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Domenico
Losurdo
Le
origini americane dell’ideologia nazista |
L’ultima guerra contro l’Irak è stata accompagnata
da un singolare fenomeno ideologico; si è cercato di mettere
a tacere il movimento di protesta di un’ampiezza senza
precedenti, che in tale occasione si è sviluppato, lanciando
contro di esso l’accusa di antiamericanismo. E questo,
più ancora che come un atteggiamento politico errato, è stato
dipinto e viene tuttora dipinto, in previsione delle nuove guerre
che si profilano all’orizzonte, come un morbo, come un
sintomo di disadattamento rispetto alla modernità e di
sordità alle ragioni della democrazia. Tale morbo - si
afferma - accomuna antiamericani di sinistra e di destra
e caratterizza le pagine peggiori della storia europea; e dunque
- si conclude - criticare Washington e la guerra preventiva
non promette nulla di buono. Ha un qualche fondamento storico
questa tesi?
In realtà i bolscevichi si sentono fortemente
attratti dall’America del melting pot e del self
made man. Altri
aspetti, invece, risultano ai loro occhi decisamente ripugnanti.
Nel 1924, Correspondance Internationale (la versione
francese dell’organo dell’Internazionale Comunista)
pubblica l’articolo di un giovane indocinese approdato
negli USA, il quale, mentre nutre ammirazione per la rivoluzione
americana, prova orrore per la pratica del linciaggio che nel
Sud colpisce i neri. Uno di questi spettacoli di massa viene
descritto in modo impietoso:
«Il nero viene messo
a cuocere, è abbrustolito,
bruciato. Ma egli merita di morire due volte piuttosto che una
sola volta. Pertanto egli viene impiccato, più esattamente è sottoposto
a impiccagione ciò che resta del suo cadavere… Quando
tutti sono sazi, il cadavere viene tirato giù. La corda è tagliata
in piccoli pezzi, venduti da tre a cinque dollari l’uno.
E, tuttavia, lo sdegno per il regime di white
supremacy non
sfocia affatto in una condanna indiscriminata degli Stati Uniti:
sì, il Ku Klux Klan rivela tutta «la
brutalità del
fascismo», ma esso finirà con l’essere
sconfitto, oltre che dai neri, ebrei e cattolici (le vittime
a vario livello di questa brutalità), da «tutti
gli americani decenti» (in Wade, 1997, 203-4). Non
siamo certo in presenza di un antiamericanismo indifferenziato.
Uno «splendido Stato del futuro»
Sì, il giovane indocinese (che dieci anni
più tardi
ritorna nella sua terra d’origine per assumere il nome,
divenuto poi celebre in tutto il mondo, di Ho
Chi Minh) assimila
il Ku Klux Klan al fascismo. Epperò, le somiglianze tra
i due movimenti non sfuggono ai testimoni americani del tempo.
Non poche volte, con giudizio di valore positivo o negativo,
essi paragonano gli uomini in divisa bianca del sud degli Stati
Uniti alle «camicie nere» italiane e alle «camice
brune» tedesche. Dopo aver richiamato l’attenzione
sui tratti comuni al Ku Klux Klan e al movimento nazista, una
studiosa statunitense dei giorni nostri ritiene di poter giungere
a questa conclusione: «Se la Grande
depressione non avesse colpito la Germania con tutta la forza
con cui in effetti la colpì, il nazionalsocialismo potrebbe
essere trattato come talvolta viene trattato il Ku Klux Klan:
come una curiosità storica,
il cui destino era già segnato» (MacLean 1994,
184). E cioè, più che la diversa storia ideologica
e politica, a spiegare il fallimento dell’Invisible Empire
negli Stati Uniti e l’avvento del Terzo Reich in Germania
sarebbe il diverso contesto economico. Può darsi che questa
affermazione sia eccessiva. Epperò, quando, per mettere
a tacere le critiche contro la politica di Washington, si ricorda
il contributo essenziale che gli Stati Uniti, assieme ad altri
paesi (a cominciare dall’Unione Sovietica) hanno dato alla
lotta contro la Germania hitleriana e i suoi alleati, si dice
solo una parte della verità; l’altra parte è costituita
dal ruolo notevole che i movimenti reazionari e razzisti americani
hanno svolto nell’ispirare e alimentare in Germania l’agitazione
da ultimo sfociata nel trionfo di Hitler.
