"Compagno tante cose vorrei dirti..."
Il funerale di Giovanni Casali, anarchico - Prato Carnico 1933
MEMORIA STORICA E RESISTENZA AL FASCISMO
Dianella Gagliani
1. I funerali di Giovanni Casali, svoltisi in pieno regime fascista a Prato Carnico, per la grande partecipazione popolare, l'elogio funebre tenuto al cimitero dai suoi compagni, la successiva repressione poliziesca, (sullo svolgimento del funerale e sugli avvenimenti immediatamente successivi si veda il lavoro di Claudio Venza in questo stesso volume) inducono ad alcune riflessioni sul rapporto masse-fascismo.
Si è spesso lamentato, e anche noi dobbiamo farlo, che la messa al bando dei gruppi politici avversi o diversi rispetto al regime, la distruzione sistematica della stampa di opposizione e libera, rendono difficile una storia della vita e della mentalità delle masse popolari, di quei soggetti sociali "silenziosi", che non ci hanno lasciato tracce scritte delle loro condizioni e dei loro atteggiamenti (1). Va tuttavia rilevato che, se non abbiamo fonti dirette, il regime fascista, preoccupato del risorgere dell'opposizione politica, dispiegò una serie di strumenti per il controllo della società, e specialmente della parte considerata più pericolosa, cioè le classi popolari, al punto da permetterci di fare un po' di luce sui comportamenti di queste classi. Paradossalmente, possiamo dire, la dittatura fascista, reprimendo ogni espressione politica sociale culturale autonoma, la svela, rivelandoci quel che di più profondo si agitava nelle coscienze, se non di tutte, di almeno una parte delle classi popolari.
La fitta corrispondenza, che riempie l'archivio del ministero dell'interno, tra prefetti, ministro, capo della polizia, questori, rappresentanti della milizia e del partito fascista, tutti attenti allo "stato d'animo" della popolazione più che alle sue condizioni di vita, fa emergere non solo espressioni isolate, pur significative, di insofferenza al regime, ma anche movimenti che possiamo definire di massa e che coinvolgono geograficamente l'intero paese. Certo, qualcosa poteva sfuggire all'occhio vigile delle forze che dovevano mantenere l'ordine, ma il limite maggiore, per chi vuole ricostruire il rapporto masse-fascismo, riguarda più la qualità dei documenti che non la quantità. I rapporti, le lettere, le relazioni, che troviamo nell'archivio centrale dello stato, sono chiaramente di parte; illuminano di più gli estensori che non gli oggetti della corrispondenza. Possiamo, cioè, cogliere con più sicurezza gli atteggiamenti della classe dirigente italiana verso le masse popolari piuttosto che gli atteggiamenti di queste verso il regime.
Tuttavia, i limiti di queste fonti non sono tali da non consentirci di restituire alla storia una parte della soggettività delle classi popolari. In questa sede intendiamo gettare un po' di luce sulla difesa della propria storia e della memoria di questa storia da parte delle classi popolari, di contro a un regime che la oltraggiava, la impediva, la reprimeva: un piano di indagine fino ad ora poco esplorato, ma ricco di implicazioni per la soluzione di quel nodo rappresentato dal rapporto masse-fascismo.
2. Il regime fascista riprese e intensificò la pratica, propria di ogni governo, di edificare una memoria storica il più possibile collettiva per la legittimazione del potere e delle sue istituzioni. Lo stato liberale italiano aveva utilizzato, oltre a Cavour e a Vittorio Emanuele II, anche la figura di Garibaldi, senz'altro più cara alle classi popolari, per dare un sostegno di massa al processo di unificazione italiana e al regime che ne era conseguito (2). Con il fascismo l'utilizzo di un passato più o meno lontano, per la ricomposizione autoritaria dell'ordine politico e per dirottare le tensioni individuali e sociali, fu sfruttato con più ampiezza. Significativo il controllo della memoria operato attraverso la mitizzazione della" guerra, con la costruzione di viali e parchi della rimembranza, di monumenti ai caduti, con i quali legittimare la morte in guerra come "morte sacra", nascondendo i massacri delle trincee, le tragedie personali di tanti, le responsabilità dei governi (3).
Ma rispetto allo stato liberale il regime fascista aggiungeva, all'uso intensificato del passato in chiave legittimante, la distruzione sistematica e violenta di ogni forma di memoria storica diversa da quella imposta e voluta dal regime stesso. È noto che il nome di Matteotti - ma si possono fare altri esempi - non poteva essere pronunciato, così come non potevano circolare sue fotografie né scritti ed emblemi che a lui si richiamassero (4).
Non fu quindi solo del movimento fascista, che si fondava sulla contrapposizione totale e viscerale alle organizzazioni operaie, la distruzione di ogni simbolo che significasse ricordo dell'opposizione politica, ma anche del regime. Indicativa la circolare inviata il 3 giugno 1927 dal ministro della giustizia, Alfredo Rocco, ai procuratori generali, con la quale si indicava di reprimere la messa in circolazione di "monete metalliche sfregiate; aventi, cioè, sovrapposte al fascio littorio la impressione di segni comunisti (falce e martello) o diciture sovversive". L'insicurezza del regime nei confronti della classe pericolosa per eccellenza e l'avvertita necessità di un controllo oculatissimo per annullare l'efficacia dell'opposizione politica, sono attestate nella parte successiva della circolare, in cui si precisava che "il ministro dell'Interno ha disposto che in ogni provincia si provveda al sollecito e esatto accertamento della potenzialità dei punzoni e dei torchi ad impressione esistenti presso le officine, e che inoltre sia esercitata la più attiva vigilanza sulle condotte degli operai addetti a tali officine, ed in ispecie su quelli che risultino sospetti in via politica" (5).
