Aulo
Magrini, organizzatore delle prime formazioni partigiane in Carnia insieme
ad Italo Cristofoli "Aso" e poi, col nome di battaglia "Arturo",
commissario della Brigata Camia - Garibaldi, morì il 15 luglio
1944 al Ponte di Noiaris, vicino a Sutrio, durante un attacco ad una colonna
tedesca.
La sua figura di comunista e di comandante garibaldino, oltre che di uomo
generoso e di medico sempre pronto ad aiutare la povera gente, dava certamente
molto fastidio a coloro i quali per vent'anni si erano schierati dalla
parte del fascismo, e nell'immediato dopoguerra egli fu oggetto di una
sottile campagna diffamatoria.
"Magrini l'hanno ucciso i suoi, per rubargli il denaro che aveva
con sè!" "Lui non era come gli altri garibaldini,
per questo l'hanno ammazzato fingendo che siano stati i tedeschi."
"Lo diceva lui stesso che i rossi erano scatenati!"
Le forze più conservatrici, gli antifascisti dell'ultima ora, avevano
appunto l'obiettivo di creare intorno alla sinistra un clima di diffidenza,
di repulsione, se non di vero e proprio odio: e, dunque, si denigrava
Magrini perché era diventato un simbolo della Resistenza, e così
facendo si tentava di delegittimare la Garibaldi e il PCI.
Non si scelse l'attacco frontale - troppo stimato era in Carnia "il
medico dei poveri" - ma si preferì lasciar filtrare insinuazioni,
diffondere "voci", alimentare il sospetto. Purtroppo si trattò
di una tattica efficace, tanto che ancora oggi, a sessant'anni di distanza,
la miserabile versione di Magrini assassinato dai suoi stessi compagni
trova riscontro in molti ambienti clericofascisti.
E il clima creatosi con i fascisti (ex?) al governo e il revisionismo
storico vezzeggiato dai media, ha fatto sì che alla fine qualcuno
dicesse apertamente (senza peraltro che l'ANPI e l'Istituto Friulano di Storia del Movimento di Liberazione abbiano ritenuto di dover rispondere adeguatamente) ciò che finora veniva solo mormorato nelle
osterie.
L'apripista è un giovanotto ovarese, tale Gianni Conedera, tanto
illetterato quanto presuntuoso: scrive un volumetto dal titolo perentorio,
"L'ultima verità", che egli stesso definisce
"la risultante di una seria indagine storica [...] inconfutabilmente
provabile in qualsiasi sede", dove affastella confusamente
episodi di cronaca nera, tra i quali inserisce, appunto, la morte di Magrini,
ricostruita mediante testimonianze di persone citate con le iniziali...
Una metodologia da vero storico, non c'è che dire.
Curioso come un altro discutibile libro (Lao Monutti, Uomini
fatti e misfatti del Nord-est, Magma, 1995), scritto da una persona
non certo di sinistra, sia in realtà assai più serio e corretto:
da esso (col consenso dell'Autore) riportiamo le testimonianze degli ultimi
compagni di lotta di Magrini.
Aggiungiamo anche il contributo di Elio Martinis, il Comandante "Furore".
Emilio
D'AGARO "TEMPESTA"
Alle 7,30-8 di quel 15 luglio 1944 montavo la guardia alI'osteria del
bivio fra Paluzza e Timau. A tale servizio eravamo stati comandati in
tre da "Augusto" di Cleulis e così da Naunina, verso
le 6, scendemmo alI'incrocio. Un uomo di Rivo, "Velco" era stato
appostato alla cabina elettrica sopra la segheria e l'altro, "Primo"
di Paluzza di fronte alI'osteria sopra la scarpata. Col progredire del
giorno, alcune paesane si erano recate nei campetti di Rivo a zappare.
I miei due colleghi di guardia abbandonarono il posto per correre dietro
a quelle gonnelle. Arrivò alI'osteria una donna. Mi disse spaventata:
"Ah, se sapessi! I tedeschi con tre camion sono arrivati alla
segheria. Hanno preso gli operai e li stanno portando in giù per
far loro aprire la strada di Timau!"
Andai a cercare i due sparsi nei campi. Puntai loro il fucile minacciandoli...
e prima di salire tutti e tre verso la malga sopra Rivo, diedi I'allarme
sparando un caricatore in aria. Non fui sentito, tant'è che l'uomo
che ci portava il caffè di orzo al posto di guardia, sempre dalle
donne, fu posto al corrente dell'arrivo dei tedeschi.
