"Compagno tante cose vorrei dirti..."

Il funerale di Giovanni Casali, anarchico - Prato Carnico 1933

Presentazione

Enzo Santarelli

"A Lipari vi sono oltre 500 confinati di cui 400 politici, provenienti da ogni parte d'Italia e da tutti i partiti democratici, liberali, repubblicani, cattolici, massoni, socialisti, comunisti, anarchici.
"Fra i cento deportati non politici, parecchi figurano nel partito al quale l'autorità politica della loro provincia ha ritenuto d'inscriverli. Parecchi operai e contadini del Lazio e della Romagna, arrestati per ostilità al fascismo, non appartenendo a nessun partito, furono assegnati d'ufficio, metà al partito comunista e metà al movimento anarchico.
Venti cittadini di Monterotondo furono deportati a Lipari, perché avevano partecipato ai funerali d'un operaio noto come socialista. V'erano, fra essi, anche due donne: due brave massaie, madre di cinque figli l'una e di tre l'altra. Esse non s'erano mai occupate di politica. Avevano preso parte a quel benedetto funerale, solo per doveri di parentela. La polizia li definì tutti 'gruppo comunista di Monterotondo' e li mandò a Lipari".

Con queste rapide osservazioni, Emilio Lussu ci da un documento prevalentemente letterario su un funerale rosso o sovversivo o ribelle nell'Italia degli anni venti, così come aveva potuto registrarlo, di seconda mano, essendo relegato in un'isola di confino (1). L'osservatorio non era certamente il migliore, nel senso che dei fatti originari si potevano al più rilevare alcune conseguenze (fra cui le forzature repressive e le deformazioni classificatorie allora in uso); ma l'intuito dello scrittore, forte della sua esperienza di sardista, ha modo di risalire a una sociologia e psicologia comunitaria di tipo rurale, quale poteva essere quella di una località come Monterotondo.
Introducendo a questo volumetto, che intende sollevare il velo su una forma originale e semisconosciuta di antifascismo collettivo, in gran parte spontaneo o trasmesso dalle tradizioni d'altri tempi, ci è impossibile non sottolineare, ad esempio, che la zona di Monterotondo-Mentana ci appare densa di ricordi garibaldini e, appunto, antifascisti. (Esistono immagini fotografiche della gente di Monterotondo che assiste al principio di un altro funerale, che si forma proprio nella cittadina laziale, forzosamente, dopo il ritrovamento della salma di Matteotti nella macchia della Quartarella: un trasporto funebre che si svolgerà per mezza Italia, dal sud al nord, fino a Fratta Polesine). Soprattutto, ci è sembrato doveroso partire dalla nascosta testimonianza lussiana per avviare il discorso su certi aspetti meno noti e più intimi della resistenza popolare contro lo stato fascista, radicandolo a sua volta, legittimamente crediamo, alle prime notazioni dell'antifascismo militante. Non sorprende, e non dovrebbe sorprendere alcuno, che nell'emigrazione politica (intorno al 1929-30) e poi in Italia all'acme dell'insurrezione d'aprile, le annotazioni di Lussu siano passate del tutto inosservate. I tempi per una diversa valutazione non erano maturi per più ragioni, e innanzitutto per gli orientamenti e gli indirizzi della cultura politica e storica di un paese che usciva dalla dittatura di Mussolini, dal predominio della filosofia idealistica e dalla "cultura dell'autarchia" attraverso le trasposizioni interne e internazionali di una assai acuta lotta delle classi e delle parti, ma con una assai scarsa attenzione alla vita reale del popolo.
Tuttavia il testo di Lussu precorre i tempi ed è, per i tempi, abbastanza indicativo. Gli arrestati del piccolo centro non lontano da Roma, con le loro donne, si trovano ad essere incasellati dalle commissioni preposte all'assegnazione al confino fra i "rossi" più estremi; sono connotati da un certo grado di "ostilità al fascismo", ma questa non sembra - ai confinati "politici" - così estesa e approfondita da qualificare una permanente e sicura lotta contro il regime. Non è dunque da escludere la traccia di un qualche atteggiamento elitario. Sarebbe stato necessario un lungo volgere di anni, il superamento di tutto un ciclo culturale e sociale perché si potesse addivenire a una più adeguata riconsiderazione critica e a un primo padroneggiamento del fenomeno, quale è indicato in questo libro.