Il testo unico delle leggi di pubblica sicurezza del 6 novembre 1926 - che sostituiva il precedente testo unico del 1889 - esplicitava con chiarezza il peso attribuito dall'autorità politica ai simboli "sovversivi". Vi si vietavano, infatti, con le riunioni, gli assembramenti, le grida ed esclamazioni che assumessero l'aspetto di rivolta e vilipendio verso lo stato e il governo, l'esposizione di bandiere ed emblemi ritenuti simbolo di "sovversione sociale" (6). Ma ancor più significativo, per comprendere l'atteggiamento intollerante del regime e il suo timore per ogni forma di opposizione, l'art. 26 là dove recitava: "II Questore può vietare che il trasporto funebre avvenga in forma solenne ovvero può determinare speciali cautele a tutela dell'ordine e della sicurezza dei cittadini". Il comma era ripreso integralmente nel testo unico del 18 giugno 1931. Lo stato liberale, non certamente blando nei confronti dell'opposizione politica (ricordiamo che è del 1896 l'istituzione del casellario politico centrale, uno strumento per la schedatura e il controllo dei "sovversivi"), aveva escluso dalla sorveglianza preventiva di tutte le manifestazioni di massa gli accompagnamenti del viatico e i trasporti funebri, per i quali non era necessario avvertire l'autorità di pubblica sicurezza dell'orario e delle modalità dello svolgimento e non era ammessa la discrezionalità del questore di vietarli in forma pubblica (7). E sappiamo che in età liberale i funerali degli anticlericali e i funerali rossi non furono, in generale, oggetto di repressione: lo stato, con i suoi funzionari, sì limitava a controllare che le esequie non dessero origine a scontri con le forze clericali e a manifestazioni di carattere sovversivo (8).
3. In regime fascista i funerali di militanti comunisti, anarchici, socialisti, dovevano spogliarsi delle loro tipiche caratterizzazioni, e, ancor di più, non dovevano svolgersi. Certo, non si poteva impedire la sepoltura del "sovversivo", ma questa doveva essere il più possibile clandestina. Così alla repressione dei partecipanti a un corteo "rosso", si aggiungeva una strategia mirante a vietare ogni partecipazione, a nascondere il morto, quasi che la sua sola presenza rappresentasse una messa in discussione del regime. Significativo il servizio d'ordine presente ai funerali di Antonio Gramsci e i metodi da esso adottati per impedire il contatto con il morto da parte di estranei alla famiglia e, ancora, l'intervento tempestivo degli organi centrali per una sua celere cremazione, dopo le difficoltà iniziali frapposte a questa pratica. Per il regime era senz'altro preferibile venir meno a un caposaldo dell'Italia cattolica piuttosto che lasciare Gramsci insepolto in attesa di una decisione sulla sua forma di tumulazione (9).
Ma, come attestano i funerali di Giovanni Casali, l'attenzione della polizia non si arrestava ai dirigenti nazionali del movimento operaio, si applicava anche ai militanti di base. Qualcuno potrebbe rilevare che, mentre per le esequie di Gramsci l'intervento delle forze dell'ordine fu preventivo, per quelle di Casali avvenne successivamente (10). Certo, i dirigenti nazionali erano più sorvegliati e quasi nulla che li riguardasse sfuggiva alla polizia, mentre poteva capitare che movimenti che si riferivano a "sovversivi" meno noti sfuggissero al suo controllo. I preparativi dei funerali di Casali non furono repressi dalle autorità fasciste locali, che, anzi, parteciparono al corteo funebre. Sappiamo che il motivo di fondo dell'atteggiamento del podestà e del segretario del fascio di Prato Carnico va rintracciato nelle loro scarse convinzioni fasciste; ma anche in altre situazioni si verificarono funerali di oppositori del regime senza che fosse stato predisposto dalle forze di polizia un adeguato servizio per prevenirli.
Così, ad esempio, a Reggio Emilia, dove il 24 maggio 1930 la salma di Pietro Lorenzani fu accompagnata da corone di garofani rossi e a Caivano, nel Napoletano, dove il 29 gennaio 1933 i compagni di Alfredo Marchigiano seguirono il suo feretro con corone e mazzi dello stesso fiore (11).
Tuttavia, se alcuni funerali di antifascisti potevano sfuggire al controllo preventivo della polizia, per altri il comportamento delle forze dell'ordine riprendeva nella sostanza quello adottato nei confronti dei dirigenti nazionali del movimento operaio. La preoccupazione che un funerale potesse dar vita a una manifestazione politica antifascista spingeva la maggioranza dei funzionari locali del regime a predisporre una serie di misure per impedire sul nascere la manifestazione. Veniva seguita una trama che andava dalla richiesta ai familiari di non comunicare pubblicamente le esequie, al controllo di quanti si avvicinavano alla casa del morto o alla sala mortuaria dell'ospedale, fino al fare anticipare l'orario del corteo, deviare il feretro per vie secondarie e allontanare chi volesse seguirlo. Quando alla famiglia del morto giungevano lettere di condoglianze di amici e conoscenti, esse, se vi comparivano riferimenti anche velati al passato "rosso" del defunto, venivano censurate o non consegnate. Se poi qualcuno faceva recapitare alla casa o all'ospedale un mazzo di fiori rossi, per prima cosa gli uomini di piantone distruggevano quell'"odioso" simbolo, successivamente partivano le indagini per individuare il fioraio, che veniva interrogato finché non confessava il nome o le sembianze del cliente "colpevole". Comporre una corona di fiori rossi dava origine a tali fastidi, che era difficile trovare un fioraio disposto a intrecciarla (12). Dietro segnalazione del fioraio fu, ad esempio, possibile alla polizia bolognese rintracciare le tre donne che avevano inviato fiori rossi al funerale del loro compagno di lavoro Mario Berti, operaio di Imola, deceduto il 5 novembre 1939 (13).
In alcuni casi il timore delle autorità che un funerale si trasformasse in una manifestazione antifascista diede origine a interventi di prevenzione che risultarono senz'altro eccessivi.
Per le esequie di Ernesto Pistola, sindaco socialista di Alessandria durante la guerra e nel primo dopoguerra, distaccatosi poi da una militanza politica attiva, ma amato per la sua azione amministrativa legata ai bisogni della parte più povera della popolazione, si circondò la sua casa impedendo l'accesso ai non familiari e si "strapparono" dal corteo i cittadini che volevano seguirlo (14). Per prevenire il funerale di Guglielmo Malavasi che doveva aver luogo in Novi di Modena il 23 gennaio 1933 e che prevedeva la presenza della banda musicale, dei soci delle cooperative muratori e braccianti, di cui Malavasi era membro, la questura e l'Ovra decisero lo stato d'assedio del paese, vietandone l'ingresso ai non residenti e piantonando la casa del morto e il tragitto del corteo. Nessun "estraneo" poteva accedere alla abitazione dei Malavasi - temuti dall'Ovra perché famiglia di "irriducibili sovversivi" - e seguire il feretro. Chi arrivava veniva fermato, chi voleva accodarsi al corteo allontanato. Il funerale si svolse così, senza banda musicale, passando per viottoli di campagna anziché per il centro del paese, con un camioncino della questura che anticipava il corteo e scacciava chi era fermo ai bordi della strada, con carabinieri che fiancheggiavano il feretro per impedire nuovi arrivi e allontanare gli "intrusi" (15). Non conosciamo le reazioni della famiglia di Malavasi.