In malga ci rifocillammo. Scendemmo verso il ponte di Sutrio nel primo
pomeriggio. Là trovammo tre partigiani sconosciuti. Chiesi loro
chi fossero. Risposero che erano di Ovaro giunti colà, con altri
di Ovasta e di Prato, al comando di Magrini, per bloccare al ponte di
Noiaris la colonna tedesca salita la mattina a Timau.
Seguimmo i tre, e sopra il ponte di Noiaris incontrammo i nostri colleghi
di Naunina. Il piano di attacco vedeva noi garibaldini, una quindicina
in tutto, appostati sulla sinistra del But e gli osovani del Btg. VaI
But - 5a Divisione Osoppo al di là, sulla riva occidentale, a pochi
metri da alcuni civili al lavoro.
L'Osoppo sbandierando indicò la composizione della colonna: 3 automezzi.
Appostati sulla scarpata erbosa che dà sulla curva della provinciale
da cui si stacca il ponte per Noiaris, 80-90 metri prima della galleria,
gettammo delle bombe a mano sui tre camion tedeschi immobilizzati da una
sbarramento di tronchi d'albero posto sulla strada. Poi, dall'alto, aprimmo
il fuoco con le armi portatili, ma era innefficace.
Inoltre non c'era reale comando per l'applicazione di un piano bellico
adatto alla bisogna... I camion erano coperti nella visuale da vari sterpi
e per di più immediatamente gli avversari risposero all'agguato;
erano già stati attaccati in località Enfre Tors, sparando
all'impazzata. Si tirava a casaccio senza prendere la mira...
"Andiamo, andiamo più in là, che qui non si combina
nulla. Da sopra la scarpata dopo la curva, li becchiamo!" dissi
all'amico "Morgan", Ruggero Vidale. Mi seguì sul costone
in direzione della galleria per dominare la strada incassata nel But e
il pendio coperto di noccioleti che dal piano viario saliva verso di noi.
Dalla vecchia posizione, un partigiano, un sarto, tirava ai tedeschi,
imperterriti, intenti a mettere in funzione la mitraglia sull'ultimo camion
che spazzava l'area. La sentimmo improvvisamente tacere. Pensando che
i tedeschi avessero gettato la spugna, cominciammo a scendere lungo la
strada. Vedemmo tre nemici correre lungo il letto ghiaioso del But. Sparai.
Un tedesco cadde...
"Hai ammazzato uno dell'Osoppo! " mi disse Aulo Magrini,
giunto innavvertito da dietro. "Ma non vedi che ha la borsa della
maschera antigas!" fu il mio rimando.
"Vai da quel partigiano", ordinò Aulo indicandomi
uno a qualche metro "a prendere il binocolo!" Datoglielo
affermò: "Sì, è vero. È proprio un
tedesco!" poi aggiunse "Andiamo giù a fermarli
alla galleria!"
Anche se si sentivano ancora spari, ritenevamo la partita oramai chiusa,
tanto che Magrini si mise lo Sten di traverso alla giubba, e discorrendo
sulla canna calda del mitra e di altre facezie, allineati, ci incaminammo
sul lungo il piano del costone.
Fatta una decina di metri, dalla cortina di noccioli che segnava la fine
della strada e l'inizio della scarpata, all'improvviso comparvero tre
tedeschi impugnanti machine-pistole. Ricordo come oggi il primo:
portava gli occhiali ed aveva le stesse, precise fattezze d'un mio paesano,
Giut, andato a studiar per divenir prete, ora a Villa. Urlarono prima
di sparare. Nonostante la sorpresa, "Morgan" fece rapido dietro
front, come anch'io, verso il gruppo dei partigiani sopra la curva della
provinciale. Le pallottole mi attraversarono la tomaia degli scarponi
e il fondo dei calzoni. Magrini restò in piedi, sul ciglio del
costone, tentando di impugnare lo Sten. Spiccava per il cappello da garibaldino
in testa, la giubba mimetica e la borsa in cuoio dei documenti... Con
la coda dell'occhio lo vidi cadere contorcendosi...
La salma di Magrini rimase sul posto dello scontro. I tedeschi non presero
lo Sten al contrario della borsa di cuoio con i documenti. Caddero nell'azione:
"Griso", Ermes Solari, comandante di Compagnia garibaldina e
Vito Riolino dell'Osoppo..
