LE
FOIBE TRIESTINE
1. LA “CULTURA” DELLA “FOIBA”
Bisogna
precisare innanzitutto che la “cultura” della “foiba”
non ha proprio una matrice di sinistra. Troviamo infatti in un libro
di testo in uso nelle scuole della regione durante il ventennio fascista
questa poesiola molto educativa:
De Dante la Favella
Mia mama m’ha insegnà,
Per mi xe la più bella
Che al mondo ghe xe sta.
E per difender questa
E sovenir la Lega
Convien che ognun s’appresta
A fare el suo dover.
O mia cara patria
Mio dolce Pisin ,
Mio nono cantava
Co iero picin.
Me par de vederlo
Là in fondo al castel
Che sempre ‘l dixeva
A questo ed a quel:
Fioi mii, chi che ofende
Pisin, la pagherà:
In fondo alla Foiba
Finir el dovarà.
Non è
questa propaganda slavocomunista, ci sembra...
Però abbiamo poi anche il vate Giulio Italico, al secolo Giuseppe
Cobol (poi italianizzatosi in “Cobolli Gigli”), che pubblicò,
nel 1919 (ben prima dell’avvento del fascismo, dunque), un libretto
dal titolo “Trieste. La fedele di Roma”. In esso è
contenuta la trascrizione dell’aulica canzoncina, anch’essa
di evidente origine pisinota, che così recita:
A Pola xe l’Arena,
La “Foiba” xe a Pisin
che i buta zò in quel fondo
chi ga zerto morbin.
E a chi con zerte storie
Fra i piè ne vegnerà,
Diseghe ciaro e tondo:
Feve più in là, più in là.
Questa è
dunque la tradizione culturale che ha portato al fenomeno “foiba”.
Non ci risultano canzoni partigiane, slave o italiane che siano, che
facciano l’apologia della foiba .
Va anche riferito che più volte furono i fascisti a gettare
nelle voragini persone ancora vive, persone “colpevoli”,
magari, solo di essersi fatte scoprire a dire qualche parola in sloveno
o croato; così come risultano, dall’archivio dello Stato
civile triestino, diverse persone “infoibate da forze nazifasciste”
durante la guerra. Bisogna ricordare che molto spesso i partigiani celavano
nelle foibe i corpi dei propri compagni caduti in combattimento, per
evitare che fossero trovati dal nemico, identificati e di conseguenza
le loro famiglie fossero oggetto di rappresaglie.
1.
LE FOIBE ISTRIANE E LA PROPAGANDA NAZIFASCISTA
Nel nostro
studio abbiamo coscientemente lasciato da parte il problema
delle foibe istriane, sia per motivi di ordine pratico (ci
è per ora praticamente impossibile acquisire dati e notizie esaurienti
sugli “scomparsi” dall’Istria), sia perché
le foibe istriane dell’immediato dopo 8 settembre 1943 furono
in realtà un fenomeno in stile “jacquerie”
di giustizia sommaria fatta da chi fin troppo aveva
patito per vent’anni. Vero è però anche che, mentre
quasi tutti gli storici, di destra e di sinistra, concordano nello stimare
in alcune migliaia i morti delle foibe in Istria, dal
rapporto Harzarich, risultano recuperate da dieci foibe istriane 204 salme, metà circa delle quali riconosciute; vengono poi indicate
altre cinque foibe dalle quali non fu possibile effettuare recuperi,
più ancora 19 persone fucilate e gettate in mare da una barca.
Anche questo dovrà essere dunque oggetto di studio, ma per il
momento esula dalla nostra ricerca.
Va precisato che a parlare per prima di foibe usate come strumento
di eliminazione etnico-politica dai partigiani fu la stessa propaganda
nazista che utilizzò ad arte la documentazione fotografica
dei recuperi dei corpi infoibati in Istria. Scrive Parovel:
«I
servizi della X Mas assieme a quelli nazisti organizzarono la riesumazione
propagandistica degli uccisi, con ampio uso di foto raccapriccianti
dei cadaveri semi decomposti e dei riconoscimenti da parte dei parenti.
Le prime pubblicazioni organiche di propaganda sulle foibe sono due:
“Ecco il conto!” edita dal Comando tedesco già nel
1943, ed “Elenco degli Italiani Istriani trucidati dagli slavo-comunisti
durante il periodo del predominio partigiano in Istria. Settembre-ottobre
1943” redatto nel 1944 per incarico del Comandante Junio Valerio
Borghese, capo della X Mas e dell’on. Luigi Bilucaglia, Federale
dei Fasci Repubblicani dell’Istria, da Maria Pasquinelli, con
l’ausilio di Luigi Papo ed altri ufficiali dei servizi della X
Mas».
Fu la stessa Pasquinelli, come ci riferisce Luigi Papo
in persona, a portare «in salvo» da Pola sul finire della
guerra «per incarico del “Centro Studi Storici”
di Venezia» assieme ad altri documenti, anche «copia
di tutta la documentazione sulle foibe. Raggiunta Milano, il 26 aprile
1945, in Piazzale Fiume, raggiunse l’ufficiale della X Mas incaricato
dal comandante Borghese, Bruno Spampinato (divenuto giornalista nel
dopoguerra, n.d.a.) e gli consegnò tutto il materiale, utilizzato
nella stesura degli articoli apparsi prima su “L’Illustrato”
e poi in “Italia Liberata” e nel “Contro
memoriale”.
Queste notizie vennero poi diffuse dagli uffici stampa della Decima:
fu così che iniziò quell’operazione propagandistica
che dura da cinquant’anni ed i cui effetti arrivano fino al giorno
d’oggi e sono ben evidenti ai nostri occhi.
Le foto sono le stesse che vengono pubblicate in ogni occasione in cui
si parla di foibe, indipendentemente dalla zona o dal periodo storico
di cui si parla, amplificando in questo modo anche il numero reale dei
morti.