Su questo aspetto le fonti di polizia, purtroppo, tacciono. Ma vi è da ritenere che essa fu violentata profondamente dall'intervento brutale delle forze dell'ordine. L'allestimento del corteo funebre faceva parte di una tradizione legata alla pietà verso il morto, senz'altro radicata nelle masse popolari, come attesta, del resto, la lettera del podestà di Novi al prefetto di Modena, nella quale veniva ricordata l'abitudine della popolazione a partecipare in massa ai funerali (16). La repressione del corteo funebre predisposto dalla famiglia e dagli amici del morto non era perciò solo politica, ma anche personale, umana, un oltraggio alla loro cultura più profonda. Li si obbligava a venir meno al saluto finale all'amico o familiare, di cui essi volevano rispettare le volontà testamentarie; a venir meno, cioè, a un impegno ancor prima morale che politico.
4. Il regime fascista, intervenendo con metodi repressivi sulla cultura della morte, aggiungeva al controllo della forza-lavoro e dei rapporti politici e sociali, una ingerenza nella sfera degli affetti e delle amicizie, violentava i sentimenti più profondi delle masse.
Ancora oggi, per la nostra morale, la repressione di uno sciopero o di una manifestazione politica da parte di un regime autoritario appare più scontata, "normale"; mentre assumono un connotato inumano gli interventi contro un corteo funebre, la violenza fatta verso il morto e verso la pietà di chi lo celebra. Ricordiamo la risonanza che ha avuto anche in Italia la repressione in Cile di funerali di oppositori del regime. Pinochet fa caricare perfino i cortei funebri, intitolava "Stampa sera" il 15 agosto 1983 l'articolo di prima pagina sui fatti cileni. E il cronista iniziava il pezzo con "II regime di Pinochet non rispetta, ormai, nemmeno i morti". Analogamente Linda Bimbi e Raniero La Valle nel volume su Marianella Garcia, la giovane presidente della commissione dei diritti umani del Salvador, assassinata brutalmente dai militari il 13 marzo 1983, ricordano come l'attività di Marianella verso gli uccisi, la sua cura nel dare un volto e una sepoltura ai cadaveri lasciati sui cigli delle strade o nei fossi, fosse diventata "intollerabile per il potere, che non amava questa gestione così scrupolosa delle sue vittime, cercava di impedirla, e alle volte giungeva fino a irrompere, sparando, nei cortei funebri e a interrompere le cerimonie di sepoltura" (17).
Non è nostra intenzione trarre da questi elementi delle conclusioni affrettate sulla similarità dell'esperienza dell'Italia fascista e di quella delle odierne dittature latino-americane.
Molti sono gli aspetti che le rendono diverse, dal ruolo svolto in queste ultime dai rapporti internazionali, alla funzione dei militari, alle strutture dell'economia e dello stato (18). Ma non vogliamo nemmeno sottovalutare ciò che le accomuna nel tipo della repressione politica. Al di là delle forme più brutali adottate dalle dittature del Sud e del Centro America, mentre per gli anni del regime italiano non abbiamo notizia di scontri armati, né di feriti durante le cerimonie funebri - cosa che invece si verificò nel clima acceso del primo dopoguerra tra i gruppi fascisti e i compagni del morto, generalmente un ucciso dalle camicie nere -, non va taciuta la violenza dello stato fascista italiano nella repressione dei funerali di oppositori politici (19).
Ma è un altro ancora l'elemento che vorremmo qui sottolineare. Se è vero che la pietà verso il morto era profondamente radicata nella cultura delle masse e si allargava ad altri strati sociali, oltre le-differenti posizioni ideologiche e politiche (20), di quale utilità poteva essere per il regime, ai fini di un consenso diffuso, la repressione delle forme di questa pietà? Dalle scarne notizie che abbiamo, sull'argomento, della Germania nazista, risulta che la Gestapo, pur solerte nel reprimere gli oppositori politici, faceva una eccezione per i loro funerali, permettendo agli amici e ai compagni del morto di riunirsi intorno alla sua tomba (21). L'indagine andrebbe senz'altro approfondita, ma si possono già sollevare alcune questioni. Sono probabilmente i regimi insicuri di un consenso di massa a sentire il bisogno, per mantenere il controllo politico e sociale, di una repressione anche delle forme della religiosità popolare. Sono, cioè, regimi che, ai fini della conservazione del potere, si disinteressano della impopolarità che sollevano i loro interventi. Si può allora affermare che il governo fascista, reprimendo i funerali degli oppositori politici, mostrava da un lato la sua distanza dai valori che fondavano l'universo culturale delle masse popolari, dall'altro la sua insicurezza di egemonia nei confronti delle masse stesse.
