
Durante
la recente visita di Ciampi in Friuli-Venezia Giulia un emissario
del Presidente ha avuto l’incarico di portare una corona
al monumento ai morti nel campo di concentramento di Gonars. È
stata la prima volta, probabilmente per insistenza dell’ANPI
regionale, che un alto esponente dello Stato italiano ha ricordato
l’esistenza dei campi di concentramento fascisti (il monumento
di Gonars era stato costruito nell’83 per volontà
della Repubblica Jugoslava). È un gesto fra l’altro
che avviene in controtendenza rispetto a una campagna revisionista
e antislava sempre più ossessionante. Comunque, qualsiasi
sia stata la motivazione di Ciampi, per la gran parte della gente,
non solo nel resto d’Italia, ma anche in Friuli, quel gesto
è stato occasione di scoprire qualcosa di terribile del
nostro passato.
La
tragedia dei campi di concentramento fascisti è stata infatti
in tutti questi anni nascosta o minimizzata, così come
i crimini dell’esercito italiano nei paesi aggrediti, per
alimentare invece il mito dell’"italiano buono e amato"
anche se aggressore e vittima a sua volta degli aggrediti infoibatori.
È un mito continuamente alimentato che oggi serve a puntellare
una politica neoirredentista nei confronti dei paesi dell’ex
Jugoslavia, che si basa su un rinascente razzismo antislavo, che
si va diffondendo anche a sinistra (sintomatico e sconvolgente
a questo proposito l’Espresso del 16/3/2000, che
ha in copertina il titolo "Sicurezza: slavi maledetti",
e poi nelle pagine centrali il reportage "Fortezza Italia",
sulla situazione dell’Istria, dove i croati vengono definiti
da un intervistato - con molta condiscendenza da parte dell’intervistatore
- "i "drusi", i maiali, i comunisti titini").
Quando
si va ad analizzare invece sui documenti ciò che ha fatto
l’esercito fascista italiano nei paesi aggrediti, il quadro
che ne esce è quello di un comportamento criminale. Qualche
tempo fa inoltre sono stati trovati da chi scrive, durante una
ricerca nell’Archivio di Stato di Udine, dei documenti della
Commissione Censura della Provincia di Udine, da cui la situazione
degli internati di Gonars e di Visco, i due campi di concentramente
del Friuli, risulta semplicemente sconvolgente. Una breve premessa
storica permetterà a tutti di inquadrare i fatti e comprendere
appieno i documenti.
1941: l’invasione della Jugoslavia
Il 6 aprile 1941 Hitler e Mussolini invadono la Yugoslavia. C’è
una immediata reazione e l’inizio della resistenza
jugoslava.
La
Slovenia viene smembrata fra Italia (il territorio che diventa
provincia di Lubiana) e Germania. Per quanto riguarda la Croazia
il 18 maggio Aimone di Savoia diventa re di Croazia, con il collaborazionista
Ante Paveliç come primo ministro.
In
Slovenia già dall’ottobre del 1941 il tribunale speciale
pronuncia le prime condanne a morte, il mese dopo entra in funzione
il tribunale di guerra. La lotta contro i partigiani, che diventano
una realtà in continua espansione, si sviluppa nel quadro
di una strategia politico-operativa rivolta alla colonizzazione
di quei territori. Con l’intervento diretto dei comandi
militari italiani la politica della violenza si esercita nelle
più svariate forme: iniziano le esecuzioni sommarie sul
posto, incendi di paesi, deportazioni di massa, esecuzioni di
ostaggi, rappresaglie sulle popolazioni a scopo intimidatorio
e punitivo, saccheggiamento dei beni, setacciamento sistematico
delle città, rastrellamenti… prende corpo il progetto
di deportazione totale della popolazione, con il trasferimento
forzato degli abitanti della Slovenia, progetto che i comandi
discutono con Mussolini in un incontro a Gorizia il 31 luglio
1942 e che non si realizza solo per l’impossibilità
di domare la ribellione e il movimento partigiano. Nel clima di
repressione instauratosi con l’occupazione militare nel
territorio jugoslavo, per il regime fascista nasce inevitabilmente
l’esigenza di creare delle strutture per il concentramento
di un gran numero di civili, deportati da quelle regioni.
I
campi di concentramento e deportazione italiani furono almeno
31, di cui 26 in Italia, e vi morirono oltre 7.000 persone. Vi
furono internati soprattutto sloveni e croati (ma anche "zingari"
ed ebrei), famiglie intere, vecchi, donne, bambini.
