A seguito delle decisioni adottate tra il nostro CLN ed
i Comandi Partigiani, in una notte del dicembre 1944 alcuni garibaldini
armati ed in divisa con alla testa Nembo (Augusto Nassivera),
commissario della Brigata Garibaldi Carnia, arrivarono nei nostri pressi
in VaI Pesarina e si apprestarono a costruire .un bunker in una località
oltre Pesariis, nel Plan dai Bes, nel più fitto della boscaglia
in margine al Rio Vinadia onde costituire in loco una solida base ove
fermarsi.
Appena furono arrivati provvedemmo a portar loro una piccola scorta di
alimenti e qualche altra cosa necessaria per sopravvivere dopo di che
tutti iniziarono con lena il lavoro di scavo e costruzione in modo che
in qualche giorno il bunker venne realizzato con tutti gli accorgimenti
possibili e soprattutto ben mimetizzato.
Non si sa come ma una spia del luogo ne venne a conoscenza. Qualche giorno
dopo il delatore, travestito anch'egli da cosacco, si pose in testa ad
una lunga silenziosa colonna nemica sulla camionabile accompagnandola
sino nei pressi del bunker che indicò loro con esattezza.
I cosacchi si avvicinarono nelle tenebre silenziosamente accerchiandolo
ed appostando molte mitragliatrici pesanti e leggere, compreso un mortaio,
pronti per l'attacco.
All'alba dell'11 gennaio 1945 i cosacchi aprirono un fuoco micidiale mentre
metà delle loro forze risalite nella fitta abetaia si portò
a pochi metri dal bunker. Colti di sorpresa i nostri compagni reagirono
con fitte scariche di mitra e Nembo impegnò duramente gli attaccanti
col suo fuoco. Ma poi vedendosi circondati e senza scampo i garibaldini
cercarono di eclissarsi tra gli abeti nell'intento di raggiungere il greto
poco lontano del rio Vinadia.
Nembo, rimasto per ultimo com'era suo dovere di commissario, infilò
di corsa un sentiero al coperto degli abeti e discese sino al cocuzzolo
prospiciente con l'evidente intento di attraversare un tratto scoperto
e poi portarsi fuori tiro ma a quel punto una raffica di arma automatica
cosacca: lo colpì a morte.
I compagni Barba, comandante di battaglione e Tom, comandante di compagnia,
riuscirono ad arrivare sino al greto del Rio ma qui furono visti anch'essi
e scariche di armi automatiche colpirono anche loro: gravemente feriti
furono catturati dai cosacchi dopo di che vennero trasferiti in vari luoghi
e carceri, furono curati e poterono rimettersi in piedi; alla fine vennero
trasferiti nelle Carceri di via Spalato a Udine e qui dopo qualche tempo,
il 9/4/45, furono tra i 29 martiri fucilati assieme a
Tribuno, Guerra ed altri eroi.
Solo pochi altri compagni poterono approfittare dello scompiglio insorto
nei cosacchi per l'uccisione di Nembo e la cattura di Barba e Tom e riuscirono
a fuggire salvandosi da sicura morte.
Tutto il materiale giacente nel bunker venne asportato dai cosacchi.
La spia da noi individuata venne catturata qualche tempo dopo, confessò
e venne fucilata.
La morte di Nembo mi arrecò immenso dolore perché ero legato
a lui da viva fraterna amicizia in quanto ci univano non soltanto la comune
fede politica ma anche i tanti ricordi del confino fascista assieme trascorso
a Ponza.
Nembo era un uomo ferreo, di estremo coraggio, decisione e chiarezza di
idee, un vero comandante garibaldino ed un vero comunista; ma era anche
un uomo di grande umanità e simpatia ed in certi momenti anche
di grande dolcezza, amatissimo dai suoi uomini e da tutti i compagni e
che a mio parere, pur avendo rivestito posizioni di grande responsabilità
e di comando, non fu sufficientemente apprezzato per il grandissimo valore
militare, politico e morale che aveva.
Poco tempo fa nel corso della stesura di questi miei ricordi, a distanza
ormai di decenni da quei fatti dolorosi, mi sono recato nel ridente piccolo
cimitero di Forni di Sotto con l'intento di portare un fiore sulla tomba
di Nembo e del suo indimenticabile cugino Mansueto Nassivera, il nostro
commissario Leone, gloriosamente caduto in combattimento
pochi mesi prima, entrambi medaglia d'argento al V.M., ma ho avuto l'infinito
dolore di non ritrovarle più, forse per avvenuta esumazione delle
salme dopo decenni di sepoltura.
