da molto tempo discendente (...). Questi signori frammischiatesi a gruppi fra la folla…con epiteti ingiuriosi e insolenze si diedero a fare un ostruzionismo nauseante spingendo la folla a ridosso delle autorità e dei funzionari di P.S. in modo quasi da imbottigliarli senza che essi facessero nulla per impedirlo (...).Anche alcune mogli di esaltati dovettero forzatamente intervenire (...).Non è dunque la popolazione di Prato Carnico che, come dice il Giornale di Udine, turbò la cerimonia. Furono soli i pochi idioti, semi illetterati, quelli che avrebbero la pretesa d’imporre il loro modo di pensare a chi la pensa ben meglio di loro (...). I socialisti credettero di ammorzare l’entusiasmo della popolazione per la patria nostra, con l’organizzata gazzarra, ma si persuasero domenica che i loro sforzi furono e saranno vani, anzi la reazione da essi provocata e la giustificata indignazione per il loro prepotente contegno crearono nella massa presente evidenti segni di sprezzo, da farla sdegnare ogni contatto, anche di parole, con quella plebaglia piazzaiola.”
Stando a queste parole, l’antimilitarismo e l’internazionalismo operaio, non attecchirono per niente nella Val Pesarina; la popolazione di Prato si schierava con il “partito dell’ordine”, festeggiando i fasti dei reduci libici ed emarginando i pochi socialisti antipatriottici. Eppure poco meno di un anno dopo, i fatti di Villa Santina smentirono tutto questo, dimostrando che il movimento operaio creatosi a Prato Carnico non appartenne soltanto a poche persone.
Purtroppo la guerra libica fu solo l’anticipazione di quell’evento che significò desolazione, miseria e morte per molti lavoratori friulani e in particolare carnici; l’esplosione della prima guerra mondiale nell’estate del 1914, segnò la fine della grande e tradizionale emigrazione friulana, proprio nel momento in cui era riuscita a stabilire un discreto equilibrio economico in patria.
Il chiudersi della “grande porta”, che per anni aveva lasciato libere le vie di accesso agli emigranti verso l’Europa centrale e orientale (l’impero Austro-ungarico e la Germania) vide il rientro di decine di migliaia di persone (si parla di ben 11 mila emigranti solo nella Carnia) .
L’emigrazione fu “in linea generale vietata” e non fu più “possibile conseguire il relativo passaporto”; la popolazione carnica si ritrovò quindi nella miseria più cupa, “senza lavoro”e con l’impossibilità di trarre dal proprio suolo “sufficienti mezzi di sostentamento”.
Naturalmente il rientro degli emigranti creò problemi economici non indifferenti ai quali il governo fece fronte con provvedimenti di emergenza, tra cui “l’attuazione di un piano di opere militari predisposto dal generale Lequio per la costruzione di strade, ferrovie e trinceramenti a scopo strategico.”
Eppure alle belle “parole e promesse in quantità dello stato seguirono fatti zero”; la regione montana fu quella che maggiormente patì il ritorno in massa degli emigranti, i lavori per conto dell’autorità militare assorbivano, “sì una parte di questa manodopera, specie sulla fascia di confine”, ma ne restavano ancora “tanti e tanti senza lavoro”.
Una lettera anonima rinvenuta nell’archivio della Casa del Popolo può farci comprendere lo stato di disperazione e di rabbia in cui i lavoratori dovettero trovarsi in questo periodo storico; dalle prime righe si capisce che fu scritta da una persona delegata a rappresentare “la Società di Mutuo Soccorso ed Istruzione di Prato Carnico e Moggio Udinese”.
La lettera dovrebbe risalire a prima del grande comizio del 28 febbraio 1915 di Villa Santina, in quanto nella stessa si parla di un “comizio che dovrà essere il più arduo per le esigenze che gli incombono in questo momento di convulsione sociale”.