Ruggero VIDALE "MORGAN"
Entrai nel movimento partigiano nell'aprile '44, a Rigolato. All'inizio
ero con Magrini sopra Muina. Ci stetti poco, ma ebbi modo di apprezzarlo.
Non c'era uomo come lui. Era comandante, ma alla pari. Montava di servizio
per le due ore di turno quanto noi. Quando c'era la distribuzione delle
sigarette, la nostra razione corrispondeva alla sua... Poi col "Nassivera"
del comandante "Furore", fui mandato a Ravascletto, a Naunina
e a Sutrio. Quando stazionavamo a Ravascletto, ci fu ordinato di far saltare
la strada del passo di Monte Croce. Con Livio Puschiasis, "Carmò"
di Ludaria e un austriaco dal nome di battaglia "Vienna", di
notte minammo dei massi in bilico sul ghiaione sul lato destro del monte,
oltre Timau.
"Vienna" diede il via all'accensione. La frana causata bloccò
il passo. Per riaprire quest'asse vitale con l'Austria, una colonna tedesca
giunta da Tolmezzo, tempo dopo, presa gente di Timau e delle vallate,
la obbligarono a sgomberare la via.
Rientrati alla base, saputo dell'arrivo dei tedeschi, da Naunina venimmo
mobilitati per attaccarli sulla via del ritorno. Allertati, i vari gruppetti
partigiani alla spicciolata raggiunsero l'altura che domina la strada
sulla curva su cui s'apre il ponte di Noiaris, prima della galleria. Magrini
ci fece disporre in fila lungo il bordo del crinale. A nord erano stati
appostati tre uomini con bombe a mano. Con il lancio dovevano segnare
l'inizio dell'azione. Per chiudere l'imboscata, un mitragliatore avrebbe
dovuto essere posizionato sopra la galleria a dominare la strada. Le bombe
a mano caddero sull'ultimo camion. I tedeschi, rapidi, si buttarono dai
mezzi a terra tra i noccioli e il But, reagendo a fuoco rapido con una
pesante postata sul primo camion. Il combattimento era intenso ma confuso.
Si sparava a casaccio sui mezzi nemici coperti dagli arbusti. Per operare
più efficacemente, con il paesano "Tempesta" mi spostai
più a sud.
Dopo un quarto d'ora cessò la sparatoria. Credemmo che tutto si
fosse concluso. Con D'Agaro mi avviai a scendere per disarmare i tedeschi.
"Non vengo in basso", uscì Tempesta "perché
ci sono dei tedeschi che si stanno muovendo tra gli arbusti lungo il But!"
e sparò giù. Guarda che ti guarda, non notai soldati nemici.
Mentre stavamo discutendo sul ciglio della scarpata cui terminava un campetto
di fagioli, giunse inavvertito Magrini. "Cosa fate qua?"
interrogò. "Tempesta sta ribadendo che i tedeschi stanno
arrivando di là!" risposi mentre D' Agaro aggiunse: "Ho
sparato e ne ho colpito uno!" Né Magrini né io
vedemmo movimenti avversari.
Magrini stava in mezzo, io a nord verso la via vecchia a mezzamonte e
"Tempesta" verso quella dov'erano imbottigliati i tedeschi.
Voltandosi verso D'Agaro, Magrini gli ordinò d'andare a prendere
un binocolo da un partigiano più in là.
Udii un urlo. Dal noccioleto saltarono fuori tre tedeschi armati di machine-pistole.
Tre biondi, uno portava gli occhiali... D'Agaro ed io facemmo appena in
tempo a buttarci a terra fra i rialzi del campetto di fagioli arrancando
per raggiungere un riparo verso il grosso dei partigiani. Magrini invece
restò in piedi. Aveva lo Sten a tracollo. Fece appena la mossa
di porlo in postazione di tiro, che i tre concentrarono su di lui tutto
il fuoco delle machine-pistole. Cadde crivellato...
I tedeschi vennero ancora più su, fin dove giaceva il suo cadavere.
Poi scesero di corsa e caricati i loro morti presero la via di Tolmezzo.
Elio
MARTINIS "FURORE"
A vent'anni ci si apre alla vita, la mia generazione invece fu mandata
a morire prima in Francia poi in Jugoslavia, Albania, Grecia, Russia e
in Africa.