Ho girato a lungò in quel piccolo cimitero per trovare una lapide,
un sasso, un segno, un qualsiasi ricordo di quei due grandi uomini, entrambi
Medaglie d' Argento al Valor Militare, gloria nostra, di tutti i resistenti,
di tutti i comunisti, dell'intera Carnia ed anche soprattutto di quel
paese, ma non l'ho trovato e neppure ho trovato il loro nome scolpito
nel Monumento dei Caduti in piazza.
Me ne sono dovuto andare addoloratissimo col cuore che mi scoppiava in
petto, chiedendomi perché mai questo possa accadere, perché
la gente così presto possa dimenticare i suoi figli migliori attraverso
il cui sacrificio ha avuto in dono il bene supremo della libertà
anche se non quello del totale riscatto sociale da essi agognato.
Non sono il poeta dei "Sepolcri" né mi azzarderò
a fare qualsiasi considerazione sulla ingiustissima labilità della
memoria dell'uomo; ma non posso non indignarmi, a nome di tutti i comunisti
e di tutti i cambattenti della Libertà, per l'ingratitudine delle
pubbliche autorità del dopoguerra e per il disinteresse al quale
è stata portata la generazione immediatamente successiva a quella
di Nembo, di Leone e dei tanti eroi che come loro hanno sparso il loro
sangue per la libertà, le cui ossa sono state disperse al vento
ed il cui nome è stato dimenticato o non sufficientemente ricordato
ed onorato, quando invece tutt'oggi si ricordano e si onorano tanti altri
caduti delle precedenti guerre.
Non posso tacere, inoltre, l'indignazione che coglie tutti gli onesti
e non solo noi vecchi compagni, per l'indecente "sistema di parte"
con il quale l'alta ufficialeria ministeriale del dopoguerra, capeggiata
nella nostra Regione prevalentemente da ufficiali della Osoppo, ha gestito
la distribuzione di ricompense al Valor Militare agli appartenenti alle
nostre Formazioni Partigiane che si erano distinti in atti di valore.
Indignazione che fa fremere tutti gli onesti che vissero quei tempi tragici,
quando si consideri che ai tanti autentici eroi della Carnia, i veri protagonisti
della lotta nelle nostre terre, che andarono alla morte col fazzoletto
rosso al collo, non venne concessa neppure una medaglia d'oro al Valor
Militare, non a Magrini, Aso, Nembo, Cicco, ma neppure poi a Tribuno,
l'eroe per antonomasia della Resistenza Friulana.
È una autentica vergogna, un vero crimine commesso da chi ci ha
governato in questo dopoguerra su una precisa linea diretta a dimenticare
e minimizzare quanto più possibile i valori della Resistenza, soprattutto
di quella popolare, ed a farli dimenticare alle nuove generazioni dell'amministrato
popolo italiano, crimine contro il quale nulla è più possibile
fare se non elevare la più ferma protesta a nome dell'intero proletariato
internazionale.
A Nembo, a questo indomito combattente, fratello nella santa lotta per
la libertà di tutti i popoli, a suo cugino Leone, gloriosamente
caduti nella Lotta, vada il mio commosso saluto e I'imperitura riconoscenza
a nome di tutti i veri combattenti, resistenti ed antifascisti che condivisero
con lui quelle vicende storiche e sanno cosa vuoI dire lottare, soffrire
e morire per la libertà ed il riscatto sociale di tutti i popoli.
In tutta la Carnia in quei giorni continuava la caccia al garibaldino,
orrenda e spietata.
I cosacchi con diabolica astuzia, installati in tutti i paesi, erano persino
riusciti ad avere nelle mani molti elenchi degli appartenenti alle formazioni
garibaldine, compreso in ciò i loro gradi e responsabilità
ed altre preziose indicazioni.
Così molti dei nostri compagni rientrati nei paesi confidando nell'anonimato
vennero invece localizzati e catturati, furono obbligati sotto le sevizie
ad indicare dov'erano nascoste ed a consegnare armi e materiali; per la
maggior parte furono poi deportati in Germania mentre solo pochi di essi
riuscirono a restare in paese a prezzo di sofferenze inaudite.
In quei terribili momenti bisognava avere l'animo ben forte per resistere
non solo alle brutalità del nemico ma anche alle sue blandizie
e perciò le spie ed i delatori non mancarono e questo era palese
per le stesse notizie in possesso del nemico che potevano essere state
acquisite solo con questo mezzo.