Già negli anni ’20, tra il Ku Klux
Klan e i circoli tedeschi di estrema destra si stabiliscono rapporti
di scambio e di collaborazione all’insegna del razzimo
anti-nero e antiebraico. Ancora nel 1937, Alfred Rosenberg [*] celebra gli Stati Uniti come uno «splendido paese
del futuro»:
esso ha avuto il merito di formulare la felice «nuova
idea di uno Stato razziale», idea che adesso si tratta di mettere
in pratica, «con
forza giovanile», mediante espulsione e deportazione
di «negri
e gialli» (Rosenberg 1937, 673). Basta dare uno sguardo
alla legislazione varata subito dopo l’avvento del Terzo
Reich, per rendersi conto delle analogie con la situazione esistente
nel Sud degli Stati Uniti: ovviamente, in Germania sono in primo
luogo i tedeschi di origine ebraica ad occupare il posto degli
afro-americani. Hitler si preoccupa di distinguere nettamente,
anche sul piano giuridico, la posizione degli ariani rispetto
a quella degli ebrei nonché dei pochi mulatti viventi
in Germania (a conclusione della prima guerra mondiale, truppe
di colore al seguito dell’esercito francese avevano partecipato
all’occupazione del paese). «La
questione negra» -
scrive sempre Rosenberg - «è negli Usa al vertice
di tutte le questioni decisive»; e una volta che l’assurdo
principio dell’uguaglianza sia stato cancellato per i neri,
non si vede perché non si debbano trarre «le
necessarie conseguenze anche per i gialli e gli ebrei» (Rosenberg
1937, 668-9).
Tutto ciò non deve stupire. Elemento centrale del programma
nazista è la costruzione di uno Stato razziale. Ebbene,
quali erano in quel momento i possibili modelli? Certo, Rosenberg
fa riferimento anche al Sud-Africa: è bene che permanga
saldamente «in mano nordica» e bianca (grazie a opportune «leggi» a
carico, oltre che degli «indiani», anche di «neri,
mulatti e ebrei»), e che costituisca un «solido
bastione» contro
il pericolo rappresentato dal «risveglio
nero» (Rosenberg
1937, 666). Ma l’ideologo nazista sa in qualche modo che
la legislazione segregazionista del Sud-Africa è stata
largamente ispirata dal regime di white
supremacy, messo in atto
nel sud degli Stati Uniti dopo la fine della Ricostruzione (Noer
1978, 106-7, 115, 125). E, dunque, rivolge il suo sguardo in
primo luogo a questa realtà.
D’altro canto, è anche per un’altra
ragione che la repubblica d’oltre Atlantico costituisce
un motivo di ispirazione per il Terzo Reich. Hitler mira non
ad un espansionismo coloniale generico bensì alla costruzione
di un Impero continentale, mediante l’annessione e la germanizzazione
dei territori orientali immediatamente contigui al Reich. La
Germania è chiamata a espandersi in Europa orientale come
in una sorta di Far West, trattando gli «indigeni» alla
stregua dei pellerossa (Losurdo 1996, 212-6) e senza mai perdere
di vista il modello americano, di cui il Führer celebra «l’inaudita
forza interiore» (Hitler 1939, 153-4). Subito dopo averla
invasa, Hitler procede allo smembramento della Polonia: una parte è direttamente
incorporata nel Grande Reich (e da essa vengono espulsi i polacchi);
il resto costituisce il «Governatorato
generale» nell’ambito
del quale - dichiara il governatore generale Hans Frank
- i polacchi vivono come in «una
sorta di riserva»:
sono «sottoposti
alla giurisdizione tedesca» senza essere «cittadini
tedeschi» (in Ruge-Schumann 1977, 36). Il modello americano è qui
seguito persino in modo scolastico: non possiamo non pensare
alla condizione dei pellerossa.