Già nel 1944 a Trieste uscì, sul settimanale “Vita
Nuova” (l’organo della Curia Vescovile di Trieste),
un articolo nel quale venivano accomunati la “barbarie”
dei “titini” e l’”infamia dei campi di sterminio
nazisti”. Questo comunque creò tensione tra il vescovo
Santin ed il comando tedesco, al quale non piaceva si parlasse delle
loro attività genocide.
Nel dopoguerra i servizi segreti che avevano fatto riferimento alla
Decima collaborarono anche con i servizi segreti degli Alleati in funzione
anticomunista ed una delle loro attività fu appunto continuare
a propagare la “mitologia” (oggi si direbbe “leggenda
metropolitana”) dei “migliaia di infoibati dai titini”,
propaganda che andava bene sia in funzione anticomunista che per continuare
a negare alla comunità slovena minoritaria del Friuli-Venezia
Giulia la tutela cui avrebbe comunque diritto da precise disposizioni
dei trattati di pace, per non parlare delle più recenti normative
europee .
Va da sé che quando la propaganda di destra cita gli “orrori
delle foibe”, si “dimentica” regolarmente di citare
la quantità di morti che costò la “pacificazione”
operata dai nazisti nei territori da loro “liberati” dai
partigiani .
V’è inoltre nel revisionismo storico il ritorno continuo
a quello che il prof. Miccoli, dell’Università di Trieste,
definì “accostamento aberrante”: l’asserire
che, come i nazisti avevano fatto funzionare la Risiera di S. Sabba
come campo di sterminio, così i “titini” avevano
“infoibato italiani”, quindi i criminali stavano da tutte
e due le parti.
Questo accostamento “aberrante”, appunto, non considera
tutta una serie di fatti: intanto che i nazisti avevano programmato
lo sterminio dei popoli da loro considerati “inferiori”
(Ebrei e Slavi innanzitutto, ma anche gli Zingari), così come
l’eliminazione degli handicappati, degli omosessuali, dei vecchi
invalidi; e pure l’eliminazione fisica degli oppositori politici
e la lotta contro i partigiani (Banditenkampf) condotta anche
mediante eccidi di massa, stragi, rappresaglie contro ostaggi innocenti
e via di seguito. Nessun paragone può essere fatto con il comportamento
delle forze armate partigiane (jugoslave ed italiane) che non avevano
tra le loro finalità né la pulizia etnica né la
purezza della razza né era loro proprio il concetto della rappresaglia
terroristica; le persone che risultano scomparse od uccise a Trieste
nel periodo dei 40 giorni di amministrazione jugoslava, salvo in alcuni
casi di vendette private (delle quali non si può incolpare il
movimento partigiano intero), sono state tutte arrestate in base a prove
e denunce attendibili e poi processate. In ogni caso il loro numero
(poco più di 500 nell’intera attuale provincia di Trieste,
compresi i militari prigionieri di guerra morti di malattia nei campi)
è tale da poter scartare a priori la teoria del “genocidio”
che il revisionismo storico e l’inchiesta condotta dal P.M. Pititto
cercano di avallare.
Tanto per rendere l’idea di come le autorità jugoslave
operassero a Trieste, citiamo questa testimonianza di Mario Pacor, giornalista
comunista triestino :
«Fu così che agli operai insorti non fu permesso di
procedere a quelle liquidazioni di fascisti responsabili di persecuzioni
e di violenze, a quegli atti di “giustizia sommaria” che
invece si ebbero a migliaia a Milano, Torino, in Emilia e in tutta l’Alta
Italia nelle giornate della liberazione e poi ancora per più
giorni. “Non ce lo permettono” mi dissero ancora alcuni
operai “pretendono che arrestiamo e denunciamo regolarmente codesti
fascisti, ma spesso, dopo che li abbiamo arrestati e denunciati, essi
li liberano, non procedono. E allora?” ne erano indignati.
(...) Mi consta d’altro canto anche di persone che, denunciate
da triestini con lettere anonime o altrimenti probabilmente solo per
rancori e vendette personali, furono trattate con estrema correttezza
da parte di ufficiali jugoslavi che, accertatisi dopo brevi interrogatori
dell’infondatezza delle accuse, le rilasciarono immediatamente
con tante scuse...»
2.
LE FOIBE NELLA ZONA DI TRIESTE
In totale
dalla zona di Trieste furono recuperate 42 salme di persone gettate
in varie cavità dopo essere state uccise e qui va precisato questo,
perché nell’immaginario generale si evoca l’immagine
del disgraziato gettato vivo nella voragine e lasciato morire lentamente,
magari incatenato al corpo senza vita di un’altra persona. Tutto
ciò sicuramente non risulta per gli “infoibati” della
provincia di Trieste.
Lasciando per ultime le tre “foibe” la cui storia è
più problematica (Plutone, Opicina campagna, Pozzo della miniera
di Basovizza), parliamo brevemente delle altre foibe.
Nelle due foibe di Gropada e Padriciano furono gettate, dopo essere state fucilate, complessivamente undici
persone in tempi diversi. Fu celebrato un unico processo: gli imputati
erano gli stessi per le due foibe. Va precisato che il processo si celebrò
il 20 giugno 1947, gli imputati furono riconosciuti colpevoli e condannati
in contumacia; ricevettero poi l’amnistia da Pertini. Il loro
debito con la giustizia è quindi saldato e non si possono riprocessare
per lo stesso delitto.
Per correttezza nei confronti dei condannati ancora viventi, che non
vogliono rivangare questi fatti, non faremo in questa sede i loro nomi,
ma ci limiteremo a ricostruire le figure degli uccisi nelle due foibe.
A Gropada trovarono la morte le seguenti persone: Carlo Zerial e Rodolfo
Zulian, borsaneristi, che furono uccisi già nel gennaio 1945
e quindi rientrano relativamente nella nostra ricerca; poi tre membri
dell’Ispettorato Speciale di P.S. (Adriano Zarotti, Umberto Marega
e Carmine Esposito) e Dora Cok, collaborazionista longerana. Per queste
morti fu condannato, tra gli altri, il suo fidanzato, D.P., che al processo
venne accusato di averla uccisa per gelosia, dato che la giovane gli
aveva preferito lo Zarotti. La giovane però, visto che girava
con alcuni membri dell’Ispettorato, fu sospettata di avere riferito
alla banda Collotti l’ubicazione del cosiddetto bunker di Longera
(un nascondiglio usato dai partigiani come base di sosta). Nel corso
dell’azione, condotta da membri della banda Collotti, trovarono
la morte quattro partigiani, tra cui il padre di D.P. Come si vede,
le cose non sono mai semplici da giudicare...