Va inoltre sottolineato che questa insicurezza attraversò tutti gli anni del fascismo, dal momento che la repressione delle cerimonie funebri costituisce un filo che non fu mai spezzato: dalle origini del movimento fascista, ai primi anni del regime, agli anni della crisi economica e a quelli dell'impresa etiopica fino alla fine degli anni '30 e ancora durante la guerra. I compagni di Alfredo Tamburini, per aver seguito la salma dell'amico, sepolto a Voltana di Lugo nel Ravennate il 2 marzo 1927, con garofani rossi, furono processati dal tribunale speciale e ricevettero pene fino a cinque anni e sei mesi di reclusione, interdizione perpetua dai pubblici uffici e tre anni di vigilanza (22); nel 1928 Nullo Palmieri fu confinato per aver partecipato a un funerale "sovversivo" (23); due comunisti e un socialista furono confinati per due anni per aver partecipato alle esequie di Pietro Lorenzani (24); la commissione provinciale di Udine assegnò al confino cinque dei presunti organizzatori dei funerali di Giovanni Casali, ad altri comminò l'ammonizione e la diffida (25); I'8 marzo 1934 cinque oppositori di Terni furono assegnati al confino per aver partecipato ai funerali di un antifascista (26); il 10 settembre 1 935 la stessa sorte subirono Mario Rabbini e Bernardo Canapa per i funerali dell'anarchico Loris Dell'Amico svoltisi a Massa Carrara (27); la commissione provinciale di Trieste assegnò al confino l'11 settembre 1937 diciotto cittadini di Muggia per aver seguito il feretro di un giovane ucciso (28); il 3 gennaio 1938 la commissione di Savona assegnava al confino cinque cittadini, tra cui la fioraia, perla corona di fiori rossi portata ai funerali di un antifascista (29); per lo stesso motivo il 9 maggio 1941 furono diffidati dalla commissione di Bologna Umberto Giaccaglia e Mario Fantazzini (30); il 7 agosto 1942 Oreste Corsetti di Sulmona veniva assegnato al confino dalla commissione dell'Aquila per aver tenuto l'elogio funebre di un oppositore (31).
Questi sono solo alcuni esempi per far rilevare la continuità cronologica della repressione dei funerali di antifascisti; ma valgono anche per evidenziare la continuità della pratica di onorare i propri morti da parte degli oppositori del regime e di almeno una fetta delle masse popolari.
5. Analizzare il fenomeno dei funerali di oppositori del regime dal punto di vista degli organizzatori e dei partecipanti pone alcuni problemi, che non è facile risolvere allo stato attuale della ricerca. Se possiamo con sufficiente sicurezza affermare che per i primi si combinava l'amicizia e il rispetto per il morto con la volontà di testimoniare il proprio antifascismo, per i secondi non possiamo fare altrettanto. Sia dalla schedatura politica che ne aveva fatta la questura, sia, se già non erano conosciuti, dalle indagini successive, gli organizzatori risultavano in linea politica comunisti anarchici socialisti, o, comunque, "sovversivi". Sicuramente la schedatura poliziesca peccava di molte imprecisioni, ma in linea generale si può accettare la definizione di antifascisti per questi promotori.
Per i partecipanti non organizzatori il problema è più complesso. La presenza stessa, verificata in alcuni dei funerali, di fascisti e anche di autorità fasciste, aggroviglia ulteriormente la questione, che può essere fino in fondo risolta solo con indagini di storia locale. In alcuni casi, là dove la repressione fu messa in atto prima ancora che partisse il corteo funebre o nel corso dello stesso, si può parlare anche per i partecipanti di antifascismo o almeno di trasgressione cosciente delle norme del potere. Ma crediamo di poter sostenere che ciò che comunque accomunava i partecipanti ai diversi funerali fosse il rifiuto di una sepoltura nascosta, in sordina, per chi non era stato dalla parte del potere. Emerge così una dissonanza popolare dalle regole dello stato fascista, una resistenza all'uniformità dei comportamenti. Partecipare ai funerali di un oppositore del regime significava in qualche misura non far proprie le concezioni del regime che voleva quel morto nemico della comunità, separato quindi da essa; significava affermare l'inserimento dell'oppositore nella comunità.
Si comprende quindi come i termini fascismo-antifascismo, consenso-dissenso, siano in questo caso troppo circoscritti e non sufficienti per comprendere gli atteggiamenti e i comportamenti delle masse popolari, per le quali si può parlare di un codice morale e di una cultura che sarebbe riduttivo assorbire nella tradizionale terminologia politica. Si deve piuttosto ricorrere a termini quali alterità, diversità rispetto alle regole dominanti; resistenza a una disciplina imposta; incomprensione dei metodi del regime che violentavano un codice morale di base le cui origini vanno rintracciate nella trama dei rapporti di solidarietà all'interno della famiglia, del vicinato, della comunità.
Questi vincoli solidali motivano anche l'unità politica che si registra nei funerali. Luigi D'Agaro, Odorico Gonano, Osvaldo Fabian, un anarchico, un socialista, un comunista, tennero l'elogio funebre di Giovanni Casali; significativamente "l'Unità" del luglio 1933 (a. X., n. 9) intitolava l'articolo dedicato alle esequie Fronte unico antifascista in Carnia ai funerali di un operaio anarchico. Per seguire il feretro di Ernesto Pistola si ricongiungevano socialisti e comunisti, e questo incontro tra i diversi gruppi del movimento operaio era ovunque generalizzato. Negli stessi anni che videro i vertici delle organizzazioni divisi e su posizioni di reciproca intransigenza, anche personale, alla base l'unità di fronte al compagno morto, qualsiasi fosse il raggruppamento in cui militava, era ampiamente attuata. Si trattava di una unità in larga misura emotiva e sentimentale, ma non secondaria, crediamo, di fronte anche alla comune condizione di vita, per l'affermarsi della politica dei fronti popolari. Certamente fu determinante il peso della vittoria del nazismo in Germania per fare avanzare una riflessione sul fascismo e sui metodi per sconfiggerlo; ma tra gli altri fattori, che decisero l'affermazione della linea dei fronti popolari, non va trascurata neppure questa spinta autonoma e spontanea che veniva dall'Italia.