Lo Stato razziale tra Stati Uniti e Germania
È un modello che lascia traccia profonde
anche a livello categoriale e linguistico. Il termine Untermensch,
che un ruolo così centrale e così nefasto svolge
nella teoria e nella pratica del Terzo Reich, non è altro
che la traduzione di Under Man. Lo riconosce Rosenberg,
il quale esprime la sua ammirazione per l’autore statunitense
Lothrop Stoddard: a lui spetta il merito di aver per primo coniato
il termine in questione, che campeggia come sottotitolo (The
Menace of the Under Man) di un libro pubblicato a New York
nel 1922 e della sua versione tedesca (Die Drohung des Untermenschen)
apparsa tre anni dopo. Per quanto riguarda il suo significato,
Stoddard chiarisce che esso sta ad indicare la massa di «selvaggi
e barbari», «essenzialmente
incapaci di civiltà e
suoi nemici incorreggibili», coi quali bisogna procedere
ad una radicale resa dei conti, se si vuole sventare il pericolo
che incombe di crollo della civiltà. Elogiato, prima ancora
che da Rosenberg, già da due presidenti
statunitensi (Harding
e Hoover), l’autore americano è successivamente
ricevuto con tutti gli onori a Berlino, dove incontra non solo
gli esponenti più illustri dell’eugenetica nazista,
ma anche i più alti gerarchi del regime compreso Adolf
Hitler [1], ormai lanciato nella sua campagna di decimazione
e schiavizzazione degli Untermenschen, ovvero degli «indigeni» dell’Europa
orientale.
Negli Stati Uniti della white
supremacy così come nella
Germania in cui prende sempre più piede il movimento sfociato
poi nel nazismo, il programma di ristabilimento delle gerarchie
razziali si salda strettamente col progetto eugenetico. Si tratta
in primo luogo di incoraggiare la procreazione dei migliori,
in modo da sventare il pericolo di «suicidio razziale» (Rasseselbstmord)
che incombe sui bianchi: a suonare l’allarme è,
nel 1918, Oswald Spengler, il quale però, a tale proposito,
si richiama all’insegnamento di Theodore Roosevelt (Spengler
1980, 683). E, in effetti, nello statista americano, l’evocazione
dello spettro del «suicidio razziale» (race
suicide)
ovvero della «umiliazione razziale» (race
humiliation)
va di pari passo con la denuncia della «diminuzione
delle nascite tra le razze superiori», ovvero «nell’ambito
dell’antico ceppo dei nativi americani»: ovviamente,
il riferimento è qui non ai «selvaggi» pellerossa
ma ai Wasp (cfr. Roosevelt 1951, I, 487 nota
4, 647, 1113; Roosevelt 1951, II, 1053). Si
tratta, altresì, di scavare un abisso incolmabile tra
razza dei servi e razza dei signori, depurando quest’ultima
degli elementi di scarto e mettendola in condizione di affrontare
e stroncare la rivolta servile che, sull’onda della rivoluzione
bolscevica, si sta delineando a livello planetario. Anche in
questo caso, una ricerca storica spregiudicata conduce a risultati
sorprendenti. Erbgesundheitslehre ovvero Rassenhygiene, un’altra
parola-chiave dell’ideologia nazista, non è altro,
in ultima analisi, che la traduzione tedesca di eugenics, la
nuova scienza inventata in Inghilterra nella seconda metà dell’Ottocento
da Francis Galton e che, non a caso, conosce i suoi massimi trionfi
negli Stati Uniti: qui è più che mai acuto il problema
del rapporto tra le «tre razze» e tra «nativi» da
un lato e massa crescente di immigrati poveri dall’altro.