I cosacchi poterono così impadronirsi anche di quasi tutti i materiali
delle disciolte formazioni ed il loro "fiuto" fu così
fine e ben indirizzato che ad esempio in un canalone oltre Pradumbli essi
poterono persino dissotterrare alcune preziose damigiane che erano state
accuratamente interrate, assolutamente invisibili ed introvabili per chi
non sapesse l'esatto luogo, ma non fu "fiuto", purtroppo, fu
tradimento e l'autore ne rimane ignoto.
In queste capaci damigiane erano stati nascosti quasi tutti i documenti
del comando Divisione Garibaldi Carnia, con tutti i verbali, gli ordini,
la corrispondenza, gli elenchi ed i verbali dei processi celebrati, i
nomi dei nostri informatori-collaboratori rimasti nei luoghi occupati
dal nemico, persino i documenti di identità che venivano ritirati
ai garibaldini al momento del loro arruolamento e ciò fu una perdita
gravissima non solo ai fini storici, ma anche e soprattutto perché
con quei documenti fu possibile l'identificazione e la cattura di altri
compagni che si erano abilmente nascosti nei paesi ed altrove e che sino
a quel momento si erano fortunosamente salvati ed avevano svolto un servizio
per noi prezioso.
Fu così che ritengo possa essere stato individuato, catturato e
deportato a Mathausen ove morì il prof. Ivo Forni che per noi svolgeva
un prezioso lavoro informativo a Udine, restando a bazzicare nei comandi
tedeschi e fascisti e come lui così accadde ad altri nostri collaboratori
il cui nome era fatalmente indicato in quelle damigiane scovate "misteriosamente"
dai nostri nemici.
Si pensi che subito dopo la Liberazione negli abbandonati Comandi tedeschi
di Tolmezzo poterono essere rinvenuti molti fascicoli relativi a singoli
nostri comandanti o commissari nei quali erano contenute notizie dettagliatissime
degli stessi ed in certi casi persino le loro fotografie, vestiti da garibaldini,
come quelle di Furore e Checo imprudentemente scattate durante l'estate
e rintracciate dal nemico con i mezzi più sopra descritti.
Nei paesi quei pochi garibaldini che erano stati lasciati in libertà
dopo essere stati interrogati e bastonati, continuarono ad essere convocati
e sistematicamente bastonati ed interrogati ancora ogni qualvolta ciò
piacque ai vari ufficiali nazisti o cosacchi di stanza nei paesi stessi.
Furono momenti estremamente gravi per lo sbandamento generale in cui l'opera
nefanda di spie, traditori, profittatori ed opportunisti potè trovare
talora fertile terreno.
Non esisteva d'altronde in quello sfacelo generale luogo sicuro in cui
poter trovare rifugio occultandosi con sicurezza al nemico cosicché
furono veramente pochi quegli eroici partigiani che poterono restare alla
macchia, in alta montagna, resistendo in divisa ed in armi in condizioni
di disumano disagio, obbligati a continui spostamenti notturni per far
perdere le loro tracce, solo raramente facendo qualche puntata in fondo
valle.
Restarono certamente in armi in alta montagna nell'alta neve, divisi in
separati rifugi nascosti, tra mille stenti, sparuti e piccoli reparti
garibaldini e ancor più piccoli osavani, ciascuno d'essi di pochi
uomini e molti di essi erano di elevato grado, gente esperta e di grande
fede e coraggio, ritengo fondatamente al massimo un centinaio circa di
autentici eroi: fra essi, sempre fieramente con le armi in pugno, Marco,
Barba Toni, Furore, Nitro, ZanZan, Benvenuto, Libero, Pizzi, Osoppo, Augusto
ed altri, con pochi loro uomini, che si trovarono a lottare duramente
per la sopravvivenza, compagni che ricorderanno per sempre quegli infiniti
patimenti, quella fame nera, quelle amarezze, quelle speranze, con la
fierezza di sapersi soli sui monti sempre col fazzoletto rosso al collo
ed il buon mitra in mano, autentici soldati della libertà, a vegliare
sulle sorti della patria oppressa.
Gli altri, la grande massa, meno fortunati, dovettero forzatamente rassegnarsi
a deporre le armi, a nascondersi, per quei fortunati che riuscirono a
farlo, anche perché nei rifugi nascosti nella neve il posto era
limitatissimo, ad attendere e soffrire attendendo il giorno della riscossa.