Gli altri “infoibati” di Gropada erano Angelo ed Antonio
Morandini, lavoratori alla cava di Longera ma anche ausiliario dell’Ispettorato
il primo e rappresentante del Fascio di Gattinara il secondo; ed infine
Luigi Zerial, del quale non siamo però riusciti a trovare notizie
sui motivi della sua uccisione.
A Padriciano, invece, furono uccisi Marcello Savi e la sua convivente
Gisella Dragan (coniugata Cian: il solerte Pirina la mette due volte
nel suo elenco). Nel corso del processo emerse che i due sarebbero stati
uccisi perché chi li uccise voleva impossessarsi del loro negozio
di manifatture; però da altri documenti il Savi viene indicato
come “addetto al trasporto prigionieri politici”.
Nella foiba di Monrupino, ovvero il “Tabor”
di Opicina, vennero uccisi tre ferrovieri che avevano
rubato generi alimentari nel paese di Opicina. Anche qui i colpevoli
furono processati e condannati; qui però, secondo noi, si rientra
nell’ambito delle vendette personali contro crimini comuni (comunque
molto gravi, dato il periodo di ristrettezze generali), e per questo
non si dovrebbero confondere questi fatti con i fatti di guerra, ovvero
gli arresti di persone coinvolte nei crimini nazifascisti ed internate
o giustiziate per questo motivo.
Vicino a Basovizza (ma non nel pozzo della miniera)
furono invece uccisi Vittorio Gatta, squadrista della prima ora e membro
dell’Ispettorato Speciale, e Marcello Forti, altro squadrista
di lunga data e militare. Nel pozzo della miniera di Basovizza (Šoht),
del quale parleremo dopo, sarebbe stato invece gettato Mario Fabian,
anch’egli membro dell’Ispettorato Speciale. Anche qui fu
celebrato un processo (nel 1949), conclusosi con la condanna dei responsabili
che ammisero di avere ucciso il Fabian. Va precisato che però
il corpo di Fabian non fu mai recuperato dallo Šoht, di lui si
ritrovò solo la giacca.
A Temenizza, tra Lipa e Castagnevizza, oggi in Slovenia, furono gettati
l’ausiliaria dell’esercito Rosandra Irena Kralj, catturata
a Slivno-Slivia (nei pressi di Sistiana, comune di Duino-Aurisina) ed
uccisa a Comeno.
Ancora nei pressi di Seana furono uccise due guardie civiche,
Luigi Berti e Giuseppe Bruno Mineo, ed in un’altra foiba tra Seana
ed Opicina due militari, Egidio Patti ed Emilio Di Pumpo.
3.
LA FOIBA PLUTONE
Nell’abisso
(foiba) Plutone (voragine che si apre sul Carso triestino nei pressi
della strada che collega il paese di Basovizza a quello di Gropada,
detta tradizionalmente Jamen Dol), vennero gettati, dopo essere stati
fucilati, nella notte tra il 24 e il 25 maggio 1945, 18 prigionieri
che avrebbero dovuto essere condotti a Lubiana per venire processati
come criminali di guerra. I responsabili di questo eccidio (la famigerata
“banda Steffè”) vennero poi arrestati,
processati e condannati dalle stesse autorità jugoslave; nel
‘48 fu celebrato anche a Trieste un processo contro i responsabili
o presunti tali (tra di essi Nerino Gobbo, che non solo si è
sempre dichiarato estraneo all’infoibamento ma anzi ha anche contribuito
ad arrestare i membri della banda), conclusosi con diverse condanne.
Del processo però parleremo dopo. Diamo adesso la parola proprio
a Nerino Gobbo, il comandante Gino, militante e poi
comandante di Unità Operaia, responsabile, al
momento dell’insurrezione di Trieste, dell’ordine del II
Settore, il più esteso della città; Gobbo ha concesso
questa intervista nel settembre 1996 al periodico triestino “La
Nuova Alabarda”.
«Villa Segrè, la famigerata villa Segrè che
prima era stata comando delle S.S., fu destinata a sede del comando
del 2° settore. Ricevetti la comunicazione di trasferimento dalla
sede di S. Giovanni a villa Segrè intorno al 4 o 5 maggio; organizzammo
il comando del 2° settore con funzioni di ordine pubblico. Tra le
funzioni c’erano la persecuzione dei crimini compiuti dai nazifascisti
ma anche dei crimini di anteguerra e poi c’erano anche altre cose,
vendette personali, saccheggi, anche atti criminosi peggiori che, per
il fatto di essere commessi durante il periodo della presenza dell’Armata
Jugoslava, venivano attribuiti tutti alle forze di liberazione jugoslave,
specie a noi triestini che avevamo combattuto con il IX Korpus.
«Quello che di più ci impegnò in quel periodo
fu proprio il cercare di evitare che accadessero violenze indiscriminate,
ma avevamo anche altri compiti, come rifornire di viveri gli ospedali,
aiutare le famiglie di nostri caduti e dispersi che non avevano mezzi
di sussistenza, fare i permessi per chi voleva andare via da Trieste:
fu così, tra l’altro, che potemmo arrestare un membro della
banda Collotti che era venuto a farsi fare il permesso, ma venne riconosciuto
da uno di noi. Ricevemmo anche richieste più strane, come richieste
di divorzio, ma naturalmente su questo non potevamo accontentare la
gente.
«La struttura di villa Segrè era così composta:
al pianoterra c’era il corpo di guardia allargato con un gruppo
operativo, al primo piano c’era il comandante di questo gruppo
operativo; al secondo piano c’era il comando vero e proprio che
si occupava anche delle cose civili. Io ero lì, c’era un
vicecomandante che si occupava della parte operativa, la parte generale
del comando del 2° settore la gestivo io.