Ben prima dell’avvento di Hitler al potere, alla vigilia
dello scoppio della prima guerra mondiale, vede la luce a Monaco
un libro che, già nel titolo, addita gli Stati Uniti come
modello di «igiene razziale». L’autore, vice-console
dell’Impero austro-ungarico a Chicago, celebra gli Stati
Uniti per la «lucidità» e la «pura ragion
pratica» di cui danno prova nell’affrontare, e con
la dovuta energia, un problema così importante eppur così frequentemente
rimosso: violare le leggi che vietano i rapporti sessuali e matrimoniali
inter-razziali può comportare anche 10 anni di reclusione
e, ad essere condannabili, oltre ai protagonisti, sono anche
i loro complici (Hoffmann 1913, IX, 67-8). Dieci anni dopo, nel
1923, un medico tedesco, Fritz Lenz, si lamenta del fatto che,
per quanto riguarda l’«igiene
razziale», la
Germania è ben addietro rispetto agli USA (Lifton 1986,
29). Ancora dopo la conquista del potere da parte del nazismo,
gli ideologi e “scienziati” della razza continuano
a ribadire: «Anche la Germania ha
molto da imparare dalle misure dei nord-americani: essi sanno
il fatto loro» (Günther
1934, 465).
Le misure eugenetiche varate subito dopo la Machtergreifung mirano a sventare il pericolo della «Volkstod» (Lifton
1986, 30), della «morte del popolo» o della razza.
E di nuovo siamo ricondotti al tema del «suicidio
razziale».
Per sventare il pericolo del suicidio della razza bianca, che
sarebbe poi il suicidio della civiltà, non bisogna esitare
alle misure più energiche, alle soluzioni più radicali,
nei confronti delle «razze inferiori» (inferior
races):
se una di esse - tuona Theodore Roosevelt -
dovesse aggredire la razza «superiore» (superior),
questa reagirebbe con «una guerra di sterminio» (a
war of extermination), chiamata a «mettere
a morte uomini, donne e bambini, esattamente come se si trattasse
di una Crociata» (Roosevelt 1951,
II, 377). Significativamente, ad una vaga «ultimate
solution» della
questione nera accenna un libro apparso a Boston nel 1913 (Fredrickson,
1987, 258 nota); più tardi, invece, i nazisti teorizzeranno
e cercheranno di mettere in pratica la «soluzione finale» (Endlösung)
della questione ebraica.
Il nazismo come progetto di white
supremacy a livello
planetario
Nel corso di tutta la loro storia, gli Stati Uniti hanno dovuto
affrontare in modo diretto i problemi derivanti dall’incontro
con “razze” diverse e con la massa di immigrati provenienti
da ogni angolo del mondo. D’altro canto, il furibondo movimento
razzista che si sviluppa alla fine dell’Ottocento è la
risposta alla grande rivoluzione rappresentata dalla guerra di
Secessione e dal periodo di Ricostruzione radicale. Mentre gli
ex-proprietari schiavisti sono momentaneamente privati dei diritti
politici in quanto ribelli, i neri passano dalla condizione di
schiavitù alla piena cittadinanza politica; non poche
volte, entrano a far parte degli organismi rappresentativi, divenendo
così in qualche modo legislatori e dirigenti dei loro
ex-padroni.