Ci avevano cresciuti così, col fuciletto in spalla, fin dalle scuole
elementari; dovevamo fare grande l'ltalia come ai tempi dell'lmpero romano,
così ci dicevano.
Sappiamo com'è andata a finire, una generazione distrutta e I'ltalia
in rovina.
Ero un alpino reduce dai Balcani e l'8 settembre 1943 ho scelto da quale
parte stare e sono salito in montagna, sulle mie montagne, flnalmente.
Lì ho combattuto per la mia lIbertà, per la mia gente, per
la mia amata Camia, come tanti altri reduci. Con i miei Garibaldini abbiamo
cacciato I Tedeschi dal nostro territorio, abbiamo costituito la Libera
Repubblica della Camia, della quale siamo fieri e orgogliosi ancora oggi.
Nell'autunno '44 abbiamo subìto poi l'occupazione di migliaia di
Cosacchi, le privazioni, la fame, centinaia di compagni caduti.
A primavera '45 la Liberazione e subito dopo gran parte dei partigiani
furono costretti ad emigrare per vivere; quelli rimasti qui furono messi
da parte e accusati di ogni nefandezza; bisognava cancellare dalla testa
della gente l'idea che si potesse scgliere liberamente da quale parte
stare e come gestire il proprio territorio, non ci volevano cittadini
ma sudditi.
In quale scuola si è mai studiato quello che è stato scritto
dalla Giunta di Governo del CLN camico ad Ampezzo nel '44?
Quegli articoli che abolivano la pena di morte, che davano il voto alle
donne per la prima volta, che fissavano i criteri per il taglio dei boschi
e l'uso accorto delle risorse da adottare, la riforma fiscale... Perché
non si diffondono? Perché non si st diano? Si continua invece a
infangare il ricordo di una grande pagina di storia con storielle che
scrivono quelli che non c'erano o che stavano dall'altra parte e che mandano
lettere ai giornali per farsi belli e così facendo sperano di capovolgere
la storia.
Sono state messe in giro dicerie sulla morte del dottor Aulo Magrini'
"Arturo", caduto nel combattimento al ponte di Noiaris di Sutrio
(a metà luglio '44), dove era stata attaccata una colonna tedesca.
Nello stesso luogo una ventina di giorni prima era stata attaccata un'altra
colonna:, l'attacco era stato attuato dai Garibaldini comandati da "Leone',
caduto in quel combattimento che darà il nome alla formazione da
me comandata, cioè il Battaglione Nassivera, poi Divisione.
Veniamo al caso Magrini: la colonna tedesca, già attaccata più
a Nord, scende verso Tolmezzo, è in allerta: quello è il
punto più stretto della valle. Prima c'è stato un lancio
di bombe a mano, poi la fucileria, quindi il contrattacco tedesco sul
pianoro di Alzeri in copertura di mitragliatrice pesante. Lì cadde
"Arturo", come hanno sempre riferito due miei garibaldini, D'Agaro
"Tempesta" e Vidale "Morgan", bravi e valorosi combattenti,
che erano con Magrini quando è stato ucciso dai Tedeschi saliti
dal pendio dopo l'attacco.
I due Garibaldini, persone serie e attendibili, circa dieci anni fa sono
stati intervistati da Lao Monutti: testimonianza dettagliata del fatto
e ripresa poi da Brunello AIfarè e riportata nel libretto Guida
al Museo di Ampezzo, realizzato nel 2004 in occasione del sessantesimo
anniversario della Repubblica di Carnia, che è a disposizIone dei
visitatori del museo a richiesta e consultabile sul sito internet www.carnialibera1944.it
Questa è la storia, il resto sono solo illazioni e voci riportate
per sentito dire o per secondi fini.
Spero con questo scritto di porre fine alla telenovela sul caso Magrini
che merita d'essere ricordato, invece, perché era un medico e con
quattro figli piccoli e avrebbe potuto starsene comodamente a casa propria.
Invece ha scelto da coraggioso la lotta per la libertà e per questo
è stato decorato e per questo va ricordato, unico tra i co missari
a fare i turni di guardia notturni come i propri uomini, come ricordato
da "Morgan" nella sua testimonIanza.
