CONCLUSIONI
Ricostruire la storia del movimento operaio della comunità pesarina, seppur ancora largamente sconosciuto, ha posto in rilievo alcuni punti essenziali.
Innanzitutto, la vera “specificità” della montagna friulana appare il flusso migratorio radicatissimo e soprattutto “tradizionale”; come si è potuto vedere, le condizioni economiche di base, non costituirono il terreno più adatto per lo sviluppo di idee socialiste che presupponevano un grado di maturità e di coscienza proletaria inesistenti all’interno di una struttura sociale come quella della Val Pesarina. Lo stesso dominio della proprietà piccolo-coltivatrice si opponeva ad un’idea collettivistica della terra, causando un forte individualismo che non poteva combaciare con l’ideologia socialista.
Dalla fine dell’Ottocento l’aumento demografico, le asperità dell’ambiente e la povertà del suolo carnico colpirono quella parte della popolazione che attraverso le trasformazioni sociali ed economiche si videro costrette a mutare il loro equilibrio di vita, non trovando più sostentamento con le forme di reddito tradizionali. L’inasprirsi delle lotte per il pane accentuarono il fenomeno già antico dell’emigrazione, colpendo in maggior modo le classi più bisognose, costrette a trovare altrove il mantenimento per i propri cari.
È solo con un’esperienza traumatica come quella migratoria che si determinarono nuove aperture, nuove conoscenze e una nuova visione di redenzione per le migliaia di lavoratori che varcavano i confini, trovando all’estero un’ alternativa alla rassegnazione predicata dai preti e dai padroni.
Si è analizzata la prima forma di aggregazione dei lavoratori, che ha visto la sua realizzazione nella Società di Mutuo Soccorso, nata all’interno di uno schema statutario borghese, ma anche risultato di un ampia consultazione popolare interessante gli emigranti, che videro nel suo sorgere una speranza per la difesa dei propri diritti e per la loro formazione intellettuale e professionale; essa ha inoltre sottolineato come la maturità associativa fosse già diffusa e consolidata tra i lavoratori. La stessa associazione divenne il fulcro e la piattaforma delle prime lotte tra gli operai e la borghesia commerciale del paese e come si è più volte ribadito ostacolata dalle forze clericali che in essa videro un pericolo per il potere esercitato dalla chiesa sui propri fedeli.
L’introduzione delle idee socialiste, marxiste e anarchiche vanno ricercate in questi “flussi di uomini”, nei loro contatti con le organizzazioni sindacali all’estero più che in uno sviluppo endogeno delle stesse all’interno del proprio contesto regionale e nazionale. Furono i sindacati tedeschi e austriaci, fortemente sviluppati alla fine dell’800, a cooptare la forza lavoro che proveniva dalle montagne friulane: i contingenti di contadini, boscaioli, segantini ed artigiani in genere, divennero “classe operaia” cosciente dei propri diritti e della propria forza sul campo politico. L’esistenza nei paesi d’immigrazione di categorie lavorative fortemente organizzate in sindacati, con chiaro orientamento socialista, condizionò e guidò i lavoratori carnici nelle loro scelte e sviluppò in essi una nuova maturità politica; non è un caso che i primi scioperi che videro presenti i lavoratori friulani siano stati fatti insieme agli operai tedeschi, e che le iniziative per combattere il crumiraggio, piaga famosa degli emigranti friulani e italiani, siano state sostenute da organizzazioni tedesche. La Federazione Muraria Tedesca, ad esempio, pubblicava nella propria sede il settimanale L’Operaio Italiano, il quale profuse il massimo impegno per estirpare il crumiraggio svolgendo un’ incessante opera di educazione e di inquadramento organizzativo attraverso opuscoli e appunto giornali stampati in lingua italiana.
Quando in seguito gli operai rientravano si avvicinavano al partito socialista, dando vita ad organizzazioni, sistemi di cooperazione e di mutua assistenza per i lavoratori.
Essi strinsero rapporti con personalità - come quella del dott. Luigi Grassi Biondi, di origine piccolo borghese con convinzioni socialisteggianti o democratiche -, che trasferitisi in Carnia da altre regioni d’Italia crearono collegamenti tra gli operai all’estero e quelli rimasti al paese, costruendo in questo modo punti di riferimento per lo sviluppo del movimento. Grazie all’opera di coloro che non furono costretti ad emigrare, il movimento ebbe capacità organizzative ed amministrative; di rilevante importanza furono anche istituzioni quali il Segretariato dell’Emigrazione, sorto a Udine nel 1899, il quale risentì nella sua struttura del modello dei “segretariati operai tedeschi (Arbeiterskretariate)”, uffici di consulenza legale e di informazioni su tutte le questioni del mondo del lavoro.