Diamo ora uno sguardo alle esperienze e alle emozioni, che sono
alle spalle dell’agitazione sfociata poi nel nazismo. Se
tra Otto e Novecento il Ku Klux Klan e i teorici della white
supremacy bollano gli Stati Uniti scaturiti dall’abolizione
della schiavitù e dalla massiccia ondata di immigrati
provenienti ora anche dall’Oriente o da paesi ai margini
dell’Europa come una «civiltà bastarda» (MacLean
1994, 133) o come una «cloaca gentium» (Grant 1917,
81), l’Austria nella quale il futuro leader nazista si
forma, gli appare, nel Mein Kampf, come un caotico «conglomerato
di popoli», come una «babilonia
di popoli» ovvero
un «regno babilonico», lacerato da un «conflitto
razziale» (Hitler 1939, 74, 79, 39, 80), che sembra doversi
concludere con una catastrofe: avanza il processo di «slavizzazione» e
di «cancellazione dell’elemento tedesco» (Entdeutschung),
col tramonto quindi della superiore razza che aveva colonizzato
l’Oriente e vi aveva apportato la civiltà (Hitler
1939, 82). La Germania dove poi Hitler approda conosce, in seguito
alla disfatta della prima guerra mondiale, sconvolgimenti senza
precedenti, paragonabili in qualche modo a quelli verificatisi
nel Sud degli Stati Uniti dopo la guerra di Secessione: ben al
di là della perdita delle loro colonie, i tedeschi sono
costretti a subire l’occupazione militare delle truppe
di colore al seguito delle potenze vincitrici. Ora, a giudicare
sempre dal Mein Kampf, anche la Germania si è trasformata
in un «miscuglio razziale» (Hitler 1939, 439). Ad
acuire la sensazione del pericolo di un definitivo tramonto della
civiltà provvede poi la rivoluzione d’Ottobre che,
rivolgendo ai popoli coloniali l’appello a ribellarsi,
sembra sancire ideologicamente l’«orrore» dell’occupazione
militare nera; per di più essa scoppia e giunge al potere
in un’area abitata da popoli tradizionalmente considerati
ai margini della civiltà. Come nel Sud degli Stati Uniti
gli abolizionisti vengono bollati come rinnegati della propria
razza ovvero quali negro-lovers, così traditori della
razza germanica e occidentale appaiono agli occhi di Hitler prima
i socialdemocratici e poi, a maggior ragione, i comunisti. In
ultima analisi, il Terzo Reich si presenta come il tentativo,
portato avanti nelle condizioni della guerra totale e della guerra
civile internazionale, di reagire al pericolo del tramonto e
del suicidio razziale dell’Occidente e della razza superiore,
realizzando un regime di white supremacy su scala planetaria
e sotto egemonia tedesca.
Antisemitismo e antiamericanismo? Spengler e Ford
La campagna in corso contro coloro che osano
criticare la politica di guerra preventiva di Washington ama
associare l’antiamericanismo
all’antisemitismo. E di nuovo si rimane stupiti per il
dileguare della memoria storica. Chi ricorda ancora la celebrazione
del «genuino americanismo di Henry
Ford» ad opera
del Ku Klux Klan (in MacLean 1994, 90)? Ad essere qui oggetto
di ammirazione è il magnate dell'industria automobilistica,
che si impegna a denunciare la rivoluzione bolscevica come il
risultato in primo luogo del complotto ebraico e che a tale scopo
fonda una rivista di larga tiratura, il Dearborn
Indipendent:
gli articoli qui pubblicati vengono raccolti nel novembre 1920
in un volume, L'ebreo internazionale che subito diventa un punto
di riferimento dell'antisemitismo internazionale, tanto da poter
esser considerato il libro che più di ogni altro ha contribuito
alla celebrità dei famigerati Protocolli
dei Savi di Sion.
È vero, dopo qualche tempo Ford è costretto a rinunciare
alla sua campagna, ma intanto è stato tradotto in Germania
e ha incontrato grande fortuna. Più tardi diranno di essersi
ispirati a lui o di aver da lui preso le mosse gerarchi nazisti
di primo piano come von Schirach e persino Himmler. Il secondo
in particolare racconta di aver compreso «la
pericolosità dell'ebraismo» solo
a partire dalla lettura del libro di Ford: «per
i nazionalsocialisti fu una rivelazione». Seguì poi
la lettura dei Protocolli
dei Savi di Sion: «Questi due libri
ci indicarono la via da percorrere per liberare l'umanità afflitta
dal più grande
nemico di tutti i tempi, l'ebreo internazionale»;
come è chiaro,
Himmler fa uso di una formula che riecheggia il titolo del libro
di Henry Ford. Potrebbe trattarsi di testimonianze in parte interessate
e strumentali. È un dato di fatto però che nei
colloqui di Hitler con Dietrich Eckart, la personalità che
ha avuto su di lui la maggior influenza, lo Henry Ford antisemita è tra
gli autori più frequentemente e positivamente citati.