«Cos’è accaduto ai “Gesuiti”? Bene,
noi ci siamo imbattuti in una serie di atti inconsulti, criminosi, con
i quali abbiamo dovuto fare i conti. Un giorno mi telefonò il
comandante del 2° battaglione, Giordano Luxa, e mi chiese se avevo
io sotto controllo le carceri dei “Gesuiti”, ma io risposi
che quelle erano sotto la sua giurisdizione. Visto che avevano avuto
informazioni di maltrattamenti ed anche furti ai danni dei prigionieri,
dissi al mio vice di andare a dare un’occhiata.
«Ai “Gesuiti” c’erano dei “partigiani”
che dicevano di essere stati attivi durante l’insurrezione e che
avevano preso posizione alle carceri e anche al distretto e che avevano
fatto degli arresti. Ricevute queste informazioni dal mio vice, decisi
subito che dovevamo prendere noi il controllo delle carceri, e abbiamo
sostituito questo gruppo che c’era all'interno delle carceri con
altre persone di fiducia, con un comandante qualificato. Così
facemmo ordine nelle carceri.
«Per chiarire come fossero successi i fatti di prima e per
non destare sospetti e coperture, decidemmo di trasferire quel gruppo
al comando, dove sarebbero stati tenuti sotto osservazione. Così
potemmo impedire ogni reazione momentanea ed includemmo nel gruppo due
nostre guardie di fiducia che dovevano controllarlo. Dopo circa una
settimana abbiamo avuto abbastanza elementi in mano per decidere l’arresto
di tutto questo gruppo che era coinvolto in fatti che non corrispondevano
alle direttive, alla nostra funzione. I maggiori responsabili sono stati
consegnati all’autorità jugoslava che ha provveduto a processarli.
All’inizio ne avevamo arrestati di più, ma quelli consegnati
all’Armata erano circa dieci/dodici. Questi sono stati portati
a Lubiana, ma durante il viaggio alcuni di loro tentarono la fuga; alcuni
ci riuscirono, altri no. Quelli che riuscirono a scappare furono processati
a Trieste; quelli portati a Lubiana sono stati processati e riconosciuti
colpevoli, hanno fatto anche due o tre anni di reclusione e dopo sono
ritornati a Trieste».
v. anche qui
La
“banda Steffè”
Della cosiddetta
“banda Steffè”, autonominatasi “squadra volante”,
implicata nei fatti della Plutone, facevano parte, tra gli altri: Giovanni
Steffè, già membro della X Mas; Carlo Mazzoni; Ottorino
Zoll (o Col); Teodoro Cumar; Giacomo Stule; Giuseppe Cavallaro, anch’egli
ex membro della Decima; Edoardo Musina.
Esiste anche una testimonianza scritta che nomina tra i facenti parte
della cosiddetta Guardia del Popolo che operava in villa Segrè
pure Mario Suppani, già membro della banda Collotti, poi fucilato
a Lubiana. V’è quindi il ragionevole sospetto che vi fossero
delle infiltrazioni di provocatori provenienti dall’ambiente nazifascista
all'interno dei gruppi partigiani al probabile scopo di creare disordini
e discredito sulle autorità jugoslave che amministravano Trieste
.
«Due giorni dopo la notte della foiba Plutone, l’intera
“Squadra volante” veniva arrestata per ordine delle autorità
jugoslave e trasportata con due autocarri a Lubiana per essere processata.
Durante il tragitto, all’altezza di Fernetich, Zoll, Cumar, Steftè
e Mazzoni tentarono la fuga e gli ultimi due rimasero uccisi.
«Zoll veniva nuovamente arrestato al suo ritorno a Trieste
e, in un nuovo tentativo di fuga, si prese una sventagliata di mitra
alla schiena che lo freddò. Del nucleo dirigente della “Squadra
volante”, tra deceduti e latitanti, rimaneva solo Cumar, nel frattempo
condannato all’ergastolo dal tribunale jugoslavo» .
Il
processo
Il processo
per i fatti della Plutone a Trieste si aprì il 3 gennaio 1948.
Ridiamo la parola a Nerino Gobbo:
«A Trieste, a parte Cumar, gli altri sono stati tutti processati
in contumacia; si parla del famoso processo in cui fu coinvolto anche
Cecchelin. Gli imputati principali furono tutti condannati in contumacia,
come me; io fui condannato come comandante del gruppo che avrebbe fatto
sotto il mio comando quello che è stato loro imputato, mentre
al processo avrebbe dovuto venire fuori che io ero stato quello che
aveva impedito a quei signori di continuare a fare quello che stavano
facendo di male. Ma i testi a mia discolpa non si trovavano; una di
essi, che aveva chiarito le cose in istruttoria, al momento di testimoniare
in tribunale era “irreperibile”.
«Quello che è molto interessante rispetto
al processo è che io non sono mai stato né invitato né
notificato a presentarmi. Dai miei organi di Stato sono stato invitato
alla prudenza nel caso andassi a Trieste, ma non ebbi mai notizia ufficiale
del processo.
«Praticamente sono stato informato del processo dall’avvocato
Sardoc, con il quale ero in buoni rapporti; mi fermò a Capodistria
e mi disse che avrebbe preso volentieri la mia difesa al processo. Dagli
atti del processo risulta che io ero irreperibile, ma io ero allora
una delle persone più note del capodistriano, andavo a Trieste
normalmente, mi conoscevano tutti. Avrebbero potuto incontrarmi ed interrogarmi
in ogni momento, potevano raggiungermi personalmente o tramite le autorità
o l’avvocato d’ufficio, ma non fecero nulla di tutto ciò.