Si è sottolineato che oltre a diffondere i diritti del lavoratore e a difenderlo dalle insidie padronali, la struttura del Segretariato fu diretta e gestita da personalità importanti del socialismo friulano come Giovanni Cosattini ed Ernesto Piemonte. A ribadirne il carattere di stretto collegamento con l’estero fu l’azione congiunta che esso ebbe con associazioni quali l’Umanitaria di Milano diretta dal deputato socialista Angiolo Cabrini e la Federazione dei Fornaciai Austriaci, rappresentata dal triestino Antonio Gerin, e con singoli propagandisti come l’internazionalista Vittorio Buttis e le stesse “organizzazioni libere” tedesche che fornirono aiuti e informazioni favorendo l’adempimento dei propri fini istituzionali.
Ed è per questo che i deputati socialisti come l’onorevole Rondani, Podrecca e molti altri, durante le loro visite di propaganda, trovarono in queste valli una calorosa e promettente accoglienza, un terreno fertile adatto all’ideologia socialista, acquisita e sperimentata all’estero.
Il Circolo di Prato Carnico non fu dunque una realtà improvvisa ma il risultato di una lunga incubazione dell’idea, di un’attenta preparazione, che alcune fonti fanno risalire persino al 1898. Ma l’avvio di questo processo di formazione va ricercato, nell’ambito dell’esperienza migratoria e nella trama di rapporti interpersonali che si crearono fra lavoratori italiani e quelli stranieri, nelle fabbriche, nei cantieri, nel dopolavoro e anche nel tempo libero.
Il quadro distintivo che esce dal movimento operaio pesarino è quello di una comunità operaia dai caratteri e contorni di classe ben definiti; si è notato come le idee socialiste attecchirono su di una struttura sociale basata su forti legami di solidarietà e di conoscenza personale.
Nella Val Pesarina, i capifrazione – “meriga”, per i locali -, furono figure rappresentative importanti che non scomparvero con l’introduzione delle nuove idee, anzi vennero riadattate, metabolizzate e utilizzate per l’organizzazione del movimento operaio stesso. La popolazione ritrovava così nelle nuove forme gestionali e decisionali del circolo socialista molti elementi comuni alla tradizione e alla propria identità. A Prato Carnico socialisti e anarchici formarono un gruppo operaio organizzato a livello locale e omogeneo, con una “base” comune, tendente ad escludere gli elementi interclassisti.
Tuttavia la tendenza intransigente che caratterizzò la politica della sezione, rappresentata dalle idee del socialista rivoluzionario Libero Grassi, non fu esente dalle inevitabili discussioni su questioni ideologiche che si svilupparono ai primi del ‘900 all’interno del P.S.I.. Nonostante all’interno del circolo socialista di Prato Carnico si riproducessero quelle lotte tra una politica riformista e una più propensa a mantenere intatti i valori del primo socialismo, i lavoratori ritrovarono sempre l’unità per far valere i loro diritti e per portare avanti battaglie comuni. Dallo stesso Circolo Educativo Democratico di Prato Carnico partì l’idea, nel 1901, di dar vita alla Cooperativa di Produzione e Consumo, che attirò su di sé le ire delle forze conservatrici e clericali. Dalla collaborazione degli anarchici con i socialisti sorse la prima Casa del Popolo della Carnia, nata dal sacrificio dei lavoratori per i lavoratori, divenendo la sede naturale delle istituzioni laiche e di avanguardia del comune, “simbolo della solidarietà di classe ed vessillo di tutte le rivendicazioni operaie”. Essa ospitò il Circolo Socialista, il Circolo pro Cultura Popolare degli anarchici, la Cooperativa Rossa, la Società di Mutuo Soccorso nata nel 1892, la Società Filarmonica e Filodrammatica; divenne punto di riferimento per gran parte degli abitanti della vallata per le sue molteplici iniziative di aggregazione sociale ed economica alimentò ed arricchì la vita collettiva di questi luoghi.
La stessa scissione tra anarchici e socialisti avvenuta durante l’edificazione della Casa del Popolo, non interruppe l’avanzata delle conquiste proletarie, anzi la vivificò, creando un sentimento di reciproco rispetto e mettendo in luce la maturità delle due maggiori componenti operaie dell’epoca. Maturità che portò gli stessi socialisti alla guida del comune, trasferendo la lotta di classe nella vita municipale.