Elio Martinis "Furore"
Ampezzo, 21 novembre 2005
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Gianpaolo Carbonetto
Sciolto il mistero su Aulo Magrini: l'eroe partigiano fu ucciso dai nazisti |
Sono passati 66 anni da quel 15 luglio 1944 in cui, in un’azione partigiana contro i tedeschi, rimasero uccisi i garibaldini Aulo Magrini, “Arturo“, poi decorato con medaglia d’argento, Ermes Solari, “Griso“, e l’osovano Vito Riolino. Per la prima volta domenica, sul ponte di Sutrio la ricorrenza sarà commemorata senza più avvertire la fastidiosa puzza dei sospetti diffusi su quella vicenda da persone interessate soprattutto a la resistenza per bassi motivi politici.
A fissarlo una volta per tutte è una sentenza - probabilmente la prima su fatti della lotta partigiana - emessa dal presidente del Tribunale di Tolmezzo, Antonio Cumin, in funzione di giudice unico, acquisendo e valutando gli atti di una causa intentata da Giulio Magrini, figlio di Aulo, rappresentato dagli avvocati Nereo Battello e Barbara Comparetti contro Gianni Conedera autore del libro L’ultima verità. Da Mirko al dopoguerra.
Per fare luce sulla vicenda è necessario ricordare i fatti che hanno portato al contenzioso. Il 15 luglio 1944, un distaccamento partigiano della Garibaldi, di cui Aulo Magrini è dirigente politico, decide di attaccare una colonna formata da tre camion e una vettura, con 150 tedeschi, che sta rientrando dal passo di Monte Croce Carnico e sceglie di farlo vicino al ponte di Nojaris di Sutrio, nel punto in cui una strada che corre lungo il But è sovrastata da una parete a picco. Giunti sul posto, i garibaldini trovano già una squadra osovana impegnata, nel tentativo di sbarrare la strada con dei tronchi. In un veloce incontro fra il comandante del battaglione garibaldino, Ciro Nigris “Marco”, e quello osovano, Terenzio Zoffi “Bruno”, viene concordata la strategia di attacco. Il reparto osovano si posiziona sul lato destro del torrente, parete rocciosa e spoglia, mentre quello garibaldino va sull’altura sovrastante la strada, suddividendosi in gruppi di due-tre uomini.
La colonna nazista ha già subito un attacco in località Enfre Tors e ha quindi le armi pronte all’uso. Quando le macchine tedesche sono sotto il tiro partigiano, sono lanciate le bombe al cui fragore fa seguito «un immediato inferno di fuoco di armi automatiche e di una mitragliera da parte dei tedeschi». L’azione dura alcuni minuti, ma la pronta e pesante reazione nemica costringe i partigiani a ritirarsi lasciando sul posto i corpi senza vita di tre compagni.
Quasi subito viene messa in giro la voce che Magrini non sia stato ucciso da proiettili tedeschi, ma da “fuoco amico” in maniera più o meno consapevole. Per le motivazioni le fantasie denigratorie non mancano: chi dice che è stato colpito alle spalle (mentre invece il proiettile lo ha colpito allo zigomo sinistro), chi lascia intendere che sia stato ucciso perché portava con sé un’ingente somma di denaro, chi accusa che siano stati gli stessi partigiani a condannarlo a morte perché avrebbe detto (dopo solo un paio di mesi e mentre scriveva lettere nobilissime) di essere stufo di comandare i partigiani.
E ad approfittarne, per attaccare la Resistenza, è soprattutto Giorgio Pisanò, fascista convinto, Ufficiale della repubblica Sociale ed esponente del Movimento Sociale, che, nell’ansia di approfittare di queste voci, incappa in alcuni errori marchiani definendo Magrini democristiano, cattolico professante, osovano e ucciso per inclinazione politica, su ordine del capo garibaldino “Mirko”. Buona parte di queste invenzioni vengono riprese più volte negli Anni Novanta, fino a provocare la reazione di Giulio, figlio di Aulo.