Quanto alla proposta dell'avvocato Sardoc, non l’ho potuta
accettare per questioni giurisdizionali. Ammesso che avessi commesso
qualcosa che non andava, questo è stato fatto quando in forma
ufficiale io ero comandante di un settore che era alle dipendenze del
Comando città di Trieste, delle autorità civili costituite
da parte dell’Armata jugoslava che aveva liberato Trieste, quindi
ero una persona ufficiale e per le mie eventuali trasgressioni sarebbe
stato competente il Tribunale militare, così come sono stati
giudicati dalle nostre autorità tutti quelli imputati di aver
commesso qualche cosa».
Ancora dal libro di Duiz e Sarti:
«Fascisti della peggior fama venivano chiamati a deporre,
come Ugo Pelizzola (...) Mario Storini, Romeo Sau, Giuseppe Romito,
tutti ex squadristi (...), condannati a diversi anni (chi venti, chi
trenta) dalla Corte Straordinaria di Assise per sevizie, saccheggi,
bastonature e poco dopo amnistiati (...) E avventurieri come Bruno Banicevich
(...).o, come lo stesso Cavallaro, già appartenente alla X Mas,
con numerose testimonianze di brutali sevizie a suo carico, e poi passato
alla “Squadra volante”, “costretto” dal Gobbo
a sparare nella notte fatale de123/24 maggio del ‘45».
Il Cavallaro, dunque, che sostenne di «essere stato costretto
a sparare» da Gobbo che gli avrebbe tenuto una pistola puntata
alla schiena mentre lui e gli altri “infoibavano” i diciotto
prigionieri che avrebbero dovuto essere trasportati a Lubiana, il Cavallaro,
dicevamo, non fu imputato nel processo ma solo testimone, antesignano,
forse, di quella, tanto tristemente diffusa al giorno d’oggi,
figura del “pentito”, ovvero colui che, dopo essersi macchiato
di efferati delitti, riesce a salvare se stesso dal giudizio perché
testimonia contro altre persone.
Alla fine Cumar fu condannato a 28 anni e Cecchelin a 5 (con tre di
condono), mentre i tre contumaci furono condannati a 26 anni (Musina
e Gobbo) ed a 24 (Stule).
Gli
infoibati
Dall’abisso
Plutone furono recuperati, tra il 18 ed il 20 maggio 1947, 21 corpi,
18 dei quali corrisponderebbero ai prigionieri fatti uscire dai “Gesuiti”
per essere condotti a Lubiana. Gli altri tre corpi furono identificati
come persone abitanti nella zona e scomparse in periodi antecedenti
la fine della guerra.
Ma chi erano gli infoibati della Plutone? Eccone l’elenco: Chebat
Arrigo, impiegato cassa mutua ma anche squadrista della prima ora; Pelizon
Giuseppe, infermiere all’ospedale Maggiore: riferiva ai nazisti
in merito ai ricoveri da ferite d’arma da fuoco, in modo da denunciare
i partigiani feriti (che magari venivano curati con la complicità
di altri infermieri e medici); Polli Carlo, impiegato, ma negli articoli
di giornale che parlano dei recuperi delle salme, viene indicato come
“agente” non meglio specificato, poteva trattarsi di un
ausiliario di P.S.; Pellegrina Giacomo, in arte Nino D’Artena,
artista di varietà (fu per il suo arresto che venne incriminato
Cecchelin) ma anche squadrista, spia, collaboratore di Radio Franz ,
criminale di guerra denunciato da Radio Londra; Poropat Giuseppe, carbonaio,
ma anche torturatore di partigiani in Istria; Toffetti Domenico, interprete
per le S.S.; Spinella Giovanni, Piccinin Pietro, Camminiti Santo, Greco
Matteo, Piccozza Antonio, Sciscioli Gaspero, tutti dell’Ispettorato
Speciale di P.S.; Selvaggi Raimondo e Stoppa Mario Giorgio, della Pubblica
sicurezza; Trada Alfredo, delle Brigate Nere; Del Papa Filippo, agente
di custodia al Coroneo ma nei ranghi dell’Ispettorato Speciale,
Bigazzi Angelo e Mari Ernesto, capi degli agenti di custodia al Coroneo,
che furono responsabili di deportazioni ed internamenti nei lager tedeschi
di diversi loro sottoposti: due di questi, rientrati dalla prigionia
in Germania, li denunciarono alle autorità jugoslave di Trieste
a metà maggio ‘45; furono per questo arrestati dalle autorità
italiane e si trovavano rinchiusi in un carcere italiano ancora all’epoca
del processo.
La foiba Plutone può essere considerata forse l'unica “vera”
foiba triestina. In essa trovarono la morte dei criminali di guerra
che però avrebbero dovuto subire un regolare processo, il quale
non poté essere celebrato a causa delle “deviazioni”
dei membri della “banda Steffè”. Tenuto conto che
parte della “banda Steffè” (a cominciare da colui
dal quale la “banda” prese nome) proveniva dalla X Mas e
che della X Mas facevano parte i servizi segreti che avevano, assieme
ai nazisti, orchestrato la propaganda sulle foibe in chiave “anti-slavocomunista”,
viene il sospetto che anche l’episodio della foiba Plutone sia
stato fatto “a futura memoria”, un eccidio di cui incolpare
i partigiani jugoslavi, un crimine da ingigantire ed attorno al quale
creare ancora altre mistificazioni e confusioni.
Sarà casuale che Maserati (il quale è tutto sommato uno
degli storici più seri ed attendibili) parli del «recupero
di numerosi cadaveri di militari italiani e tedeschi e di civili, in
particolare nella foiba Plutone di Basovizza (pozzo della miniera)…»? Se Maserati definisce così la Plutone, vuol dire che in giro
“qualcuno” aveva fatto in modo da creare confusione nell'identificare
i due abissi, fondendo assieme i ricordi e le “testimonianze”
sui processi popolari a Basovizza nei pressi del pozzo della miniera
con i morti della Plutone, i quali erano stati veramente infoibati,
si noti bene: ma erano solo 18, mentre le “voci” diffuse
nell’estate del ‘45 da una certa stampa (legata a chi?),
parlavano di 400 persone gettate nell’altro abisso, sempre a Basovizza.
Ma del “caso” Basovizza parleremo un po’ più
avanti.
4.