E, d'altra parte, secondo Himmler, il libro di Ford assieme ai
Protocolli, avrebbe svolto un ruolo «decisivo» (ausschlaggebend)
oltre che sulla sua formazione, anche su quella del Führer [2].
Anche in questo caso, risulta evidente la superficialità della
contrapposizione schematica tra Europa e Stati Uniti, come se
la tragica vicenda dell’antisemitismo non avesse coinvolto
entrambi. Nel 1933 Spengler sente il bisogno di fare questa precisazione:
la giudeofobia da lui apertamente professata non va confusa col razzismo «materialistico» caro
agli «antisemiti in Europa e in America» (Spengler
1933, 157). L’antisemitismo biologico che soffia impetuoso
anche al di là dell’Atlantico viene considerato
eccessivo persino da un autore pure impegnato in una requisitoria
contro la cultura e la storia ebraica in tutto l’arco della
sua evoluzione. È anche per questo che Spengler appare
pavido e inconseguente agli occhi dei nazisti. I loro entusiasmi
si rivolgono altrove: L'ebreo internazionale continua ad essere
pubblicato con grande onore nel Terzo Reich con prefazioni che
sottolineano il decisivo merito storico dell'autore e industriale
americano (nell'aver fatto luce sulla «questione
ebraica»)
e evidenziano una sorta di linea di continuità da Henry
Ford a Adolf Hitler! (cfr. Losurdo 1991, 84-5).
La polemica in corso su antiamericanismo e antieuropeismo
pecca di ingenuità: essa sembra ignorare gli scambi culturali
e le influenze reciproche tra America e Europa. Nel primo dopoguerra,
Croce non aveva avuto difficoltà a sottolineare l’influenza
che Theodore Roosevelt aveva
esercitato su Enrico Corradini, il capo nazionalista poi confluito
nel partito fascista (Croce, 1967, 251). Agli inizi del Novecento,
lo statista americano aveva compiuto un viaggio trionfale in
Europa, nel corso del quale aveva ricevuto una laurea honoris
causa a Berlino e aveva conquistato - a notarlo questa
volta è Pareto - numerosi «adulatori» (Pareto
1988, 1241-2, § 1436). La rappresentazione secondo cui gli
Stati Uniti costituirebbero una sorta di spazio sacro, immune
dai morbi e dagli orrori dell’Europa, è un prodotto
soprattutto della guerra fredda. Non bisogna mai perdere di vista
la circolazione del pensiero tra le due rive dell’Atlantico:
sì, l’americano Stoddard inventa la categoria-chiave
del discorso ideologico nazista (Untermensch), ma nel
far ciò egli
ha alle spalle un soggiorno di studio in Germania e la lettura
della teoria cara a Nietzsche del superuomo (Losurdo 2002, 886-7).
D’altro canto, mentre guarda con ammirazione al mondo della
white supremacy, la reazione tedesca avverte ripugnanza
e disprezzo nei confronti del melting pot. Rosenberg
riferisce sdegnato che a Chicago una «grande cattedrale
cattolica appartiene ai nigger». C’è persino
un «vescovo
nero» che
vi celebra la messa: è l’«allevamento
di fenomeni bastardi» (Rosenberg 1937, 471). A sua volta,
Hitler sentenzia e denuncia che «sangue
ebraico» scorre
nelle vene di Franklin Delano Roosevelt, la cui moglie
ha comunque un «aspetto negroide» (Hitler 1952-54,
II, 182, conversazione del 1 luglio 1942).