Ma questo non basta e nel 2006 Gianni Conedera pubblica un libro in cui, senza fornire prove storiche delle sue conclusioni, afferma che il colpo che ha ucciso “Arturo” non solo è partito da arma partigiana, ma che addirittura è stato programmato. Inevitabile il ricorso alla magistratura da parte del figlio Giulio che presenta, tramite i suoi avvocati, anche i pareri “pro veritate” di Gianpaolo Gri e di Marcello Flores che confutano senza tentennamenti l’attendibilità storica dello scritto di Conedera che si rifà sempre a presunti testimoni anonimi e non verificabili. Il presidente del Tribunale di Tolmezzo, Antonio Cumin, dopo aver attentamente esaminato l’intera documentazione, ha ravvisato «una lesione di diritti costituzionalmente protetti, quali, appunto, i diritti della personalità» che comprende «quello dell’onore e reputazione», una lesione causata dall’inattendibilità dello scritto provato dall’assenza di «quegli indici minimi storiografici, in presenza dei quali soltanto si può parlare di opera storica, Infatti, com’è noto, è necessario a tal fine che l’opera contenga i presupposti perché la comunità scientifica sia messa in grado di verificarne il contenuto, segnatamente in primo luogo tramite l’esame delle fonti cui si è fatto ricorso per la redazione della stessa opera». Ma la lesione è causata anche, come dice il giudice, dal fatto «che l’illecito contenuto del libro di Conedera» è «in completo contrasto con il contenuto della motivazione della medaglia d’argento conferita in memoria al Magrini».
Infine, dopo aver rilevato che il danno supera il livello di tollerabilità, il presidente Antonio Cumin ha condannato Gianni Conedera alla rifusione dei danni morali e materiali a Giulio Magrini, figlio di Aulo.
Si conclude così definitivamente una dei più squallidi - anche se non l’unico - tentativi di gettare fango sulla guerra di Liberazione, o, quantomeno, di screditare il più possibile la parte della Resistenza maggiormente vicina al Partito Comunista in un gioco al massacro che continua ancor oggi a essere praticato, in quanto gli obbiettivi, anche se non sono più perfettamente coincidenti con quelli dell’immediato dopoguerra, quasi sempre sono legati a mire politiche legate all’oggi più che a un passato che non esiste praticamente più.
Messaggero Veneto, 15 luglio 2010
di seguito l'ultima lettera di Magrini alla moglie:
Margherita cara,
altre volte avevo divisato di consegnare ad uno scritto un pensiero ed
una parola per te nel caso dovessi, per qualunque circostanza,scomparire. La situazione
attuale mi consiglia di farlo oggi. A te solo, solo a te posso rivolgermi. So del tuo affetto per me: posso dirti di ricambiarlo in pieno con un senso di riconoscenza, di stima,
di rispetto, quale tu meriti. Vorrai perdonare qualche mio torto: sei troppo intelligente
per non comprendere e per non indulgere.
So e sento che, pur nello strazio anche mio nel lasciarvi, saprai comprendere che
ci sono delle leggi e dei doveri, come uomini e cittadini, di fronte ai quali tutto deve
passare in second’ordine - interessi ed affetti, sentimenti ed impulsi.
Ho creduto e credo fermamente in una società migliore e in un migliore prossimo avvenire in questa povera umanità.
Non credo possibile, ne posso in questo momento, rifuggire dalle responsabilità e
dai doveri che me ne derivano.
Non è questa che la ferma e calma decisione che chiunque, nelle sue pur modeste con
dizioni, voglia considerarsi degno del nome di uomo, deve prendere per sé e soprattutto per
i propri figli.
Ho per tradizione famigliare - lo sai - quella di pagare di persona. Non voglio essere io a romperla. Tengo a lasciare più che mai alto e puro questo punto d’onore ai figli: ed a loro quest’eredità non può venire per via più pura e degna della loro mamma. Tu
li saprai allevare nel culto del bene e del vero, senza debolezze, assolutamente, ma con
altrettanto senso di umanità.
Ho un solo rimorso: quello di non potervi, con il mio immenso affetto, lasciare anche
una situazione materiale che tolga ogni preoccupazione a te ed ai miei piccoli. Spero non
me ne farete un torto: anzi ne sono convinto.
Addio, Margherita mia, a te ed ai cari piccoli, ai nostri figli, in cui troverai
sempre conforto e ragione di vita, di lotta, di sacrificio.
E credimi, sentimi vicino a te, a voi tutti sempre, con il mio affetto più puro ed
intenso.