L’autore intendeva sicuramente con queste frasi sottolineare la grave crisi economica e la disoccupazione imperante che stavano investendo la montagna friulana e la sua popolazione; infatti dopo aver espresso i pregi di “questa reggione che da mezzo secolo ha dato alla sua patria gran parte dei suoi prodotti, denaro, intelligenza e anche la vita (…) che per intelligenza dei suoi membri seppero farsi stima in tutte le parti del mondo” invocava alle autorità non “l’ elemosina ma compassione di queste braccia che forzatamente da più mesi sono inerti fin dal settembre scorso”. Il tono poi comincia a farsi più aspro e accusatorio verso “madama autorità che sordamente ci schernisce e nulla di positivo ha fatto a migliorare la nostra triste condizione (...) e la fame -continua - o autorità è una triste consigliera voi che siete i provocatori siete anche i complici di che potrebbe accadere”.
Lavoro e cibo furono la mancanza primaria della popolazione di queste valli; la pesantezza del fisco che “già aveva in mano la casa”, la chiusura del credito, contribuirono ad alimentare la rabbia verso il governo e la sua inerzia a trovare una soluzione alla crisi.
Nella lettera non vi è nessun accenno alla guerra, ma se ne avverte comunque la presenza come causa della “paralisi migratoria”; essa è rappresentata dalla figura metaforica di “un usciere che ci sequestra il poco cibo che c’è per sfamarci”; la stessa minaccia con cui si chiude questa lettera - “si scateneranno forze … ciò che mai fu fra questa mia reggione…scatenerà da queste montagne una valanga di affamati che scenderà come lava incandescente trascinando seco tutto. …e verrà da voi o autorità se non fosse altro che a provvedere per la vita o per la morte, giacché il diritto di vivere ce lo negate col non volerci aiutare” - sembra far presagire quello che dopo pochi giorni o settimane sarebbe diventata una delle più imponenti marce contro la disoccupazione e la guerra.
Le fonti giornalistiche e archivistiche indicano che furono “la sezione socialista ed il gruppo anarchico” di Prato Carnico “colla Federazione collegiale socialista” che in “solo otto giorni” indissero “un pubblico comizio contro la disoccupazione da tenersi in Villa Santina il 28 febbraio 1915 alle ore 10/30”, precisandone l’indole e gli scopi battezzandola così: “manifestazione proletaria di protesta contro la delittuosa inerzia governativa”.
All’appello vennero chiamati “i comuni, le società operaie, le sezioni del Segretariato dell’Emigrazione, le organizzazioni edili, i circoli socialisti, i gruppi anarchici” ma in particolar modo i “disoccupati e gli emigranti dell’intera Carnia i quali dovevano avere l’imprescindibile dovere di non mancare per non venire meno ad un dovere verso l’intera classe”.
Le richieste -già presentate con un memoriale al prefetto della provincia fin dal settembre 1914-, che il comitato pose all’autorità governativa riguardavano innanzitutto l’immediata approvazione e il finanziamento di opere pubbliche come “la strada di Sauris, le rettifiche alla strada nazionale, il ponte sul Degano per Prato, la strada di Lauco, il raccordo della Consorziale Carnica con Paularo, le opere di III categoria dell’ Alto But, i progetti di scuole, di poste, fognature, acquedotti, cimiteri”.
La stampa liberale pochi giorni prima dell’avvenimento usciva con un altro articolo che accusava come il comizio indetto con un “po’ di reclame”contro la disoccupazione e l’inerzia del governo fosse solo “un pretesto per mascherare il comizio contro la guerra” e continuava sottolineando di sapere come “i messi” dello stato maggiore socialista che risiede a Tolmezzo “girano paese in paese e soffiano, soffiano perché tutti vengano e il comizio riesca soprattutto a questo: che dimostri il popolo della Carnia assolutamente contrario alla guerra per la neutralità assoluta”.
Le autorità prevedendo che il comizio di Villa Santina avrebbe potuto degenerare, vi posero il veto, ma “ad onta del divieto governativo e di quello del V. Prefetto dott. Bottecchio”, furono circa “5.000 gli intervenuti, innumerevoli i sodalizi aderenti e 50 i vessilli” che risposero all’appello, e si “poteva avere una folla almeno doppia” se la polizia e gli avversari non avessero fatto propaganda per trattenere i lavoratori a casa con la scusante “della nota livragazione del diritto di riunione in tutta Italia”.