6. Il regime fascista cercò di spezzare la solidarietà delle masse popolari con la repressione di ogni organizzazione e circolo autonomi, con il ricatto occupazionale, con il clima di sospetto e di paura, con l'incentivare e il sostenere le forme più basse del comportamento umano, quali la delazione. Le società sorte dal basso, esterne agli istituti rappresentativi del fascismo venivano chiuse con brutalità per impedire il sorgere di punti di riferimento non controllati dal regime. A Reggio Emilia fu sciolta nel 1930 la società operaia di mutuo soccorso "Fede Nuova" perché aveva invitato i suoi soci a partecipare ai funerali di Pietro Lorenzani, e il processo di chiusura dei circoli non fascisti si trova generalizzato sul territorio nazionale. Il sindacato fascista, l'unico legale, non operò certo per unire le categorie dei lavoratori, ma fece leva sul ricatto del posto di lavoro per separare una categoria dall'altra, un lavoratore dall'altro. La separazione più netta fu quella tra città e campagna, ma anche all'interno di una sola categoria si rintracciano questi elementi di divisione fomentati dagli istituti fascisti (32). Nelle zone agricole della Valle padana i braccianti di una zona furono spinti contro quelli di un'altra zona e si operò per ridurre la solidarietà all'interno di una sola zona fino alla rottura degli stessi legami familiari (33). Ma fu con il sistema generalizzato della delazione che il fascismo cercò di spezzare i vincoli comunitari , di classe, familiari. Furono confidenti dell'Ovra a rendere note le esequie di Gugliemo Malavasi e fu la notizia confidenziale ai carabinieri di Tolmezzo l'origine della repressione contro i partecipanti ai funerali di Giovanni Casali (34). A volte l'informatore si rivolgeva direttamente a Mussolini o al capo della polizia con lettere anonime che, anziché essere cestinate, diventavano motivo di indagini e repressioni (35). Come è stato giustamente rilevato "il sistema di informazione confidenziale divenne strumento di governo consentendo la valutazione dell'opinione pubblica, altrimenti impossibile in uno stato privo della libertà di stampa e di associazione" (36).
Il controllo delle masse era d'altronde un elemento indispensabile per un potere accentratore, che non poteva permettere, o non voleva, fughe centrifughe alla periferia. Da qui si comprendono i provvedimenti adottati contro le stesse autorità locali che non avevano rispettato le regole del regime. Il podestà e il segretario del fascio di Prato Carnico vennero rimossi e così pure il podestà, che era anche segretario del fascio, di Monteforte d'Alpone. paese in provincia di Verona, per aver seguito personalmente e con il gonfalone del comune la salma del socialista Policarpo Polacco (37).
7. Accanto alla sorveglianza dei cortei funebri il regime fascista affiancò una attenzione agli aspetti diversi del ricordo dell'opposizione politica, temendo che la memoria potesse cementare una nuova opposizione, che non poteva essere completamente sconfitta, ma che si tentava di mantenere dispersa e nel silenzio. Così anche i fiori di campo che un ignoto antifascista pose il giorno dei morti del 1929 nel cimitero di Alessandria, nello stesso luogo in cui cinque anni prima era stato esposto il ritratto di Matteotti, diventavano immediatamente colpevoli (38). Vera Santoni fu assegnata al confino dalla commissione provinciale di Firenze l'1 luglio 1927 per aver deposto fiori e acceso lumi sulla tomba di Spartaco Lavagnini (39).
Ma la memoria dell'opposizione politica non si estingueva, nonostante gli sforzi del regime per disperderne ogni traccia. Gli oppositori di base, impossibilitati ad agire sul presente, difendevano il loro passato, commemoravano i loro morti o esibivano simboli "sovversivi" su monumenti fascisti. Carlo Buttignon a Monfalcone il 30 aprile 1927 piantava una bandiera rossa sulla tomba del maggiore Randaccio (40); nel novembre 1929 nel cimitero di Faenza si trovarono, su alcune tombe di fascisti, manifestini con la scritta "viva Matteotti"; cartoline, francobolli, medaglie, monete con l'effigie di Matteotti, Sacco e Vanzetti, Sozzi, Lenin, Mazzini, Picelli... circolarono clandestine negli anni del fascismo in singole province o nell'intera penisola, a seconda della notorietà del dirigente (41). A Rifembergo, in provincia di Gorizia, il 5 settembre 1933 la popolazione commemorò i quattro martiri sloveni nel terzo anniversario delle condanne a morte pronunciate dal tribunale speciale e alla repressione, che giunse puntuale, si rispose venti giorni dopo, il 24 settembre 1933, con lo spezzare l'albero piantato alla memoria di Arnaldo Mussolini nella piazza del paese (42). La stessa dimostrazione di insofferenza al regime si verificò anche a Prato Carnico nel maggio 1932: Ezio Martin e Gio Batta Puntil furono condannati a tre mesi di reclusione per aver reciso la pianta dedicata al fratello del duce (43).
Il rifiuto di una memoria storica imposta assunse un aspetto corale nell'oltraggio alle lapidi o alle piante dedicate ad Arnaldo Mussolini, inaugurate con grande ufficialità dalle autorità locali
II rifiuto di una memoria storica imposta assunse un aspetto corale nell'oltraggio alle lapidi o alle piante dedicate ad Arnaldo Mussolini, inaugurate con grande ufficialità dalle autorità locali e benedette dall'aspersorio del parroco o del vescovo. I prefetti di tutta Italia si fecero premura di coprire anche le piccole frazioni sotto la loro giurisdizione con questi segni di deferenza alla famiglia Mussolini, ma dovettero ripetutamente spedire telegrammi al ministero per rendere noto che le lapidi, le targhe, gli alberi avevano subito oltraggio (44). Si trattò di una dissacrazione che coinvolse l'intera penisola; piccoli comuni dal Sud al Nord ne furono protagonisti; località non toccate da attività e propaganda antifascista testimoniarono il loro dissenso in modi da non dar adito a dubbi. Gli alberi vennero recisi, sradicati, essiccati con acidi corrosivi, le targhe asportate, i cippi lordati con stereo o presi a martellate: una rabbia collettiva che esprimeva il rifiuto dell'arroganza del potere nell'imporre un eroe non accettato. Di fronte a un regime che voleva sradicare il ricordo dell'opposizione politica e, incurante della sensibilità popolare, giungeva a profanare i simboli di lutti e sofferenze collettive - spesso le piante e le lapidi in memoria di Arnaldo Mussolini venivano collocate nel parco della Rimembranza accanto al monumento dedicato ai caduti in guerra - spontaneo insorse un rifiuto che si può definire di massa.
Da queste annotazioni si comprende come per gli studi sull'Italia tra le due guerre il filtro della memoria difesa di un passato da una parte, oltraggio a quella difesa e imposizione di un proprio passato dall'altra possa arricchire il quadro del rapporto masse-fascismo, ed essere illuminante per comprendere i legami delle masse con il loro passato e con le tradizioni del movimento operaio. Su quest'ultimo elemento non ci soffermeremo in questa sede, anche se già possiamo sottolineare che la cultura socialista incise maggiormente nelle coscienze là dove si legava a vecchie tradizioni del mondo popolare, quale quella del culto dei morti, e lasciò un segno che attraversò, si può dire indenne, gli anni del fascismo. Ma quello che sembra emergere con più forza è la diversità dei piani culturali in cui si muovevano da un lato le masse, dall'altro il potere; due piani che non sembrano avere elementi comuni e che paiono in sostanza incapaci di incontrarsi a un punto qualsiasi del percorso.