Gli Stati Uniti, l’Occidente e la Herrenvolk democracy
A questo punto, chiaramente ideologica o mitologica
si rivela la tesi della convergenza tra antiamericanismo di destra
e di sinistra. In realtà, sono proprio gli aspetti messi
in stato d’accusa dalla tradizione che dall’abolizionismo
giunge sino al movimento comunista a suscitare simpatia e entusiasmo
sul versante opposto. Quel che è amato dagli uni è odiato
dagli altri, e viceversa. Ma gli uni e gli altri si trovano dinanzi
al paradosso che caratterizza la storia degli Stati Uniti sin
dalla sua fondazione e che è stato così formulato,
nel Settecento, dallo scrittore inglese Samuel Johnson: «Come
spiegare che ad acclamare più rumorosamente la libertà sono
coloro i quali sono impegnati nella caccia ai neri?» (in
Foner 1998, 32)
È un fatto: la democrazia nell’ambito della comunità bianca
si è sviluppata contemporaneamente ai rapporti di schiavizzazione
dei neri e di deportazione degli indios. Per trentadue dei primi
trentasei anni di vita degli USA, a detenere la presidenza sono
proprietari di schiavi, e proprietari di schiavi sono anche coloro
che elaborano la Dichiarazione di Indipendenza e la Costituzione.
Senza la schiavitù (e la successiva segregazione razziale)
non si può comprendere nulla della «libertà americana»:
esse crescono assieme, l’una sostenendo l’altra (Morgan
1975). Se la «peculiar institution» (la schiavitù)
assicura il ferreo controllo delle classi «pericolose» già sui
luoghi di produzione, la mobile frontiera e la progressiva espansione
ad Ovest disinnescano il conflitto sociale trasformando un potenziale
proletariato in una classe di proprietari terrieri, a spese però di
popolazioni condannate ad essere rimosse o spazzate via.
Dopo il battesimo della guerra d’indipendenza,
la democrazia americana conosce un ulteriore sviluppo, negli
anni ‘30
dell’Ottocento, con la presidenza Jackson: la cancellazione,
in larga parte, delle discriminazioni censitarie all’interno
della comunità bianca va di pari passo col vigoroso impulso
impresso alla deportazione degli indios e col montare di un clima
di risentimento e di violenza a danno dei neri. Una considerazione
analoga può essere fatta anche per la cosiddetta «età progressista» che,
partendo dalla fine del secolo scorso, abbraccia i primi tre
lustri del Novecento: essa è caratterizzata certo da numerose
riforme democratiche (che assicurano l’elezione diretta
del Senato, la segretezza del voto, l’introduzione delle
primarie e dell’istituto del referendum, ecc.), ma costituisce
al tempo stesso un periodo particolarmente tragico per neri (bersaglio
del terrore squadristico del Ku Klux Klan) e indios (spogliati
delle terre residue e sottoposti ad un processo di spietata omologazione
che intende privarli persino della loro identità culturale).
A proposito di questo paradosso che caratterizza la storia del
loro paese, autorevoli studiosi statunitensi hanno parlato di
Herrenvolk democracy, cioè di democrazia che vale solo
per il «popolo dei signori» (per usare il linguaggio
caro poi a Hitler) (Berghe 1967; Fredrickson 1987). La netta
linea di demarcazione, tra bianchi da una parte e neri e pellerossa
dall’altra, favorisce lo sviluppo di rapporti di uguaglianza
all’interno della comunità bianca. I membri di un’aristocrazia
di classe o di colore tendono ad autocelebrarsi come i “pari”;
la netta disuguaglianza imposta agli esclusi è l’altra
faccia del rapporto di parità che s’instaura tra
coloro che godono del potere di escludere gli «inferiori».
Dobbiamo allora contrapporre positivamente l’Europa
agli Stati Uniti? Sarebbe una conclusione precipitosa e errata.
In realtà, la categoria di Herrenvolk
democracy può essere
utile anche per spiegare la storia dell’Occidente nel suo
complesso. Tra la fine dell’Ottocento e gli inizi del Novecento,
l’estensione del suffragio in Europa va di pari passo col
processo di colonizzazione e con l’imposizione di rapporti
di lavoro servili o semiservili alle popolazioni assoggettate;
il governo della legge nella metropoli s’intreccia strettamente
con la violenza e l’arbitrio burocratico e poliziesco e
con lo stato d’assedio nelle colonie. È in ultima
analisi lo stesso fenomeno che si verifica nella storia degli
Stati Uniti, solo che nel caso dell’Europa esso risulta
meno evidente per il fatto che le popolazioni coloniali, invece
di risiedere nella metropoli, sono da questa separati dall’oceano.