Altra componente collegata al movimento operaio pesarino è quella antimilitarista che insieme all’internazionalismo faceva parte del bagagliaio che il socialismo del primo ‘900 portava con sé. L’antimilitarismo dei lavoratori di Prato Carnico s’inserì in un contesto regionale che vide il socialismo carnico portato verso una spiccata tendenza e propaganda antimilitarista presente già ai primi anni del secolo. Essa si rafforzò e si genarilizzò dopo l’impresa italiana in Libia. Non è un caso che lo stesso Comitato Esecutivo della Federazione Collegiale Carnica e del Canale del Ferro nel 1912, alla quale parteciparono diversi socialisti pesarini, stabilì che uno dei capisaldi della propaganda pratica doveva essere l’agitazione contro le spese militari. Elementi che confluirono nella marcia contro la guerra e la disoccupazione organizzata dai socialisti e dagli anarchici di Prato Carnico che ebbe luogo nel 1915 a Villa Santina. Tale manifestazione, oltre a portare un grande contributo alla lotta verso le conquiste operaie e sociali della popolazione della Carnia, evidenziò anche una massiccia partecipazione delle donne della Val Pesarina, le prime in testa a quel corteo.
Stando alle informazioni ritrovate, il ruolo che svolsero le donne nel periodo trattato meriterebbe sicuramente un’analisi più approfondita, sia per l’esistenza di un Circolo Socialista Femminile sia per la maturità politica e civile che le donne di questi paesi dimostrarono.
Emigrazione significò anche movimento e cambiamento di mentalità. Il distacco dal paese natio sottrasse l’emigrante al controllo dei poteri locali e dall’ordine sociale costituito; i socialisti si scontrarono non solo con le classi dominanti, espresse allora dai partiti liberali, radicale, ma in maniera più sostenuta con le gerarchie ecclesiastiche. Lo scontro fra i socialisti del Circolo ed i clericali, guidati da don Piemonte, fu uno dei temi dominanti la vita politica del comune di Prato Carnico.
L’azione della chiesa rispetto ai movimenti profondi della società partì in ritardo e l’approccio ai mutamenti apportati dal fenomeno migratorio fu lento e difficoltoso recuperando vigore solo nel primo quindicennio del secolo; gli effetti dell’emigrazione e le nuove ideologie a questo punto erano già stabilizzate all’interno della comunità. Si è visto come il parroco fosse una figura importante e un punto di riferimento per la vita sociale del paese; egli tentò di mantenere la funzione di controllo che andava ben oltre la cura dell’anima dei fedeli. L’istituzione di una Cassa Rurale e Cooperativa s’inseriva a pieno titolo in quella controffensiva che la chiesa si premurò a costruire per ostacolare l’egemonia della nuova ideologia socialista; le sfere ecclesiastiche rimproveravano ai socialisti l’ateismo e l’avversione religiosa ma soprattutto si preoccupavano della sottrazione delle masse di lavoratori alla chiesa. Gli operai pesarini mutarono le loro abitudini, il loro sistema di valori: mentre in pianura il solidarismo si innestava su un profondo sentimento cristiano, in quanto “la struttura e la conformazione del mondo contadino friulano e la presenza dei cattolici e del clero rendevano molto difficile una penetrazione socialista nelle campagne”, in Carnia la prospettiva della salvezza fornita dalle sacre scritture veniva sostituita con una visione di giustizia terrena. Tale visione faceva sperare in una vita migliore che non si trovava più in un ipotetico aldilà ma nel concreto vivere di ogni giorno; erano le istanze di rinnovamento date dall’anarchismo e dal socialismo internazionalista che cambiavano la mentalità di questi alpigiani. Solo la liberazione dallo sfruttamento padronale poteva rendere libero l’uomo e le promesse della chiesa venivano viste come un inganno, un modo per giustificare le sofferenze concrete. Il paradiso, dove tutto sarebbe migliorato, poteva essere anche terreno; la miseria nasceva non dalla malvagità dei capitalisti ma dalla cattiva organizzazione sociale, dalla ricchezza mal distribuita tra ricchi e poveri, che vedeva nella proprietà collettiva il primo passo per raggiungere la pace sociale tra gli uomini. La critica ai clericali veniva fatta su di un piano puramente politico; non fu la religione il primo bersaglio dei socialisti, ma la “sacra bottega”, l’apparato ecclesiastico, la sua gerarchia più vicina agli interessi economici e padronali. I nuovi valori culturali, laici e civili, si diffusero in maniera capillare in queste zone; ne sono prova l’aumento dei matrimoni e funerali civili, l’usanza di non battezzare i bambini, la commemorazione e l’idealizzazione di miti come quello di Giordano Bruno che in quegli anni significò il credo nella libertà di pensiero contro il dogmatismo e l’oscurantismo clericale. Prova del progressivo “raffreddamento” verso la chiesa sono le stesse parole del nuovo parroco don Piemonte che in una lettera a don Antonio Roia del 1913 dichiarava che per colpa di “tristi mode” oramai imperanti nel paese “i genitori sono fenomenalmente trascuranti, negligenti nel mandare i loro figli specie alla dottrina cristiana”.