LA FOIBA 149 DI OPICINA CAMPAGNA
La cosiddetta
“foiba 149” (il cui nome popolare è Bršljanovca),
detta anche di Opicina campagna, si trova nei pressi della linea ferroviaria
poco distante dall’attuale abitato del paese di Opcine-Opicina.
Questa cavità è stata usata come fossa comune per i caduti
della battaglia di Opicina, combattutasi senza tregua per sei giorni
e cinque notti dal 29 aprile al 3 maggio 1945. In questa battaglia,
ultimo tentativo tedesco di bloccare l’avanzata partigiana, persero
la vita da una parte 149 partigiani, 32 appartenenti al battaglione
sovietico, 8 abitanti del paese e 119 non identificati; i tedeschi persero
780 uomini e 3.500 furono i prigionieri. Fu dunque necessario dare urgente
sepoltura a tutti questi morti: dei tedeschi 220 trovarono posto nel
cimitero militare di Opicina, mentre gli altri 560 vennero sepolti d’urgenza
nella grotta Bršljanovca.
Nel 1957 fu ratificato un accordo tra i governi tedesco ed italiano
in base al quale le autorità federali tedesche richiesero il
recupero e la restituzione delle spoglie mortali dei caduti tedeschi.
Le autorità italiane autorizzarono il recupero dal cimitero militare
di Opicina ma non dalla Bršljanovca, che fu invece chiusa tra il
1958 ed il 1959 con opere monumentali simili a quelle della cosiddetta
foiba di Basovizza. Le due cavità vennero accomunate dalla propaganda
nazionalista come sacrari che contenevano “centinaia di infoibati
italiani”; sulla Bršljanovca venne posta anche una lapide
che ricorda i “caduti Istriani, Fiumani e Dalmati”
(che materialmente lì dentro non ci sono), mentre non fa minimamente
cenno a chi veramente giace lì sotto, cioè dei disgraziati
soldati tedeschi mandati a morire da una logica criminale; la stessa
logica che oggi continua a mistificare la storia ed offendere i morti,
di qualunque parte essi siano, perché li usa in modo strumentale
per fomentare altro odio tra i popoli.
5.
LA “FOIBA” DI BASOVIZZA
Ovvero: come si costruisce un falso storico
La voragine
nota come “foiba” di Basovizza è in realtà
il pozzo di una vecchia miniera abbandonata. Il suo
nome tradizionale è “Šoht”, è
profonda 254 metri e la sua imboccatura è più o meno un
rettangolo di tre metri per quattro. Già dopo la prima guerra
mondiale fu usata come discarica, anche di materiale bellico: fu anche
tristemente nota come meta di suicidi.
Dichiarata monumento nazionale dal presidente della
Repubblica Italiana Scalfaro nel 1992, è sempre stata usata dalla
propaganda reazionaria come “esempio” della “barbarie
slavocomunista”. Il numero dei corpi di infoibati che conterrebbe,
sempre secondo gli “storici” delle organizzazioni di destra,
varia dai 2.500 di un articolo apparso nel febbraio
1996 su “La Repubblica”, ai “cento
metri cubi di carne ed ossa” (sic!) dichiarati dall'ex-deputata
di Forza Italia Marucci Vascon in una lettera dell’agosto 1996
pubblicata sul “Piccolo”.
Ma anche storici più seri hanno accreditato la presenza nello
Šoht di 300-400 corpi, Come mai? Andiamo con ordine.
Dopo la battaglia di Basovizza (30.4.45) la gente
del posto vi gettò dentro corpi di militari, soprattutto tedeschi,
carcasse di cavalli (morti durante i raid effettuati dagli
aerei britannici nel corso della battaglia) ed anche materiale militare.
Tra il settembre e l'ottobre del 1945 gli angloamericani recuperarono
quanto poterono dal pozzo. Ma sentiamo cosa dice l’articolo apparso
sul “Piccolo” di Trieste il 10.1.95, a firma Pietro
Spirito e Roberto Spazzali:
«È del 13 ottobre 1945 il rapporto che elenca sommariamente
i risultati delle esumazioni, effettuate utilizzando la benna... questo
documento (...) permette di avere la conferma che almeno una
decina di corpi umani furono recuperati dagli anglo-americani. “Le
scoperte effettuate – si legge nel rapporto – si riferiscono
a parti di cavallo e cadaveri di tedeschi, e si può dedurre che
ulteriori sopralluoghi potrebbero eventualmente rivelare cadaveri di
italiani”». Sempre nella stesse pagine del “Piccolo”
vengono riportati dei brani tratti dal “rapporto segreto”
sopra citato, nel quale risulta la reale entità dei recuperi
effettuati: otto corpi umani interi (di questi due presumibilmente tedeschi
ed uno di sesso femminile), alcuni resti umani (per lo più arti)
ed alcune carcasse di cavallo. Continua l’articolo: «Ma
una decina di corpi smembrati e irriconoscibili non dovevano sembrare
un risultato soddisfacente e alla fine si preferì sospendere
i lavori».
Ma come mai gli angloamericani decisero di recuperare quanto “infoibato”
nel pozzo della miniera? Già il 29 luglio 1945 apparve questa
notizia (noi la citiamo da "Risorgimento Liberale",
organo del Partito Liberale):
«Grande e penosa impressione ha destato in tutta l’America
la notizia, proveniente da Basovizza presso Trieste, circa il massacro
di oltre 400 persone da parte dei partigiani di Tito, le cui salme sono
state scoperte dalle autorità alleate nelle cave di quella zona.
Particolare rilievo viene dato al fatto che ivi compresi si trovano
otto cadaveri di soldati neozelandesi e si temono di conseguenza complicazioni
internazionali».
Ma già due giorni dopo appare, sullo stesso quotidiano, questo
titolo: “Smentita alleata sul pozzo di cadaveri a Trieste”.
Ed ecco l’articolo:
«Il Comando generale dell’Ottava Armata britannica
ha ufficialmente smentito oggi le notizie pubblicate dalla stampa italiana
secondo cui 400 o 600 cadaveri sarebbero stati rinvenuti in una profonda
miniera della zona di Trieste.