Queste pagine, è giusto ribadirlo, costituiscono il primo sondaggio di una ricerca che va approfondita e arricchita, consapevoli fin da ora che ulteriori studi non potranno restituirci interamente la soggettività delle masse popolari e la coscienza politica degli oppositori di base del fascismo. Sarà persine impossibile una ricostruzione precisa del numero dei funerali di "sovversivi", delle commemorazioni antifasciste, degli alberi e lapidi dedicati ad Arnaldo Mussolini oltraggiati, dei diversi gesti compiuti dalle masse popolari per difendere ed affermare la propria memoria storica. La consapevolezza della parzialità della ricostruzione non deve essere tuttavia di ostacolo al progredire di tale ricerca, che consente di accostarci alle classi popolari, rompendo quel velo di silenzio in cui finora quella storia era stata avvolta, per rischiarare non solo le condizioni materiali di vita delle masse, ma anche il loro universo mentale, la loro soggettività. Forse su questa strada si può sperare, come ha scritto Luisa Passerini, che la ricerca storica giunga a meritare l'onore che Horkheimer le attribuiva:
"Se uno sta molto in basso, esposto a un'eternità di tormenti infintigli dagli altri uomini, lo anima come un'aspirazione di salvezza l'idea che verrà qualcuno che sta nella luce, assicurandogli verità e giustizia. Non occorre nemmeno che ciò accada mentre egli è ancora in vita, e nemmeno mentre sono ancora in vita i suoi carnefici; ma un bel giorno, non importa quando, tutto dovrà essere sistemato. Le menzogne, la falsa immagine che di lui si da al mondo senza che egli possa in qualche modo difendersi, prima o poi dovranno svanire al cospetto della verità, e la sua vita reale, i suoi pensieri e i suoi fini, e così pure i tormenti e le ingiustizie che gli sono stati inflitti, dovranno esser chiari a tutti. È amaro morire misconosciuti e nelle tenebre. Rischiarare queste tenebre è l'onore della ricerca storica" (45).
Non si tratta in fondo che di continuare quanto fecero quegli uomini che negli anni del fascismo vollero onorare i loro morti e difendere la loro memoria.
(1) Ci riferiamo in modo particolare ai saggi contenuti negli "Annali" della Fondazione G.G. Feltrinelli, a. XX, 1979/80 e nel volume terzo, Gli anni del fascismo, l'antifascismo e la Resistenza, della Storia del movimento operaio, del socialismo e delle lotte sociali in Piemonte diretta da A. Agosti e G.M. Bravo, Bari 1980. Si veda soprattutto G. SAPELLI, Partecipazione politica e coscienza di classe nel movimento operaio torinese durante il fascismo, ivi, p. 406 e G.P. SANTOMASSIMO, Antifascismo popolare, in "Italia contemporanea", a. XXXII, n. 140, luglio-settembre 1980, pp. 39-40.
(2) Si veda a questo riguardo La Romagna e Garibaldi, Catalogo della mostra apertasi a Ravenna dal 31 luglio al 30 ottobre 1982, particolarmente le pp. 165-166 e 172 e M. ISNENGHI, Usi politici di Garibaldi dall'interventismo al fascismo, in "Rivista di storia contemporanea", a. XI, fase. 4, ottobre 1982, pp. 513-522.
(3) Cfr. C. CANAL, La retorica della morte. I monumenti ai caduti della Grande guerra, ivi, pp. 651-664.
(4) Si veda il dispaccio telegrafico del capo della polizia, Arturo Bocchini, ai prefetti del regno, 1° giugno 1928, in cui "Raccomandasi predisporre idonee misure vigilanza per impedire che sovversivismo possa tentare manifestazioni di qualsiasi specie occasione anniversario morte onorevole Matteotti", in Archivio centrale dello stato (da ora ACS), Ministero dell'interno, Direzione generale di P.S., Divisione affari generali e riservati (da ora Min. Int., Dir. Gen. P.S., Div. AAGGRR), 1928, cat. C 4, Ricorrenze, B. 197, fase. Commemorazione di Matteotti (in Italia) e il telegramma del prefetto di Pesaro del 10.6.1933 alla direzione generale di P.S.: "Nulla da segnalare giornata odierna anniversario Matteotti questa provincia", che attesta l'attenzione per una probabile manifestazione, ivi, 1933, sez. Il, b. 63, fasc. Commemorazione Matteotti. Per la repressione nei confronti di chi pronunciava o scriveva il nome di Matteotti si veda Aula IV. Tutti i processi del tribunale speciale fascista, Milano 1976, pp. 243, 427, 456.
(5) Brani della circolare sono riportati in G. INSOLERA, Procuratori generali, questione operaia e politica dell'ordine pubblico durante il fascismo, in "Annali" della Fondazione G. G. Feltrinelli, a. XX, cit., p. 389.
(6) Si veda il Capo I del Titolo II, Disposizioni relative all'ordine pubblico e all'incolumità pubblica, e particolarmente l'art. 20 che recita; "È sempre considerata manifestazione sediziosa l'esposizione di bandiere o emblemi, che sono simboli di sovversione sociale o di rivolta o vilipendio verso lo Stato, il governo o le autorità. È manifestazione sediziosa anche la esposizione di distintivi di associazioni sediziose".
C7) II Capo II del Titolo I, Delle cerimonie religiose fuori dai templi e delle processioni ecclesiastiche e civili, del T.U. delle leggi di P.S. (R.D. 30 giugno 1889, n. 614) agli arti. 7 e 8 stabiliva che i promotori di cerimonie e processioni ecclesiastiche o civili nelle pubbliche vie dovevano avvertire a/meno tre giorni prima l'autorità locale di P.S., la quale poteva vietarle per ragioni di ordine pubblico. Ma all'art. 9 stabiliva che erano esclusi da queste disposizioni gli accompagnamenti del viatico e i trasporti funebri.
