Eccidio di Avola, 2 dicembre 1968

      

Salvatore Bonadonna

L'eccidio di Avola

 


l 2 dicembre 1968 ad Avola, in provincia di Siracusa, una manifestazione a sostegno della lotta dei braccianti per il rinnovo del contratto di lavoro finisce nel sangue: la polizia apre il fuoco e due lavoratori – Giuseppe Scibilia, di 47 anni, e Angelo Sigona, di 25 – vengono uccisi. Quarantotto saranno i feriti, due gravi.
Quella mattina il freddo era pungente. Più delle altre quindici mattinate precedenti a Chiusa di Carlo, la località meglio intesa dagli avolesi come “Sant’Antuninu” dall’edicola al santo dedicata e posta al bivio per la marina di Avola. La sera prima, dopo l’assemblea, ero tornato a casa, a Siracusa, perché era domenica e perché l’indomani sarebbero venuti i trasportatori a caricare i pochi mobili e i libri per il mio trasferimento a Porto Marghera, deciso qualche mese prima, perché Vittorio Foa me lo aveva proposto e mi aveva convinto.
Era l’ultima vertenza che avrei seguito a Siracusa e con il gruppo dirigente dei braccianti, e di Avola in particolare, avevo un rapporto molto forte. Avevo partecipato alla elaborazione della piattaforma e allo sviluppo quotidiano della vertenza. Non potevo mancare il giorno dello sciopero generale. Arrivai che ancora era buio. Peppe Vaccarella, il segretario della Camera del Lavoro, una vita da bracciante, era già lì con la sua coppola calcata sulla pelata. Andiamo, come al solito, a prendere il caffè nel bar del riquadro della Piazza riservato ai braccianti. Sì, perché in un altro riquadro ci stanno i commercianti, nell’altro i contadini coltivatori diretti, nell’altro ancora gli agrari e gli altri proprietari e i professionisti, con i loro circoli e i loro bar. Peppe, uomo calmo, coraggioso e deciso, è inquieto: l’incontro sindacale di ieri, strappato al Prefetto qualche giorno prima, si era risolto in una beffa degli agrari che avevano mandato un funzionario per ribadire che non c’era nulla da trattare, poi l’intervento della polizia persino nella giornata di domenica, con l’inseguimento dei braccianti nella Piazza e nelle strade, ha esasperato gli animi.
La tensione la sente direttamente con il suo carattere di bracciante avolese e l’ha raccolta nei capannelli in piazza, dopo l’assemblea che ha proclamato lo sciopero generale. Infatti, l’assemblea della sera aveva espresso l’orgoglio per avere respinto, nella mattinata, l’attacco dei celerini e aveva segnalato la determinazione a intensificare la lotta per chiudere la vertenza. I braccianti ci avevano detto delle pressioni e dei ricatti dei “caporali” mandati dagli agrari anche con promesse di premi in danaro per chi avesse rotto il blocco e l’unità. Si rivolgevano con blandizie ai più giovani e con ricatti ai più anziani padri di famiglia.
Ormai è l’alba dello sciopero generale.
La piattaforma rivendicativa, preparata e discussa in decine di assemblee in tutte le leghe bracciantili della zona Sud, da Siracusa a Noto e Pachino, è impegnativa e risente del clima delle lotte studentesche ed operaie che in quel ’ 68 avevano segnato l’Europa e l’America. I giovani politicizzati, e non sono pochi, portano anche nelle famiglie dei braccianti l’eco del Maggio francese: nei Licei ci sono le prime assemblee e le occupazioni e dall’Università di Catania giungono i volantini che invitano all’unità degli studenti e degli operai.
I braccianti di Avola si sentivano discriminati da un vecchio accordo sindacale che divideva la Provincia in due zone. Nella zona Nord, quella dell’agrumeto, attorno a Lentini, classificata “A”, un salario giornaliero di 3.480 lire per sette ore e mezza di lavoro; nella zona Sud, quella dell’ortofrutta, attorno ad Avola, classificata “B”, il salario è di 3.110 lire per otto ore di lavoro. Si rivendicava, dunque, il superamento di tale differenza e un aumento della paga del 10%, circa 350 lire giornaliere. Del resto, CGIL, CISL e UIL chiedevano di superare le “gabbie salariali” tra le zone del paese e rivendicavano la parità retributiva tra uomini e donne: a uguale lavoro uguale salario!
Ma la rivendicazione più di ogni altra sentita dai braccianti come conquista di dignità e di libertà era eliminare il caporalato. È evidente il motivo della resistenza oltranzista degli agrari che vedevano messo in discussione il proprio potere. Per questo lo scontro fu molto aspro.
Venerdì 29 il conflitto si era indurito e la situazione era diventata sempre più tesa; le notizie di arrivi notturni di squadre di crumiri avevano irrigidito il blocco sulla strada di Avola.