Alcuni ufficiali dell’Ottava
Armata hanno precisato inoltre che non si hanno indicazioni circa i
cadaveri degli italiani ma per quanto riguarda l’asserita presenza
di cadaveri di soldati neozelandesi essa viene senz’altro negata»
.
Si può notare in queste poche righe come iniziò a lavorare
la provocazione reazionaria per creare, come si direbbe oggidì,
l’”immaginario” della foiba: intanto si tirò
fuori la notizia di una cifra enorme di “infoibati”, per
creare impressione ed orrore e la si presentò come se negli Stati
Uniti non si parlasse d’altro, cosa non vera; e poi il tocco finale
degli otto soldati neozelandesi uccisi dai partigiani di Tito, tanto
per creare ulteriore tensione tra il governo jugoslavo e quello britannico
(si noti il finalino del primo articolo: «si temono complicazioni
internazionali»). È poi degno di nota anche il passaggio
dai «400» cadaveri del primo articolo ai «400-600»
del secondo.
Così gli angloamericani decisero di scavare nel pozzo
di Basovizza per chiarire la faccenda anche perché nel
frattempo in città continuavano le voci che parlavano di “centinaia
di infoibati dai titini”. E quello che trovarono risulta
dal rapporto sopra pubblicato.
Diciamo anche, a questo punto, che non sembra probabile che corpi di
italiani uccisi verso il 5 o 6 maggio possano trovarsi sotto i corpi
dei tedeschi morti una settimana prima, per cui, una volta trovati i
tedeschi, gli angloamericani decisero probabilmente che nello Šoht
non potevano esserci né italiani né neozelandesi. Esiste
comunque un’altra smentita, da parte del Ministero della difesa
neozelandese, in merito alla supposta presenza di soldati neozelandesi
nel pozzo di Basovizza; risale al 12.2.1996 ed è stata pubblicata
dal periodico “Novi Matajur” il 25.4.1996. Il Ministro
Crawford risponde ad una lettera inviata dal signor Valentin Brecelj,
membro del circolo di Melbourne dell’associazione degli emigranti
sloveni, il quale, avendo letto sul settimanale “Epoca”
dell'aprile ‘95 che «nel pozzo della miniera abbandonata
di Basovizza, tra centinaia e centinaia di morti, sono stati ritrovati
anche i cadaveri di 27 neozelandesi...», scrisse, nel febbraio
del ‘96, proprio al Ministero della Difesa neozelandese per avere
chiarimenti. La risposta, arrivata dopo soli dieci giorni, è
breve e lapidaria: «In passato noi abbiamo indagato su simili
rapporti ed abbiamo verificato che non sono basati su fatti».
Ma torniamo ai “rapporti segreti” che il “Piccolo”
pubblicò in più puntate nel gennaio ‘95.
Titolo apparso all’interno di un paginone dedicato all’argomento
“foibe” in data 30 gennaio 1995: “COSÌ
DUE PRETI TESTIMONIARONO GLI INFOIBAMENTI”. In questo articolo
viene pubblicato un brano contenuto in un documento stilato dagli Alleati
nell’ottobre 1945 (una copia di questo, in lingua inglese, è
conservata anche presso l’Istituto Regionale per la Storia del
Movimento di Liberazione di Trieste) che comprende le deposizioni di
due preti che, stando all’articolo, sarebbero servite agli “storici”
per accreditare le «esecuzioni di Basovizza».
I cosiddetti “testimoni oculari” degli infoibamenti, secondo
questo documento siglato da un certo “Source” (nome in codice;
però source in inglese significa semplicemente “sorgente”
o “fonte”), sono don Malalan, prete di S. Antonio in Bosco-Boršt,
(paesino a pochi chilometri da Basovizza) e don Virgil Šcek, parroco
di Corgnale (altro paese vicino a Basovizza, che però si trova
oggi in Slovenia), intellettuale e già deputato del Regno d’Italia
prima dell’avvento del fascismo.
Innanzitutto leggiamo che don Malalan non riferisce di aver assistito
personalmente ai processi ed alle esecuzioni, dando però queste,
a domanda di Source, per avvenute, e dichiarando che i prigionieri,
quasi tutti agenti di polizia, si erano ben meritati la fine che avevano
fatto. Ciò che riferisce don Malalan è il suo colloquio
con don Šcek, che aveva “ammesso di essere stato presente
al momento in cui le vittime venivano gettate nelle foibe”.
Lasciamo da parte quindi la testimonianza di don Malalan che parla per
sentito dire, come si direbbe in un’aula di tribunale e vediamo
invece cosa riferisce Source del racconto di don Šcek:
«Il 2 maggio egli (don Šcek, n.d.a.) andò
a Basovizza... mentre era lì aveva visto in un campo nelle vicinanze
circa 150 civili “che erano riconoscibili dalle loro facce quali
membri della Questura”. La gente del luogo voleva fare giustizia
in modo sommario ma gli ufficiali della IV Armata erano contrari . Queste
persone furono interrogate e processate alla presenza di tutta la popolazione
che le accusò. (...) Quasi tutti furono condannati a morte
(...) Tutti i 150 civili furono fucilati in massa da un gruppo di
partigiani. I partigiani erano armati con fucili mitragliatori, e poi,
poiché non c’erano bare, i corpi furono gettati nella foiba
di Basovizza».
Però: «Quando Source chiese a don Šcek se era
stato presente all’esecuzione o aveva sentito gli spari questi
rispose CHE NON ERA STATO PRESENTE NÉ AVEVA SENTITO GLI SPARI»
*. Quindi don Šcek fu testimone oculare sì, ma dei processi
e non degli infoibamenti.
Il documento prosegue ancora: «Il 3 maggio don Šcek andò
di nuovo a Basovizza e vide nello stesso posto circa 250-300 persone
(...) queste persone furono anche uccise dopo un processo sommario.
Erano per lo più civili arrestati a Trieste dopo i primi giorni
dell’occupazione. Don Šcek dichiara che erano quasi tutti
membri della Questura».