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Note
[1] Sull’eugenetica tra Stati Uniti e Germania
cfr. Kühl
1994, 61; il lusinghiero giudizio del presidente Harding è riportato
ad apertura della versione francese di Stoddard 1925 (Le
flot montant des peuples de couleur contre la suprematie mondiale
des Blancs, tr. fr. dall’americano di Abel Doysié,
Paris, Payot).
[2] Si veda la testimonianza di Felix Kersten,
il massaggiatore finlandese di Himmler, nel Centre de documentation
Juive contemporaine di Parigi (Das Buch
von Henry Ford, 22 December,
1940, n. CCX-31); su ciò cfr. Poliakov 1977, 278, e Losurdo
1991, 83-85.
[*] n.d.r. Alfred Rosenberg nacque in Russia nel
1893 e dopo la Rivoluzione d'Ottobre fuggì con
la famiglia prima a Parigi e poi a Monaco di Baviera, dove
entrò in
contatto con i circoli controrivoluzionari russi.
Si affiliò alla Società di
Thule all'interno della quale conobbe Hitler.
Rosenberg aveva raggiunto in questi circoli una certa notorietà per
aver pubblicato due libelli antisemiti: Il
cammino degli ebrei attraverso i secoli e L'immoralità nel
Talmud.
Rosenberg elaborò la teoria della congiura mondiale
giudeo-bolscevico-massonica.
Nel 1921 divenne caporedattore della rivista del partito nazista Volkischer
Beobachter, e introdusse nei circoli nazisti il documento
chiamato
I Protocolli degli Anziani di Sion, un falso elaborato
a suo tempo dalla polizia zarista in cui si rivelava l'intento
ebraico di colonizzare il mondo attraverso operazioni sia occulte
sia finanziarie.
Nel 1923 Rosenberg partecipò al tentato colpo di stato
nazista di Monaco.
La sua crescita all'interno del partito fu dovuta alla fondazione nel 1929 della
Lega di Combattimento per la cultura tedesca ( Kampfbund fur Deutsche Kultur)
e per il suo monumentale libro pubblicato nel 1930, Il
mito del Ventesimo secolo.
Il libro ebbe un enorme influsso sul movimento nazista: l'opera miscelava le
teorie razziste di Joseph-Arthur de Gobineau e di Houston Stewart Chamberlain
e proclamava che l'elemento razziale determinava lo sviluppo della cultura,
delle arti e della scienza e il corso stesso della storia. I tedeschi, in quanto
discendenti dei Teutoni, la più pura delle razze ariane, avevano il
compito di dominare le altre razze. Ricollegandosi in modo sconnesso e confuso
alle teorie di Nietzsche attaccava sia il Cristianesimo che l'Ebraismo criticando
lo spirito di carità e compassione incompatibili con il senso dell'onore
teutonico. L'opera di Rosenberg dava poi senso alla simbologia nazista ricollegando
la svastica alla razza ariana come simbolo del sangue e della terra e dell'antico
Pantheon delle divinità nordiche. L'opera ebbe enorme diffusione arrivando
a stampare un milione di copie.
Nel 1930 venne eletto deputato al Parlamento. Nel 1933 venne nominato "Delegato
del Führer per l'educazione e la formazione intellettuale e filosofica del
Partito Nazionalsocialista". Nello stesso anno - e fino al 1945 - fu Responsabile
Esteri per il Partito intessendo contatti con tutti i movimenti fascisti del
mondo.
Nel 1939 fondò a Francoforte l'Istituto di Studi sulla questione ebraica
(Institut zur Erforschung der Judenfrage).
Critica
Marxista maggio-agosto 2003 |