Il campo di concentramento di Gonars
Il campo di concentramento di Gonars, in provincia di Udine, quindi
vicinissimo alle zone slovene e alle zone in cui era già
iniziata la guerra di liberazione, fu uno dei luoghi in cui si
svolse la grande tragedia di questi deportati. Venne istituito
già nel dicembre del 1941, costituito da tre settori, circondato
da filo spinato, controllato dai carabinieri e da circa 600 soldati
con 36 ufficiali. Ai lati nord e sud del vasto spazio recintato
da due torri alte sei metri, armate con mitragliatrici puntate
verso il campo, con riflettori che di notte illuminavano a intervalli
di pochi minuti il campo e il circondario. Tutto intorno una "cintura"
larga due metri, in cui le sentinelle avevano l’ordine di
sparare senza preavviso a tutti quelli che la oltrepassavano.
All’arrivo
i nuovi internati venivano denudati, "disinfestati",
rapati a zero. Ma nonostante la pulizia quotidiana delle baracche
tenuta dagli stessi internati, i parassiti si moltiplicavano.
Essi si diffondevano in prevalenza addosso agli internati che,
a causa dell’indebolimento fisico, giacevano sempre a letto
e si lasciavano andare all’apatia.

Il
25 febbraio 1943 ci sono a Gonars 5.343 internati di cui 1.643
bambini. Ci sono intere famiglie provenienti da Lubiana o dai
campi di Arbe (Rab) o di Monigo (Treviso); due terzi croati e
un terzo sloveni. Baracche strette e lunghe, da 80 a 130 prigionieri
per baracca; baracche praticamente senza riscaldamento o con stufe
mal funzionanti, ma molti (specialmente uomini adulti) dormivano
in tenda; igiene impossibile per mancanza di tutto; pidocchi,
scabbia erpete e altre malattie contagiose; per quanto riguarda
le donne incinte, l’80% dei nati erano morti. Mangiare del
tutto insufficiente, minestrone mezzogiorno e sera, praticamente
acqua, + 200 g di pane. "La gente è affamata.
Ma forse è meglio dire che muore di fame", scriveva
il salesiano padre Tomec, come risulta da una sua lettera in data
6 febbraio 1943. "Queste famiglie non hanno nessuno che possa
mandargli i pacchi, perché le loro case sono state bruciate
e i parenti sparpagliati. (…) Una grande maggioranza
di internati è venuta da Arbe (Rab) e sono giunti già
esausti, simili a scheletri. (…) Dal 15 dicembre
1942 al 15 gennaio 1943 ne sono morti 161. In media muoiono 5
persone al giorno. (…) Il maggiore medico Betti
mi ha detto che in due mesi il 60% di questa gente morirà,
se prima non vengono liberati. (…) Una scena triste
viene offerta dalla baracca nella quale ci sono soltanto bambini
orfani che hanno perso i genitori ad Arbe o a Gonars".
"Dio ci guardi da qualche epidemia nel campo. Le persone
cadrebbero una dopo l’altra come mosche." Così
scriveva ancora padre Tomec.
E di una epidemia, si ha proprio notizia dai documenti della censura
che si trovano nell’Archivio di Stato di Udine (fascicolo
Prefettura). Infatti se in febbraio i problemi erano soprattutto
la fame e il freddo, si ebbe anche un’epidemia di tifo petecchiale,
non sappiamo con quali esiti. Di un’altra, nel giugno del
‘43, si sa anche per il campo di internamento di Visco (a
3 chilometri da Palmanova, a 10 dall’altro campo, quello
di Gonars). C’erano in questo campo 4.000 persone, che in
maggio, come risulta sempre da questi documenti della Censura,
erano stati picchiati dai carabinieri con "botte da orbi"
perché "quando hanno saputo che abbiamo perso la Tunisia,
si sono messi tutti a gridare "Viva la Russia."
Mentre
sul campo di concentramento di Gonars ci sono stati degli studi
che, seppur conosciuti solo localmente, hanno messo in luce questa
tragedia, del campo di concentramento di Visco si sa poco e niente,
ma la grande tragedia che vi si svolse emerge dai documenti che
affiorano oggi dall’Archivio di Stato di Udine. Nel monumento
ossario del cimitero di Gonars sono sepolti 453 corpi.
I
prigionieri vengono liberati nel settembre del ‘43.

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