Infine si è dimostrato attraverso l’esempio del funerale dell’anarchico Giovanni Casali
che l’opposizione al regime fascista fu dovuta ad una volontà politica diffusa tra la gente di queste zone, contraria ad un controllo esterno derivante da uno stato dittatoriale. Per problemi di spazio e di argomento non si è approfondita l’analisi legata al tema del “consenso” da parte della popolazione pesarina durante il regime fascista; l’esempio vuole solo dimostrare come i valori fondanti il movimento operaio sviluppatosi alla fine dell’800 siano diventati patrimonio culturale di una comunità, parte integrante dei valori di queste valli. La partecipazione di massa che ci fu al funerale non fu solo un esempio di solidarietà verso un membro della comunità ma la logica conseguenza dell’ oramai tradizionale presenza di un tipo di movimento operaio che nelle sue due tendenze, libertaria e marxista, era stato per decenni un fattore di rottura, di innovazione e di crescita di buona parte della popolazione della vallata. Giovanni Casali fa parte dei “vecchi” militanti, nati fra il 1870 e il 1880, maturati alla fine del secolo che come si è analizzato vide un enorme sviluppo delle organizzazioni sindacali in Germania, Austria e un grande ciclo di lotte operaie in tutta Europa. Lo stesso Giovanni Casali dovette emigrare dopo la prima guerra mondiale in Francia da dove continuò a mantenere contatti con “sovversivi” del paese, aiutandoli ad espatriare anche se posto sotto il controllo delle autorità.
I motivi profondi della grande solidarietà e del rispetto da parte della popolazione verso un “sovversivo” devono essere ricercati nel perseverare di una memoria storica di classe, “fusa e amalgamata con la coscienza popolare”; la reazione da parte del regime fascista rispondeva all’esigenza di sradicare i legami tra la “base” e le “avanguardie”. Tra di essi vi erano molti giovani venticinque-trentacinquenni che l’esperienza della guerra, lo stato di disoccupazione, il clima del paese contribuirono a politicizzare in modo radicale e che a contatto con i “vecchi” militanti come Luigi D’Agaro, Giacomo Fabian e Italo Machin e molti altri, diedero un nuovo impulso all’attività politica del paese; e questi giovani furono Osvaldo Fabian, Odorico Gonano, Guido Cimador, Edoardo Monaci, Innocente Petris, ragazzi che in prima persona si esposero alla rappresaglia fascista.
L’unione della vallata costituì anche l’unificazione delle plurisecolari divisioni e rivalità tra Pesariis e le altre frazioni, un fronte comune che ebbe nelle parole degli oratori del funerale, un comunista, un anarchico, e un socialista la sua massima espressione.
Secondo il mio punto di vista, il regime fascista vide nella partecipazione della popolazione pesarina un atteggiamento non riconducibile ne’ a una protesta organizzata clandestinamente da un solo partito, ne’ a una reazione totalmente spontanea; fu invece l’incontro tra un sentimento legato a una tradizione di lotte popolari con una critica politica più o meno esplicita verso un regime oppressivo come quello fascista che spaventò e mise in allarme le sue alte cariche.
Ciò che voleva essere chiaro durante questo funerale era che la memoria di questa valle era quella precedente al regime fascista e che i suoi abitanti non si erano voluti piegare ad un’autorità imposta dall’esterno, anche se rappresentante dello stato - che ancora oggi è vissuto in modo critico -; in occasioni come quella del funerale di Casali si cercava la continuità della coscienza ormai matura del movimento operaio, che in questo particolare ed unico luogo poté nascere e svilupparsi con le caratteristiche peculiari che lo hanno contraddistinto.
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