Con i saggi di Claudio Venza e di Marco Puppini, se il tramite è ancora dato dalla memoria dell'antifascismo, il problema storico viene indagato espressamente, circoscritto, avviato a soluzione: ci troviamo non più nell'agro romano, ai limiti del Mezzogiorno, ma a Prato Carnico, in Val Pesarina, alla periferia nord-orientale dell'Arco Alpino (Carnia), col sottofondo dei suoi problemi nazionali. Un villaggio e una valle che vivono di emigrazione, quindi di internazionalismo. Un internazionalismo e associazionismo popolare e operaio che si insediano, si riflettono nelle attività della Casa del Popolo, che a sua volta eredita e organizza il senso di autodifesa e di protagonismo di una piccola comunità montana, anche in contrasto col riformismo legalitario della Federazione socialista di Udine e col conservatorismo nazionalista della "Patria del Friuli". E qui emerge un anarchismo concreto, direi in carne ed ossa, di cui peraltro non sono in grado di misurare lo spessore, ma che sembra espandersi o resistere in contrasto e in simbiosi con le insufficienze dei partiti, con la realtà culturale e sociale del fatto migratorio prima e del fatto bellico dopo. Una sorta di anarchismo di ritorno, rialimentato dalla guerra e dal fascismo.
Dunque, il funerale di un sovversivo e, se si vuole, in senso traslato un funerale "ribelle" in pieno 1933, quasi a saldatura fra due epoche ben distinte nell'evoluzione della società e della dittatura. Giustamente a questo proposito si individua l'intreccio inscindibile fra una "forte spontaneità" e una "rudimentale struttura di collegamento", fra la pietà, il rispetto per i morti e il momento della "critica politica" (Venza), fra elementi di storia e di coscienza di classe e i "cento legami di solidarietà familiare e amicale" di quel piccolo centro (Puppini).
Si trascorre così verso una problematica più generale: sia coinvolgendo la questione del consenso o del non-consenso, sia cercando di delineare le dimensioni qualitative, il significato emblematico di "resistenza culturale" dei "funerali rossi", questa volta infine al plurale (Dianella Gagliani). Ecco: non si tratta tanto di microstoria o macrostoria. Certo, tali alternative sono avvertite, e affiorano nuovi interessi, nuove tecniche di indagine; la storia e tradizione orale, nel caso specifico, si presta ad essere integrata con ulteriori e per questo aspetto non consuete ricerche d'archivio. È significativo che una problematica in un certo senso autonoma, che oggi riemerge e viene recuperata come un segno di vita popolare, avesse trovato nelle carte di polizia e nei ragguagli statistici dei funzionar! del ministero dell'interno del periodo fascista una particolare rubricazione non a caso intitolata "funerali sovversivi". Ora il funerale del primo giugno 1933 a Prato Carnico si inscrive nella formazione dell'antifascismo locale e sta già ad indicare una tendenza popolare e unitaria ("Prato è una delle culle del movimento partigiano garibaldino in Carnia"), ma nel medesimo tempo si coordina al sottosuolo, per cosi dire, della memoria storica del movimento operaio e popolare di tutto il paese, dalle Alpi alle isole. Perciò gli studi locali convergono efficacemente a dilatare e problematizzare la storia politica, sociale, culturale degli italiani durante il fascismo.
Protesta e solidarietà, sviluppi ideologici e sentimenti collettivi si aprono una strada attraverso strutture comunitarie; ma vivo e attivo è anche il senso di un'organizzazione sociale moderna, di un movimento che, partendo dal basso, trasformi e rinnovi la società. In questo clima, proprio delle classi popolari impegnate comunque nella produzione (e in fondo non troppo dissimile fra la seconda metà degli anni venti e la prima metà degli anni trenta) si è potuto ricostruire l'episodio, ben caratterizzato, delle esequie di un anarchico. Naturalmente, se si volessero studiare tutte le componenti-("spontanee" e "organizzate") negli ambienti urbani e in quelli rurali delle onoranze funebri rese a un'esigua minoranza di ribelli o di non persuasi, un fenomeno capillare e di base che richiama in primo luogo l'attenzione dei prefetti e dei questori, il discorso si amplierebbe di molto. I promotori di queste memorie carniche e del presente inquadramento nazionale del problema, assicurano che nello spazio di circa un ventennio - ma con maggiore densità nei due lustri sopra indicati- furono nella penisola non meno di alcune decine. È chiaro che in queste manifestazioni si riafferma e si trasmette, oltretutto, un certo patrimonio, un certo grado di coscienza del vecchio movimento operaio. Si va insomma dal dissenso aperto e organizzato (con certe cautele) al non consenso di una cerchia più o meno vasta, che pure partecipa, non si sottrae. La questione si ricongiunge così a quella della "fabbrica del consenso" da parte del regime dittatoriale, sollevata dagli esuli antifascisti molti decenni prima che dagli storici del fascismo.