Dopo aver ricordato tanti compagni combattenti caduti, mi corre l'obbligo
di rendere omaggio alla memoria di un altro caro compagno non appartenente
alle formazioni armate ma strettissimo collaboratore delle stesse e nel
contempo responsabile del PCI e dei C.L.N., caduto nella lotta per piombo
nemico, Amadio De Stalis, nato e dimorante in Ravascletto, il valoroso
ALFONSO durante la Resistenza.
Alfonso era sempre stato sin da giovane un irriducibile antifascista anche
durante la dittatura prima della caduta del fascismo; era un uomo impulsivo,
di cuore molto aperto e generoso, che aveva sempre espresso ovunque il
suo aperto dissenso contro l'odiato regime, senza alcun timore dei fascistelli
locali durante i lunghi e continui viaggi che faceva a bordo della sua
autovettura, una delle prime, acquistata con fatica e con la quale, ovunque
conosciutissimo e di tutti amico, esercitava il mestiere di venditore
ambulante di stoffe e vestiti.
Durante la lotta mi ero incontrato innumerevoli volte con lui per concordare
tante iniziative ed attività politiche in quanto sin da prima della
caduta del regime era stato ed era un devoto militante comunista dalla
prima giovinezza, mio fraterno amico da sempre, poi uno dei primi organizzatori
del movimento partigiano e delle attività politiche della Resistenza
durante la quale si era poi dedicato anima e corpo all'organizzazione
dei C.L.N. per i quali prestava una frenetica attività al mio fianco.
Invasa la Carnia dai cosacchi aveva sofferto la perdita totale delle sua
casa e dei suoi beni messi a fuoco con tutto il loro contenuto, com'era
stato per me, dal nemico perfettamente informato dai soliti delatori.
Il 21/1/1945, pochi mesi prima della Liberazione, tornato a Ravascletto
per una incombenza di breve momento, venne avvistato da una spia che lo
segnalò subito cosacchi: questi accorsero mentre egli già
stava abbandonando il paese e se li vide venire incontro numerosi con
le armi spianate.
Avvertito il grave pericolo Alfonso si gettò in una pazza corsa
attraversando il paese riuscendo al momento a far perdere le sue tracce.
Proseguì poi la fuga buttandosi per i prati e sentieri nascosti
verso valle ma ad un certo punto si trovò costretto ad attraversare
un tratto scoperto e fu riavvistato.
I cosacchi, che nel frattempo avevano piazzato una mitragliatrice sul
terrazzo verso valle dell'Albergo Belvedere, scorto Alfonso ormai a notevole
distanza, che correva curvo e quasi salvo sulla strada camionabile che
conduce
a Comeglians, spararono diverse scariche con rabbia e la malasorte volle
che nonostante la distanza di ormai circa un chilometro egli venisse raggiunto
da una pallottola che lo stese morto all'istante.
Più tardi dopo la Liberazione alcuni loschi avanzi del fascismo
e soprattutto alcuni clericali tentarono invano di infangare con le più
inverosimili calunnie il nome di questo eroico compagno che aveva avuto
una sola grande colpa per loro, quella di essere un autentico e duro comunista
ed un vero proletario altamente responsabilizzato.
Ma le menzogne e le calunnie nulla possono per offuscare una intera vita
spesa per la libertà ed il riscatto sociale: il nome di Alfonso
resterà per sempre nella memoria delle genti carniche come quello
di un martire e di un eroe.
Ad uno ad uno quasi tutti i compagni della vecchia guardia proletaria
ed antifascista carnica erano caduti.
Quando seppi di quest'ultimo doloroso evento per cui scompariva uno degli
ultimi vecchi compagni fortunosamente sopravvissuto a tante battaglie,
li rividi ed abbracciai tutti col pensiero, Magrini, Gracco, Aso, Nembo,
Grifo, Amadio De Stalis, Leo Cimador, fratelli tanto cari, gloriosi caduti
per la libertà del nostro e di tutti popoli, a Voi martiri va l'imperitura
riconoscenza delle nostre genti.
La morte aveva veramente fatto strage tra le nostre fila né altrimenti
poteva essere, in quanto durante le lotte estive e del terribile inverno
'44-'45 i maggiori scontri armati con i tedeschi ed i cosacchi erano stati
sostenuti prevalentemente dalle formazioni garibaldine che avevano subito
rilevanti perdite anche dei loro maggiori responsabili.