Ma neanche qui don Šcek li vide materialmente uccidere. Cosa poteva
essere successo dunque?
Come dovrebbe essere noto, i partigiani arrestarono, nei primi giorni
di maggio, molte persone, non a casaccio ma a ragion veduta, perché
avevano con sé degli elenchi in cui erano segnalati i nomi dei
criminali di guerra e dei collaborazionisti. Arrestarono per lo più
agenti di P.S., militari e collaboratori dei nazifascisti. Che fossero
in abiti civili non esclude che potesse trattarsi di poliziotti o militari
in borghese: nessuna persona intelligente si sarebbe tenuta addosso
le divise dopo l’arrivo dei partigiani, se solo avesse avuto la
possibilità di cambiarsi (e chi abitava a Trieste questa possibilità
ce l’aveva).
I prigionieri venivano portati a Basovizza dove aveva sede il Tribunale
del Popolo. Detta così può parere melodrammatica,
però va riferito che i processi si svolgevano effettivamente
di fronte alla popolazione, che aveva diritto di intervenire e testimoniare,
pro o contro gli accusati. Vi furono diversi casi in cui, non esistendo
testimonianze dirette a carico degli arrestati, questi vennero lasciati
liberi; il che causò non pochi errori giudiziari a vantaggio
degli accusati, come nel caso di Remigio Rebez, l’efferato “boia
della caserma di Palmanova”, che nella caserma Piave di Palmanova,
appunto, aveva operato feroci torture e massacri. Ma a Trieste non c’era
chi potesse testimoniare contro di lui, ed i “feroci titini”
lo lasciarono libero. Per la cronaca, fu processato a Udine nel 1946,
riconosciuto criminale di guerra e condannato a morte, poi amnistiato
ed è ancora vivo (nonostante Pirina lo metta tra gli “scomparsi”).
Una volta processati, gli arrestati, se riconosciuti colpevoli, venivano
inviati verso Lubiana per venire processati regolarmente. Sembra probabile
che la IV Armata jugoslava, che, come riferisce il rapporto di “Source”,
era contraria alle esecuzioni sommarie, avesse deciso di condannare
a morte i prigionieri tanto per calmare gli animi della popolazione
inferocita e poi li abbia condotti verso l’interno della Slovenia,
a Lubiana o nei campi di lavoro.
Il governo militare alleato usò poi lo Šoht come discarica
di materiale militare, ma decise, prima di lasciare Trieste
nel 1954, di affidare ad una ditta di Banne lo svuotamento del pozzo,
probabilmente per verificare di non aver lasciato dietro di se materiale
d’archivio o altre cose compromettenti.
Il comune di Dolina-S. Dorligo della Valle autorizzò,
con delibera giuntale n. 854/54 dd. 23.2.1954 [la
delibera è pubblicata nel testo integrale], lo
svuotamento del pozzo e gli operai addetti arrivarono fino alla profondità
di 225 metri, sui 254 totali. Furono estratti residui di armi, materiale
bellico e rifiuti vari: ma non v’era traccia di resti umani.
Vorremmo ora citare una curiosa coincidenza in merito allo svuotamento
del pozzo in quest’occasione: tra le persone che osservavano i
lavori - militari angloamericani, giornalisti (anche tedeschi) e semplici
osservatori curiosi - c’era anche un dirigente del Comune di Trieste,
capo del settore Nettezza Urbana. Questi era lo stesso Griselli che
si era trovato ad essere processato, proprio a Basovizza, sotto la tettoia
dell’attuale farmacia, nei primi giorni di maggio ‘45. È
questo uno dei casi di assoluzione per mancanza di testimonianze a carico:
Griselli giustificò la sua appartenenza al partito fascista perché,
lavorando al Comune di Trieste, temeva di perdere il posto se si fosse
rifiutato di iscriversi e fu creduto, dato che non c’era nessuno
a testimoniare contro di lui. In realtà, come risultò
da ricerche condotte da Samo Pahor, Griselli non solo era stato squadrista
della prima ora, ma si era anche trovato a ricoprire la carica di commissario
civile a Novo Mesto, nella “provincia di Lubiana” occupata
militarmente dagli italiani. Nel corso del suo mandato aveva rimandato
nella Stiria, che comprendeva anche la parte della Slovenia occupata
dai tedeschi, diversi ragazzi delle scuole superiori che erano profughi
a Novo Mesto, scappati dalle loro terre occupate, perché erano
“colpevoli” di avere organizzato, in occasione della festa
nazionale jugoslava (che cadeva il 1° dicembre), una protesta pacifica
nelle classi, protesta che consisteva nel rimanere alzati in piedi per
alcune ore in silenzio. Si può ben immaginare la sorte toccata
a questi ragazzi una volta rientrati in Stiria nelle mani dei nazisti.
Ma torniamo al nostro Šoht. Dopo lo svuotamento del ‘54,
tornata l’Italia, il sindaco Bartoli autorizzò
l’uso del pozzo come discarica di rifiuti e tale fu l’uso
che se ne fece fino alla fine degli anni Cinquanta. Come Gianni Bartoli,
che aveva costruito la propria immagine pubblica sulla base della nostalgia
per le terre perdute dell’Istria e del ricordo dei martiri delle
foibe (comprese le “centinaia di infoibati di Basovizza”!),
potesse autorizzare a scaricare immondizia sopra dei resti di corpi
umani ci è difficile da credere: potrebbe sorgerci il sospetto
che lui, che oltretutto aveva avuto il capo Griselli a sovrintendere
all’operazione di svuotamento, sapesse benissimo che lì
dentro non c’erano i corpi di quelli che lui, nei suoi libri,
lasciava credere che ci fossero.
Date queste basi, riteniamo che l’unica cosa logica, oggi come
oggi, per fare chiarezza una volta per tutte, sia che il pozzo venga
aperto e svuotato. Con le moderne tecniche non dovrebbe essere difficile:
e una volta aperto e verificato cosa c’è dentro, sapremo
se in tutti questi anni si sono portati dei fiori su un mucchio di immondizia.
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