Per comprendere uno dei momenti più importanti e commoventi del movimento operaio carnico è interessante riportare alcuni brani della descrizione che ne fa nel suo diario Osvaldo Fabian:
“In quella grigia e gelida mattina, ero tra i primi in testa ad un lungo corteo di lavoratori, uomini donne, vecchi, ragazzi, tutti intabarrati, che si snodò lentamente lungo la statale a fondo valle, diretta a piedi verso Villa Santina distante circa 20 chilometri. Alla testa della lunga colonna sventolavano le bandiere dei lavoratori, la nostra rossa e quella nera degli anarchici. Le note della nostra fanfara scandivano i passi al suono degli inni dei lavoratori, oltre 700 cittadini della Val Pesarina muovevano compatti.”
A pochi chilometri da Villa Santina però la colonna dovette fermarsi: “la questura aveva proibito il comizio e la polizia e forze militari (Il Lavoratore Friulano parla di 500 alpini e carabinieri) in assetto di guerra presidiavano il paese”.
Sulle alture e strade circostanti, si trovavano folti gruppi di lavoratori provenienti da Lauco, dalla Valle del Tagliamento, da Verzignis; “la nostra colonna non ebbe esitazioni e non sostò e proruppe nell’interno dell’abitato di Villa, travolgendo il primo schieramento di agenti di P.S e raggiungendo la piazza del paese dopo essere passata per il piazzale della stazione ferroviaria- La Patria del Friuli parla di “colluttazioni- squilli-discorsi anarchici”, di donne e bambini con cartelli riportanti le scritte: “«Lauco: pane non piombo», «pane e lavoro», «lavoro non guerra», «morte al regno della morte», «morte alla guerra», «», «noi donne per i nostri figli domandiamo pane e lavoro», «abbasso la guerra e viva l?narchia»- ma la gente non era soddisfatta perché molti altri gruppi di lavoratori provenienti da altre direzioni erano ancora fermi tenuti a bada dalle forze dell’ordine”.
La “folla straripò e la marea si mosse come un ariete”; da questo momento i vari gruppi avanzarono tentando di ricongiungersi. Li fronteggiavano le truppe con “la baionetta innestata”, in un’ atmosfera di enorme tensione, mentre molti “gruppi di giovani animosi comparvero sui tetti delle case sotto le quali stavano le truppe, maneggiando tegole e sassi pronti a colpire” e per evitare rinforzi “altri compagni avevano provveduto a tagliare tutti i fili telefonici”.
I dimostranti si scontrarono con le truppe che vennero “isolate a gruppi mentre un animoso riuscì a strappare di mano ad un carabiniere il moschetto e altri carabinieri venivano disarmati.”
Il questore, trovato dapprima un rifugio in un cortile con le sue truppe sbandate, montò poi su un camion dileguandosi; la folla – continua il Fabian - passò come una valanga e si ricongiunse con le altre colonne nella piazza centrale al grido di “abbasso la guerra”.
La folla aveva vinto, fu permesso il corteo per il paese e il comizio in piazza; dalla terrazza dell’albergo Cimenti si susseguirono diversi oratori tra cui i socialisti Piemonte e Renzo Cristofoli, e anarchici di cui uno “non riusciamo a sapere il nome”, che dopo aver esposto le condizioni di miseria dei lavoratori, stigmatizzò la guerra, dicendone “di tutti i colori” agli interventisti, l’anarchico “Giovanni Frezza di Verzegnis”, il quale “è più volte interrotto dal delegato di P.S. ed applaudito ogni qual volta impreca alla guerra” e poi molti altri ancora che “ne dicono di cotte e di crude contro la guerra e ogni volta che se ne parla è un solo grido che irrompe da 5.000 petti: “abbasso la guerra”.