Per altro verso, a proposito di "funerali rossi", di sovversivismo, di speranze socialiste e libertarie, di combattività comunista e di classe si va oltre i problemi del consenso e del dissenso in termini partitici, statuali, di società civile "moderna". Vogliamo dire che in ogni funerale di questo tipo - come in ogni celebrazione clandestina del 1° Maggio - si esprime una certa dose di spirito rivoluzionario (e/o refrattario) che non è soltanto un riflesso della •psicologia e cultura del "biennio rosso " (il cosidetto "diciannovismo" invocato e criticato da Pietro Nenni). Spesso l'alternativa è altra, e più alta, presupponendo certi valori che resistono e continuano nelle avanguardie, fra la gente. Le avanguardie - in genere comunisti e anarchici di estrazione popolare più non molti giellisti e socialisti fra gli intellettuali - rivendicano, tengono presente e cercano di coltivare nel quotidiano un processo di contestazione in radice della dittatura e l'approccio o approdo a un ordine radicalmente mutato. In forme eclettiche e secondo un certo sincretismo popolare sopravvivono - in cerehie più ampie - e talvolta si enucleano esigenze di riscatto e superamento delle contraddizioni presenti, di avanzata-ritorno verso una società giusta e rapporti sociali più vivibili (sopportabili) e equi.
Spesso si postula una rivincita, su questa terra, in un domani più o meno prossimo. Qui religiosità popolare e antropologia politica sembrano toccarsi e talora si elidono e sorreggono a vicenda. L'urto, se mai, è con il rappresentante del fascio o del clero, e si traduce in un intervento delle forze dell'ordine. È una divergenza che in fondo ricomprende, sebbene in termini elementari, radicali differenze nella concezione del mondo. È lo stesso rito civile del funerale che configura, in modo più o meno compatto ed unanime, la presenza di idee indirizzate contro corrente e fornite, fa/ora, di un notevole seguito. Il senso storico di questi riti funebri sembra dunque consistere, considerandone i diversi livelli e i significati più riposti, in una testimonianza collettiva, che tende ad affermare, per breve momento, una certa concezione della vita, della morte e quindi (o in primo luogo) della società. Ci si trova di fronte a un riflesso indiretto della lotta delle classi, o di una lotta effettivamente vissuta nel movimento operaio e socialista. In modo più o meno immediato, tutto ciò stava a significare che l'autoritarismo fascista - alleato col potere ecclesiastico e rivestito di una sua sacralità - non sarebbe innocuamente passato, nonostante le apparenze, né a Monterotondo né a Prato Carnico (come in cento altri posti).
Siamo insomma inclini a vedere in siffatte manifestazioni, insieme intrecciate, un'espressione originaria di convinzioni popolari comunque fortemente radicate, e una forma più o meno esplicita di resistenza che si apre un varco nelle maglie periferiche del regime. Socialismo e anarchismo, come ideologia diffusa della massa lavoratrice, specie in certe situazioni, nel solco di più rilevate tradizioni locali - come si è stabilito con puntualità nel caso di Prato Carnico - si davano la mano nella ostilità per tanta parte sotterranea e potenziale ma in piccola parte irriducibile ed esemplare, al fascismo. Il funerale sovversivo, come diceva la dizione della polizia di stato, viene così a formare una pagina distinta di storia popolare, che ha per sé e mantiene un certo avvenire, un suo messaggio. Il senso storiografico di questo abbozzo di discorso, e dell'attenta, appassionata eppure serena documentazione che segue, rafforza una interpretazione dialettica del fascismo: si portano alla luce nuovi argomenti e reperti, a sostegno di una visione di conflittualità di cui sono protagoniste masse di consenzienti e masse di dissenzienti.
Davanti a tradizioni, testimonianze, ricerche come quelle della Val Pesarina (e altre potrebbero condursi analogamente) i termini un po' convenzionali e apodittici di "dissenso" e "consenso" risultano un poco più chiari, implicitamente rielaborati e in qualche modo riassorbiti nel quadro di una più ricca e matura visione del processo storico, comprensiva di risvolti sociali e culturali finora se non proprio "segreti" troppo trascurati.


(1) Emilio Lussu, La catena, Edizioni U, Roma-Firenze-Milano 1945, pp. 113-114. La prima edizione era uscita a Parigi, s.d., quindici anni prima, per i tipi di "Giustizia e Libertà".