(8) Si vedano i telegrammi del questore di Roma del 24.1.1911 sui funerali del repubblicano Pietro Cesarini e del 16.3.1911 sui funerali del massone Alessandro Bazzani, in ACS, Min. Int., Dir. gen. P.S., Div. AAGGRR (già Ufficio Riservato), 1911, b. 27, fasc. Funerali.
Lo spoglio dell'Avanti!" per gli anni 1896-1920 condotto da Crìstina Morbiducci conferma questo atteggiamento dello stato liberale.
(9) Lettera di Tatiana Schucht del 12 maggio 1937, in L. LOMBARDO RADICE - C. CARBONE, Vita di Antonio Gramsci, Roma 1951, pp. 255-256.
(10) Si veda la relazione del prefetto di Udine del 6.6.1933, oggetto: Manifestazione sovversiva in Prato Carnico. Proposte per provvedimenti di polizia, in ACS, Min. Int., Dir. Gen. P.S., Div. AAGGRR, 1933, sez. Il, cat. C 6, Funerali di sovversivi, b. 63, fasc. Prato Carnico.
(11) Per una descrizione dei funerali di Pietro Lorenzani, cfr. la relazione del prefetto di Reggio Emilia dell'1.6.1930, oggetto: Corteo funebre di Lorenzani Pietro fu Giuseppe, comunista, in ACS, Min. Int., Dir. Gerì. P.S., Div. AAGGRR, 1930-31, sez. I, cat. C 2 A, Movimento sovversivo antifascista, b. 8, fasc. Reggio Emilia e "l'Unità", a. VII, n. 8, 1°' luglio 1930 (dove il cognome risulta erroneamente Lorenzini).
Per quelli di Alfredo Marchigiano, cfr. la lettera anonima inviata da Caivano al ministero dell'interno e la relazione del questore di Napoli del 20.2.1933, oggetto: Caivano. Manifestazione in occasione della morte di un ex sovversivo, in ACS, Min. Int., Dir. gen. P.S., Div. AAGGRR, 1933, sez. Il, cat. C 6, Funerali di sovversivi, b. 63, fasc. Caivano di Napoli.
(12) Le disposizioni adottate nei confronti dei funerali di antifascisti si ricavano dai documenti relativi alle diverse esequie. Cfr. ad es. la relazione del prefetto di Alessandria del 24.9.1932, oggetto: Prof. Piccinini Arturo, ivi, 1932, cat. C 6, Funerali di sovversivi, b. 59, fasc. Alessandria e il rapporto della legione territoriale dei carabinieri di Bologna, Divisione di Modena del 26.1.1933, oggetto: Funerali del comunista Malavasi Guglielmo, ivi, 1933, sez. Il, cat. C 6, Funerali di sovversivi, b. 63, fasc. Novi di Modena.
(13) Cfr. la relazione del prefetto di Bologna del 14.11.1939, oggetto: Proposta di provvedimenti di polizia a carico di Capponi Flora fu Tommaso, Pelliconi Clementa di Bernardo e Del Pozzo Giara fu Francesco • operaie residenti ad Imola, ivi, 1939, cat. C 2, Movimento sovversivo, b. 8, fasc. Bologna.
(14) Cfr. la relazione del prefetto di Alessandria del 24.9.1932, cit.
(15) Cfr. il rapporto della Legione territoriale dei carabinieri di Bologna, Divisione di Modena del 26.1.1933, cit. e la relazione della prefettura di Modena del 27.1.1933, oggetto: Novi di Modena. Funerale sovversivo Malavasi, in ACS, Min. Int., Dir. gen. P.S., Div. AAGGRR, 1933, sez. Il, cat. C 6, Funerali di sovversivi, b. 63, fasc. Novi di Modena.
(16) Lettera del podestà di Novi, Giuseppe Neri, del 26.1.1933, ivi.
(17) L. BIMBI-R. LA VALLE, Marianella e i suoi fratelli, Milano 1983, p. 132.
(18) Ancora valide a questo riguardo le osservazioni di R. KUHNL, Due forme di dominio borghese: liberalismo e fascismo. Prefazione di E. Collotti, Milano 1976 (l'originale tedesco è del 1971) e particolarmente le pp. 232 e sgg.
(19) Ricordiamo a titolo esemplificativo gli scontri avvenuti nell'aprile 1923 a Livorno in occasione dei funerali di Anselmo Lumbroso (F. PIERONI BORTOLOTTI, Comunisti e fronte operaio nella lotta contro il fascismo, in N. BADALONI - F. PIERONI BORTOLOTTI, Movimento operaio e lotta politica a Livorno 1900-1926, Roma 1977, pp. 147 e sgg.) e gli scontri, in cui già intervennero le forze di polizia, avvenuti il 26.6.1923 a Parma durante il trasporto funebre di Alfredo Adorni, cfr. la relazione del prefetto di Parma del 29.6.1923, oggetto: Parma. Funerali di Alfredo Adorni. Incidenti, in ACS, Min. Int., Gabinetto Pinzi, Ordine pubblico, 1922-23, b. 7, fasc. Parma.
(20) Sulla sensibilità popolare al culto dei morti, cfr. Ph. ARIES, L'uomo e la morte dal medioevo a oggi, Bari 1980 (l'originale francese è del ), particolarmente le pp. 649 e sgg.
(21) T. MASON, L'opposizione operaia nella Germania nazista, in "Movimento operaio e socialista", a. IlI (1980), nuova serie, n. 1, p. 92.
(22) Si veda la sentenza n. 150 della commissione istruttoria presso il tribunale speciale e la sentenza n. 43 del tribunale speciale, in Ministero della difesa, Stato maggiore dell'esercito, Ufficio storico, Tribunale speciale per la difesa dello stato. Decisioni emesse nel 1927, Roma 1980, pp. 468 e sgg.
(23) A. DAL PONT-S.CAROLINI, L'Italia al confino. Le ordinanze di assegnazione al confino emesse dalle commissioni provinciali dal novembre 1926 al luglio 1943, Milano 1983, p. 921.
(24) Ivi, p. 1015.
(25) Ivi, p. 653, Cfr. inoltre la relazione del prefetto di Udine del 3 luglio 1933, oggetto: Manifestazione sovversiva in Prato Carnico. Provvedimenti di polizia a carico dei responsabili, in ACS, Min. Int., Dir. gen. P.S., Div. AAGGRR, 1933, sez. Il, cat. C 6, Funerali di Sovversivi, b. 63, fasc. Prato Carnico.