Vi abbraccia il vostro
Aulo
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Fabio Lazzara "Kent"
La morte di Aulo Magrini |
qui
|
Pieri Stefanutti
Il caso del comandante “Arturo” Aulo Magrini e le nuove risultanze |
Non dev’essere semplice essere la vedova di un comandante partigiano morto in combattimento e sentirsi dire per decenni che «tuo marito l’hanno ammazzato i suoi compagni». Margherita Cecchetti non potrà più sentire gli echi del dibattito legato al caso della morte del marito, il comandante “Arturo”, Aulo Magrini, avvenuta il 15 luglio 1944 al ponte di Nojariis, in Carnia, poiché se ne è andata, novantasettenne, lo scorso 16 ottobre. Ha fatto però in tempo a vedere l’esito di un procedimento avviato dal figlio Giulio che aveva detto basta e si era rivolto alla magistratura che, nel luglio scorso, ha condannato Gianni Conedera, autore di un libro in cui era riproposta la tesi del comandante “Arturo” ucciso dai suoi compagni partigiani.
La sentenza, supportata da un parere “pro veritate” di Gianpaolo Gri e Marcello Flores, ha messo un importante punto fisso, ma non chiude completamente il discorso. In tribunale si è infatti discusso di un libro, uscito nel 2006, ma questo è in fondo “figlio” del lavoro di tanti autori che, prima di Conedera, hanno raccolto e spesso sostenuto la tesi dell’uccisione per mano partigiana; la sentenza, inoltre, non pare abbia preso in esame l’evoluzione successiva delle ricerche (in primo luogo dello stesso Conedera che, nel 2009, ha pubblicato un altro libro in cui parecchie delle motivazioni e delle critiche mossegli sul piano processuale hanno trovato parziale accoglimento).
Come poter giungere a qualche maggiore elemento circostanziato? Innanzi tutto attraverso la raccolta delle testimonianze orali dei protagonisti, inevitabilmente sempre più ridotte (e qui Conedera ha fornito un contributo apprezzabile, riportando svariate testimonianze che hanno consentito di chiarire tanti episodi di microstoria della guerra in Carnia). È parimenti necessario proseguire nel lavoro di ricerca archivistica, anche all’estero (e i documenti individuati da Carlo Gentile e da Stefano Di Giusto al Bundesarchiv di Berlino nel fondo Italien Aktenband, hanno consentito, per esempio, di determinare come l’assalto del 15 luglio 1944 alla colonna tedesca al ponte di Nojariis sia stato percepito e valutato dall’altra parte, col suo rilevante numero di feriti e di vittime fra i soldati tedeschi).
È possibile ragionare ancora sul caso Magrini alla luce delle ultime acquisizioni? Provo a farlo, citando soprattutto gli elementi concreti emersi e incrociando le testimonianze (i partigiani sono indicati col solo nome di battaglia, ma i nominativi effettivi, a chi lo desideri, sono facilmente desumibili).
Il primo elemento su cui riflettere, vista la diceria che i suoi compagni lo avrebbero ammazzato per impadronirsi dei valori che egli aveva con sé, è sapere se Arturo avesse avuto effettivamente con sé, quel giorno, un’ingente somma di denaro, giacché si è anche ironizzato su quale comandante partigiano si portasse dietro in battaglia la cassa del battaglione. Ora dei soldi, effettivamente, Arturo li aveva: il denaro che aveva con sé era stato chiesto alla famiglia di possidenti e imprenditori boschivi De Antoni di Comeglians per finanziare la Resistenza: «Fui io stesso a mandare Magrini a prendere quei soldi dai De Antoni, il giorno prima dell’attacco», disse in un’intervista il comandante garibaldino Marco, ed è un elemento confermato in più occasioni, sulla base di ricerche personali, dallo stesso Giulio Magrini.