Né diversamente poteva essere in quanto, dopo l'occupazione cosacca
ed il proclama del gen. Alexander, l'Osoppo in base a precise disposizioni
emanate dai suoi Comandi si era invece prontamente e quasi totalmente
sciolta, restando nelle loro case e pochissimi in armi nascosti nei bunker
sotto la neve mentre le formazioni garibaldine avevano invece deciso di
continuare ed avevano continuato la lotta in montagna anche se con ridotte
formazioni ed essa era proseguita feroce, come ho più sopra narrato,
con il tragico risultato della perdita di quasi tutti i loro uomini migliori.
Soprattutto i quadri più vecchi, esperti e qualificati del Partito
Comunista erano così scomparsi, quadri che sarebbero stati preziosi
nel dopoguerra per la loro abnegazione e maturità: non potei non
rendermi conto che perciò il futuro non sarebbe stato facile anche
con le nuove leve pur così valorose e responsabilizzate uscite
dalla Resistenza senza l'aiuto prezioso dell'esperienza della vecchia
generazione dei migliori uomini del Partito.
Erano gli ultimi mesi dell'occupazione ed operavo muovendomi cautamente
dalla mia base di Ovasta, dalla casa di quella famiglia di amici che così
generosamente continuavano ad ospitarmi.
Un giorno, eravamo ai primi di marzo del 1945, di primo mattino sentii
un gran fracasso ed affacciatomi vidi in paese un forte reparto cosacco
che stava perquisendo casa per casa, ormai vicino a quella dove mi trovavo.
La mia brava padrona di casa mi consigliò di nascondermi bene poi
discese le scale, chiuse dall'esterno la porta d'ingresso e poi il portone
con catena e lucchetto, dopo di che intascò la chiave e scomparve.
Restai così solo nel fabbricato e sbirciando vidi i cosacchi avvicinarsi
anche al cortile della nostra casa e poi li sentii picchiare a lungo sul
portone d'ingresso.
Raggiunsi allora facilmente una stanza dalla parte opposta a retro del
fabbricato, aprii la finestra del primo piano e saltai cadendo sulla neve
dirigendomi poi verso il sentiero e risalendolo sino ad un punto ove trovai
molti uomini scappati dal paese che mi conoscevano perfettamente anche
per nome, i quali vedendomi restarono molto sorpresi date le voci che
avevamo fatto circolare che invece fossi morto o rifugiato nella pianura
friulana.
Mi portai più lontano tra gli alberi, al coperto: c'era molta neve
e continuava a nevicare per render ancora più triste quella località,
Vals di Ovasta, me ben nota da tanto tempo e così bella in altri
momenti.
Seppi poi che i cosacchi, dopo avere battuto a lungo sul portone della
casa dalla quale ero fuggito, avevano alla fine desistito credendo che
l'edificio realmente fosse vuoto e la gente al lavoro, passando ad altre
case che subirono meticolose perquisizioni.
A quel punto ritenni del tutto insicuro il mio rientro nella stessa casa
a Ovasta perché troppa gente aveva visto la mia presenza in paese
e sapevo d'essere troppo noto e segnalato, cosicché rimasi due
giorni girovagando nei boschi ricoverandomi di notte in qualche "staipa",
dormendo raggomitolato sotto a strati di fieno e cibandomi con quel pochissimo
che avevo portato con me.
Poi di nascosto rendendomi conto che quella località e quel paese
non potevano assicurarmi più un asilo sicuro, mi avviai per il
bosco assieme a mia moglie che nel frattempo mi aveva raggiunto di notte,
diretto verso Pieria ove avevo saputo che il presidio cosacco era stato
ritirato.
Dopo un duro cammino di molte ore nella neve sciroccosa, procedendo per
buon tratto nel greto del fiume ed affondando nell'acqua e nella neve
sin alla cintola finalmente raggiungemmo Pieria, rientrando di notte nella
nostra sia pur provvisoria abitazione.
In quei giorni restammo con le imposte delle finestre sempre chiuse in
modo che tutti pensassero che la nostra casa continuava ad essere da tempo
disabitata: ci recavamo solo di notte e molto nascosti in casa di qualche
parente od amico per procurarci qualche povero cibo onde sopravvivere.
Una notte, sbirciando dal pertugio di una finestra, vidi passare sulla
carreggiata un reparto di cosacchi in mezzo ai quali si trovava ammanettato
il partigiano garibaldino, il comp. Biondo (Albino Gonano di Prato Carnico)
arrestato anch'egli per la delazione di un traditore: Biondo fu poi tradotto
nelle carceri di Udine e qui fucilato assieme ad altri 29 eroi il 9/4/1945. |