Una delegazione formata dal Sindaco, dal deputato Nino Piscitello segretario della Federazione Comunista, dal Pretore di Avola che aveva tentato una mediazione per togliere il blocco, e dal segretario della Federbraccianti, il giovane Orazio Agosta, viene mandata dal Prefetto a chiedere una convocazione urgente delle parti. Quando tornano ci dicono che la convocazione è in corso e i braccianti, anche se poco convinti, liberano la strada.
Qualche ora dopo, ottenuto lo sgombero, il Prefetto rinvia l’incontro all’indomani. E l’indomani gli agrari non si presentano. Dice, beffardamente, il Prefetto, «perché impediti dai blocchi stradali» che rendono difficile la circolazione nella Provincia. E quindi nuovo rinvio, prima a Martedì 3 Dicembre e poi, dato il crescere della tensione, alla giornata di domenica quando un funzionario della Associazione Agricoltori, senza poteri e senza mandati, ci dice che per loro non c’è nulla da trattare della nostra piattaforma.
Gli interventi di Denaro e di Salvatore Corallo del PSIUP, deputati regionali, sulla Giunta non sortiscono alcun effetto. Quelli sul Governo Leone, dimissionario, ancor meno. Noi, con i mezzi disponibili, chiamando dai bar coi telefoni a gettone, ci tenevamo in contatto con Carlo Cicerchia, con Giacinto Militello, con Feliciano Rossitto dirigenti regionali e nazionali della CGIL e della Federbraccianti che, a loro volta, cercavano contatti con il Governo per sbloccare la vertenza.
Era, dunque, inevitabile che l’assemblea di domenica sera proclamasse lo sciopero generale e il blocco di tutte le attività.
Commentavamo e ragionavamo di queste cose con Peppe mentre osservavamo l’arrivo dei braccianti, il formarsi dei capannelli e notavamo che solo il bar del lato “nostro” era aperto, per spirito di servizio. Quando arriviamo a Sant’Antuninu il blocco è in corso e c’è un vero e proprio raduno di parecchie migliaia di braccianti. Attorno ad alcuni fuochi, seduti sulle pietre, braccianti mangiano pane con le olive nere o col formaggio o con le sarde salate. Nei capannelli si commenta e Peppe, con l’altoparlante, torna a parlare dei motivi della lotta e invita alla calma e alla autodisciplina. La pattuglia di polizia e carabinieri, che ormai staziona dall’inizio dei blocchi, dice che bisogna sgombrare la strada; il funzionario presente fa intendere che questa mattina arriveranno i rinforzi da Catania, il reparto Celere.
Abbiamo la conferma delle nostre preoccupazioni quando arriva il Sindaco Denaro che, salutando con calore e ansia persino me, dopo quasi un anno di polemiche per la mia uscita dal PSI, ci dice che il Prefetto D’Urso l’ha chiamato quasi ad intimargli che «il blocco della strada deve sparire».
Eravamo preoccupati ma eravamo anche più di cinquemila; difficilmente – pensavamo – la celere tenterà una carica in queste condizioni.
E, in effetti, la Celere non caricò questa volta.
Quando i gipponi della polizia arrivano ad un centinaio di metri dal blocco, gli agenti scendono armati di mitra, moschetti e zaini pieni di bombe lacrimogene e si schierano come per una battaglia; prima fila in ginocchio con i lacrimogeni innestati ai moschetti, seconda fila in piedi con altri fucili e mitra. Non sono armati di sfollagente. Il vice questore Camperisi – divenuto famoso nella circostanza – è pronto a comandare l’attacco.
Il Sindaco fa un estremo tentativo per convincere il Prefetto ad evitare un attacco che avrebbe potuto portare gravi conseguenze sulla popolazione inerme, anche di donne e bambini, che si era aggiunta al raduno. Quando torna dalla telefonata ci dice che il prefetto, per tutta risposta, gli aveva intimato di dare man forte alla polizia per togliere il blocco.
È evidente che l’ordine viene dall’alto e non lascia margini. Il vicequestore, sequestrando di fatto una betoniera che era stata fermata ai margini della strada, ordina ai suoi uomini di porla trasversalmente alla strada, davanti al reparto schierato. Quando lo schieramento è pronto, indossa la fascia tricolore e fa suonare i tre squilli di tromba che, normalmente, preludono all’ordine di sgombero. Questa volta sono, invece, il segnale dell’attacco.
Parte, da dietro la betoniera, una salva impressionante di bombe lacrimogene; i braccianti rispondono con lanci di pietre disperdendosi al riparo dei muri a secco che costeggiano la strada e dividono i campi per scampare ai fumi dei lacrimogeni. E lanciano pietre sulla strada per evitare che la polizia possa caricare direttamente dalle camionette, come aveva cominciato a fare, creando il panico in mezzo a migliaia di persone. Cerchiamo di metterci al riparo; è inutile persino pensare ad un tentativo di parlamentare con la polizia. I funzionari e i comandanti sembrano invasati, vogliono colpire alla cieca, terrorizzare.