Ma la voce malvagia di Arturo ucciso dai compagni per impossessarsi del denaro è, nei fatti, smentita dallo stesso Conedera nel secondo libro, quando riporta l’importante testimonianza di uno dei tedeschi della colonna, Alois Innerhofer, il quale ha affermato: «Il primo ad arrivare (accanto al corpo di Arturo) fu Cristian Bister, un tedesco di Colonia, che trovò addosso a un cadavere molti soldi, ben 67.000 lire. In Alto Adige, a quel tempo, con una cifra del genere, si poteva comperare un’azienda agricola. Era usanza delle SS perquisire gli uccisi per controllare se avevano documenti, soldi o oggetti di valore. (...) Bister consegnò i soldi al Comando tedesco a Udine, ricevendo come premio 3.100 lire che spese in giro per la città di Udine con dei camerati. Era una bella cifra, se si considera che io, come caporale, percepivo 11 lire al giorno». Relativamente alla dinamica dei fatti della morte di Arturo, disponiamo delle testimonianze di alcuni dei presenti: quelle dei partigiani Morgan e Tempesta e quelle dei due comandanti indicati inizialmente da Conedera semplicemente con le lettere C e Y. Tale scarna indicazione, probabilmente, ha pesato sulla formulazione della sentenza del Tribunale di Tolmezzo, dal momento che non consentiva l’individuazione delle fonti. Nel secondo libro di Conedera par di capire che C sia il già citato Marco, mentre Y sarebbe Senio. Le testimonianze dei presenti descrivono Arturo colpito, mentre guidava l’attacco verso la colonna tedesca, da pochi colpi partiti dal basso (e lo confermò, in una lettera al Messaggero Veneto nel 2005, Diana Fabian, «colei che ha tolto dalla testa del dottor Magrini le due pallottole, che si vedeva benissimo entrate sotto gli occhi, dove la fine pelle rientrava»). Conedera mostra di ritenere maggiormente valida la unica, discordante testimonianza di Senio («A colpirlo fu un colpo di fucile, uno solo, proveniente dalla mia destra, dalla zona dove si erano posizionati i partigiani di Prato Carnico») e a ritenere fondati i sospetti caduti sul partigiano Olmo. Ma se Olmo era alla destra di Magrini, e Magrini stesso è stato colpito frontalmente, da colpi partiti dal basso, rimane maggiormente probabile la versione, ribadita anche recentemente dal partigiano Kent che vide il corpo di Magrini appena recuperato («Lo vidi a non più di un metro. Lo guardai con assoluta coscienza, così come me lo rivedo ora nella memoria: il corpo era adagiato sullo schienale del calesse con le braccia e le gambe abbandonate, con il viso rivolto in avanti. In quell’istante potei vedere un foro in mezzo alla fronte, netto e unico...») e, sulla base di una serrata analisi delle testimonianze, ha concluso che «è dimostrato, razionalmente, applicando la logica ai fatti come accaduti e credibilmente ricostruiti, che escludono ogni possibile coinvolgimento di “fuoco amico”, che rimane in causa una sola possibilità, cioè quella del piombo nemico. In tal caso l’ipotesi, la sola possibile, è quella di un cecchino tedesco che nell’immediatezza dall’inizio della battaglia ha sparato con il fucile appostato sul camion».
Kent ha anche da poco pubblicato, su Youtube, una ricostruzione filmata dell’episodio che consente di chiarire la sua opinione sulla dinamica dei fatti.
Per giustificare le accuse a Olmo, Conedera parla di un complotto addirittura attribuendo a Olmo anche l’uccisione del comandante Aso morto nell’assalto alla gendarmeria tedesca di Sappada, il 26 luglio 1944. Ora di quell’episodio è disponibile (anche on-line, sul sito Carnia Libera 1944) il diario del partigiano Checco che fu a fianco di Aso durante l’assalto e per poco non fu falciato dalla raffica di mitra partita dall’interno della gendarmeria che uccise Aso: una testimonianza diretta, precisa e dettagliata che esclude la verosimiglianza della ricostruzione di Conedera, che riferisce poi che Olmo fu arrestato, imprigionato e infine fucilato dai suoi compagni garibaldini il 28 novembre 1944, precisando che «Motivazione dell’arresto e della degradazione fu l’accusa formale di aver ucciso il dottor Aulo Magrini e il comandante Italo Cristofoli Aso (testualmente ripreso da un documento conservato nell’Archivio della Osoppo)».
Ora, se ci si può permettere un suggerimento: perché Conedera non pubblica integralmente tale documento, indicando fondo e collocazione, per consentire a tutti i ricercatori di verificare se si tratta di una chiacchiera d’osteria o se viceversa questo può rappresentare un elemento documentario capace di riscrivere la storia della Resistenza carnica? Ma il punto riguarda il silenzio di molti. Anche la sentenza del Tribunale di Tolmezzo non ha suscitato particolari discussioni o commenti. È comunque necessario che le vicende della guerra siano rilette con serietà e metodo, in primo luogo grazie all’impegno di quanti sono istituzionalmente deputati a tale compito, ma anche con l’appoggio e il sostegno a quanti, pur con scarsi mezzi, si muovono con impegno e serietà. |