(26) A. DAL PONT-S. CAROLINI, L'Italia al confino, cit., p. 1237.
(27) lvi, p. 1131.
(28) Ivi. pp. 611-612.
(29) Ivi, p. 832.
(30) Cfr. la relazione del prefetto di Bologna del 9.5.1941, in ACS, Min. Int., Dir. gen. P.S., Div. AAGGRR, 1941, cat. C 2, Movimento sovversivo, b. 8, fasc. Bologna.
(31) A. DAL PONT-S. CAROLINI, L'Italia al confino, cit. p. 1265.
(32) Per la politica sindacale del fascismo cfr. D. PRETI, Economia e istituzioni nello stato fascista, Roma 1980, pp. 261-386 e per alcuni casi specifici i saggi contenuti negli "Annali" della Fondazione G.G. Feltrinelli, a. XX, cit.
(33) Cfr. D. GAGLIANI, Comportamenti e atteggiamenti dei braccianti dell'Emilia Romagna negli anni del fascismo, in "Annali" del'istituto regionale per la storia della resistenza in Emilia Romagna, 2°, 1981/82, pp. 157-202.
(34) Per i funerali di Malavasi si veda il rapporto della Legione territoriale dei carabinieri di Bologna, divisione di Modena, del 26.1.1933, cit.; per le esequie di Casali si veda la copia del dispaccio telegrafico del ministero dell'interno al prefetto di Udine del 5.6.1933, in ACS, Min. Int., Dir. gen. P.S., Div. AAGGRR, 1933, sez. Il, cat. C 6, Funerali di sovversivi, b. 63, fasc. Prato Carnico.
(35) Ad es. i funerali di Alfredo Marchigiano furono resi noti da una lettera anonima al ministero dell'interno, cit.; quelli di Ettore Lusetti svoltisi a Doso/o di Mantova l'8.2.1938 da una lettera anonima indirizzata a Mussolini, in ACS, Min. Int., Dir. gen. P.S., Div. AAGGRR, 1939, cat. K1-B, Movimento comunista, b. 44, fasc. Mantova.
(36) P. CARUCCI, La repressione politica. Problemi di ricerca, comunicazione svolta al convegno di studi tenutosi a Firenze dal 5 all'8 dicembre 1979 su "Presenza e attività dell'antifascismo a Firenze e provincia".
(37) Per le rimozioni a Prato Carnico, cfr. la relazione del prefetto di Udine del 6.6.1933, oggetto: Manifestazione sovversiva in Prato Carnico, cit. e quella del 1° dicembre 1933, oggetto: Comune di Prato Carnico. Commissario prefettizio Cav. Giacomo Ferrerò, centurione della milizia confinaria, in ACS, Min. Int, Dir. gen. P.S., Div. AAGGRR, 1933, sez. Il, cat. C 6, Funerali di sovversivi, b. 63, fasc. Prato Carnico.
Per la revoca del podestà di Monteforte d'Alpone, cfr. la relazione del prefetto di Verona del 6.7.1932, oggetto: Monteforte d'Alpone. Sospensione del Podestà, ivi, 1932, sez. Il, cat. C 6, Funerali di sovversivi, b. 59, fasc. Verona.
(38) Si veda il prospetto compilato dalla Divisione Affari generali e riservati del Ministero dell'interno dal titolo Situazione della Pubblica sicurezza dal lato politico nelle Provincie del Regno durante il trimestre dal 1° ottobre al 31 dicembre 1929-VII, in ACS, Min. Int., Dir. gen. P.S., Div. AAGGRR, cat. G 1, b. 227.
(39) A. DAL PONT-S. CAROLINI, L'Italia al confino, cit., p. 1052.
(40) Cfr. l'ordinanza n. 15 emessa dal giudice istruttore presso il tribunale speciale, in Ministero della difesa, Stato maggiore dell'esercito, Ufficio storico, Tribunale speciale, cit., p. 519.
(41) Per i manifestini trovati a Faenza, cfr. la sentenza n. 16 del 22.3.1930, in A. DAL PONT- S. CAROLINI, L'Italia dissidente e antifascista, Milano 1980, p. 405. Per la diffusione delle immagini, cfr. ivi, passim.
(42) Sulla commemorazione del 5.9.1933, cfr. ivi, pp. 732-733. Per la sentenza del 5.9.1930 con la condanna a morte di Zvonimo Milos, Ferdinando Bidovec, Francesco Marusic, Luigi Valencic, cfr. Aula IV, cit, p. 159.
Sull'oltraggio all'albero piantato in memoria di A Mussolini si veda il telegramma del prefetto di Gorizia del 25.9.1933, in ACS, Min. Int., Dir. gen. P.S., Div. AAGGRR, 1933, sez. Il, cat. C 2, Sfregi danneggiamenti piante commemorative Grand'uff. A. Mussolini, b. 58, fasc. Gorizia.
(43) Comunicazione del prefetto di Udine del 14.9.1932, ivi, 1932, sez. Il, cat. C 2, Sfregi danneggiamenti piante commemorative Grand'uff. A. Mussolini, b. 53/bis, fasc. Udine.
(44) Per lo slancio delle autorità locali fasciste nel commemorare Arnaldo Mussolini, morto il 21 dicembre 1931, si veda ACS, Min. Int., Dir. gen. P.S., Div. AAGGRR, 1932, sez. Il, b. 26, fasc. Mussolini Gr. Uff. Arnaldo. Funerali e funzioni religiose in suffragio. Per l'oltraggio alle piante e ai monumenti, si vedano i diversi fascicoli relativi alle singole province ivi, 1932, sez. Il, b. 53/bis, interamente intestata a Sfregi danneggiamenti piante commemorative Grand'uff. A. Mussolini, e la b. 58 del 1933 dalla stessa intestazione.
(45) L PASSERINI, Soggettività operaia e fascismo: indicazioni di ricerca dalle fonti orali, in "Annali" della Fondazione G. G. Feltrinelli, a. XX, cit., pp. 312-313. Il passo di Max Horkheimer è tratto da Crepuscolo. Appunti presi in Germania, 1926-1931, Torino 1977, p. 138.
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