Presto ci rendiamo conto, e con noi i braccianti, che, contrariamente alle aspettative dei poliziotti, il vento porta i fumi dei lacrimogeni proprio addosso a loro; ma un candelotto è esploso praticamente addosso ad un bracciante. I suoi compagni cercano di allontanarlo. Investi dal gas dei lacrimogeni, i poliziotti lasciano la loro postazione dietro la betoniera e vengono addosso ai braccianti sparando all’impazzata. Le pietre disperate non possono nulla contro le raffiche di mitra.
Il vicequestore chiama rinforzi che arrivano alle nostre spalle; siamo presi tra due fuochi. Noi inermi, con i lanci di sassi dei braccianti più giovani e la polizia armata che, con un ordine preciso, ormai inizia a sparare raffiche di mitra e colpi di moschetto ad altezza d’uomo. Sparano tutti; sparano direttamente i funzionari con le loro pistole e, per spronare gli uomini, uno di loro prende un moschetto dalle mani di un agente e spara diritto su un gruppo che cerca riparo dietro un muretto.
Mentre i braccianti in fuga si disperdono nei campi e cercano riparo dietro i muri a secco e qualche albero di ulivo, la polizia organizza un inseguimento forsennato continuando a sparare; una sorta di feroce caccia all’uomo.
Cominciamo a sentire attorno le grida di dolore dei feriti, i pianti, i lamenti, le imprecazioni, urla selvagge dei poliziotti; e gli spari e le raffiche. Gridiamo a squarciagola «basta, ci sono feriti, forse ci sono morti». Proviamo a sventolare qualche fazzoletto.
Quando dopo quasi mezzora di quest’inferno, che sembrava non dovesse finire mai, sentiamo smettere i colpi e i comandanti richiamare gli agenti, intuiamo che la situazione è drammatica, più di quanto potevamo vedere dal nostro rifugio dietro un muro a secco. Ci organizziamo per raggiungere e soccorrere i feriti sparsi come in un campo di battaglia. Le ferite sono tutte da armi da fuoco; i feriti perdono molto sangue. Alcuni sono in condizioni molto gravi.
Ci sono macchine in fiamme e altre crivellate di proiettili; anche le moto dei braccianti addossate ai muretti hanno i serbatoi forati dalle raffiche. Orazio Agosta aveva visto cadere Sebastiano Agostino, un bracciante colpito al petto, poco distante da lui. Si organizza, in ogni modo, con le poche auto disponibili e funzionanti, per portare i feriti in ospedale. I reparti di polizia, evidentemente paghi della loro impresa e per sfuggire all’indignazione generale anche di quanti accorrono dalla città, crescente alla vista della strage, si organizzano per tornare in caserma portandosi dietro decine di fermati.
I feriti sono in un raggio di oltre trecento metri dal blocco stradale e Giuseppe Scibilia, 47 anni, bracciante di Avola, è morto colpito al petto a ridosso di un albero, a trecento metri dalla strada.
Il mio racconto in diretta dal luogo della strage finisce qui. In serata si fa il bilancio. In tutta Italia sono in atto manifestazioni di protesta e si preparano scioperi per l’indomani. Gli agrari sono stati costretti alla trattativa da subito e con la partecipazione dei dirigenti nazionali e i segretari confederali di CGIL CISL UIL.
Ad Avola però sicontano le vittime. Angelo Sigona, di 25 anni, è morto all’ospedale di Siracusa dopo essere stato raccolto dietro ad un muretto colpito come per una fucilazione. Finiscono in ospedale Paolo Caldarella, ferito alla mano che aveva alzato in segno di tregua, Giorgio Garofalo con l’intestino perforato, Giuseppe Buscemi, Rosario Migneco, Orazio Di Natale, colpiti, come Caldarella, da colpi di pistola, quindi direttamente dai funzionari.
Scrivo di Avola tanti anni dopo, per raccontare la condizione e la lotta dei braccianti di Avola ai nuovi braccianti immigrati che vivono una condizione persino peggiore. Quella lotta è parte costitutiva del movimento che ha fatto fare un salto di civiltà al Paese e al mondo del lavoro: ha portato allo Statuto dei Diritti dei Lavoratori, alla riforma della scuola e dell’Università che ha acceso tante speranze. Quei morti e quei feriti non hanno avuto giustizia; ma il neo Ministro del Lavoro, Giacomo Brodolini, socialista di allora, era ai loro funerali e Angelo e Giuseppe sono gli ultimi lavoratori uccisi dalla polizia in un conflitto di lavoro. La tesi che quel massacro fu prodotto da alcuni agenti che avevano perso l’orientamento e la testa, come raccontò il Governo in Parlamento, ovviamente, non ha retto. Chili di bossoli esibiti alla Camera sono stati argomento convincente anche se non accettato.