Venne infine approvato un ordine del giorno in cui si richiedeva “l’immediato finanziamento dei lavori pubblici per porre efficace rimedio alla terribile ed imperversante disoccupazione”; i socialisti approvarono anche un altro ordine del giorno, secondo il quale “il proletariato carnico avrebbe dovuto levare alta la sua voce di umana protesta contro l’ubriacatura imperialista imperversante in Italia”; la manifestazione si sciolse al grido di “abbasso il governo ... vogliamo il pane!, a morte gli affamatori, viva la rivoluzione sociale, viva l’anarchia! Viva l’internazionalista”.
È interessante notare come la stampa evidenzi il coraggio e la massiccia presenza delle donne della Val Pesarina in testa al corteo; ben 150 donne partirono da Prato Carnico a piedi alla volta di Villa Santina per reclamare pane ai loro figli, queste “marciano in testa alla colonna e suscitano in tutti un’ondata di commozione e di entusiasmo”, e furono loro “le prime a lanciarsi contro le baionette”; La Patria del Friuli parla di “ragazze scalmanate” che gesticolano come ossesse al grido: “in piazza! andiamo in piazza! evviva l’anarchia” e descrive una donna di Prato che “sventola la bandiera nera sotto gli occhi dei pazientissimi carabinieri” mentre la marea di gente si agita, spinge, sospinge nei primi tafferugli. Il 4 marzo lo stesso giornale pubblicava un commento riguardo alla manifestazione:
“Il comizio di Villa Santina ha scoperto la piaga, i lamenti della fame si odono in tutte le contrade carniche . Le notizie dai vari paesi fanno sentire l’urgenza grandissima di provvedere se non si vogliono conseguenze gravi. Il turbolento comizio di Villa Santina non è che un preludio. Le minacce e le intemperanze maggiori, in questo comizio sono venute dalla popolazione di Prato Carnico, uno dei tanti comuni dove la miseria regnava fin dal principio dell’inverno.”
Il quotidiano continuava accusando gli organizzatori di essersi serviti dell’“elemento” donna non per incitare alla rivolta ma per “ottenere un maggiore effetto”, contraddicendosi subito dopo dicendo:
“ (...) e su questo non bisogna illudersi. Da vent’anni a Prato Carnico le conferenze incendiarie di anarchici sono all’ordine del giorno e da vent’anni a Prato Carnico le donne vi hanno partecipato sempre, con crescente entusiasmo, al punto che oggi per esse le massime incendiarie sono una dottrina e il sacrificarsi per l’ideale sarebbe un eroismo. Ecco perché al comizio di Villa Santina si sarebbero fatte infilzare piuttosto che cedere.”
È il caso della già menzionata Giacomina Pretis, “anarchica da Pradumbli”, che negli incidenti di Villa Santina “schiaffeggiò sonoramente il vice questore allorché egli l’aveva malamente spintonata indietro per il petto”. La stessa venne arrestata e posta al confino ad Avezzano (Abruzzo) insieme ad altri “vecchi” compagni che si erano messi in vista nell’episodio di Villa Santina. Questo episodio è riportato anche nei diari di Roia:
“Scrive il parroco (...), qui avevano incominciato il repulisti degli esseri pericolosi e sospetti e poi, non so perché si sono fermati. I quattro partiti sono: Zuanut da Bas (Gambetta), il picul da Pieria, Mina Petris maritata Craut, l’anarchico di Palud di Sostasio. Gli altri rimasti sono ora come gatte bagnate. Tutti i facinorosi ed esaltati si stanno aspettando di giorno in giorno la visita dei RR. carabinieri”.
L’imponente dimostrazione fatta dai lavoratori pesarini e da tutta la Carnia purtroppo non riuscì ad opporsi all’orrore della guerra che vide “donne e giovani madri e spose di onesti operai costrette a stendere la mano per sfamar loro i poveri bambini” mentre la gran parte dei giovani si apprestava a vestire il grigioverde per partire, entro pochi mesi, per il fronte a patire nuove sofferenze.
Giacomina Petris e la figlia Luce
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