“Dove
non si parla di libertà, la libertà muore” Intervista a Ciro Nigris ‘Marco’ |
Udine, 15 dicembre 2003 Sono nato ad Ampezzo nel 1921, dove ho fatto ance le elementari, mentre gli altri studi a Udine, al collegio Renati, prima il corso delle medie, che era di quattro anni e poi le magistrali. In seguito ho sostenuto l’esame al liceo classico Stellini di Udine. Subito dopo ho insegnato come maestro, prima a Mediis (1) e poi a Sauris, nel 1941. Eravamo quindi già in guerra. Era stata dichiarata proprio nei giorni in cui sostenevo l’esame di liceo classico. Così, nel giro di due anni ho visto partire molti amici. Qual era la sua percezione del regime fascista prima dello scoppio del conflitto? Da ragazzo ho partecipato a qualche riunione o manifestazione. Era un fatto normale. La prima chiara impressione del regime l’ho avuta mentre ero in terza magistrale, quando un giorno, d’improvviso, la nostra insegnante di matematica non si presentò in classe. Era una persona molto brava e buona. Chiesi cos’era successo e mi fu risposto che, in quanto ebrea, (2) non poteva insegnare. Essendo io un tipo abbastanza impertinente, domandai all’insegnante di filosofia qual era il motivo di questa scelta ed egli mi rispose: “Nigris stia zitto, per carità!”. Questa, di fatto, fu la mia prima esperienza diretta con quello che è veramente stato il regime. E gli altri, i suoi compagni di scuola, la famiglia, il paese, come vivevano il rapporto con il fascismo? Si taceva. C’era la consapevolezza di vivere sotto un regime, senza però che ci fosse alcuna esplicitazione di ciò: semplicemente nessuno ne parlava. E riguardo all’antifascismo, circolavano solamente alcune canzonette. Questo accadeva per paura, adesione, indifferenza ...? Direi per una certa acquiescenza nei confronti di uno stato di cose presente da diversi anni. Soprattutto dopo la guerra d’Abissinia (3) il regime si era ormai consolidato. L’idea dell’Impero aveva riempito i polmoni, aveva dato motivi di speranza. Certo, c’erano anche delle critiche. Ad esempio, si seppe che l’esercito italiano aveva usato i gas. E questo non piaceva affatto.
La guerra in Etiopia era stata percepita come una guerra di agressione?
C’era piuttosto uno stato di preoccupazione. Non si avvertiva un’opposizione esplicita nei confronti del governo. La guerra era sentita per lo più come una pena, quasi senza coscienza, una cosa necessaria. Si sperava comunque che durasse poco. Anche i soldati più entusiasti pensavano di dover fare il loro dovere per un breve periodo. Le poche riflessioni critiche erano ancora molto superficiali. Ricordo, quando ancora mi trovavo a Sauris ad insegnare, che la gente si metteva ad ascoltare i comunicati radiofonici. L’unica radio era all’osteria e, al mattino presto, le donne ascoltavano le notizie, soprattutto quelle sui feriti e sui morti. Con il passare del tempo l’atmosfera si fece sempre più preoccupante. C’era molta perplessità, nonostante si sperasse che andasse bene per l’Italia, e soprattutto si confidava nell’esercito tedesco che si riteneva fosse il più forte al mondo. Ci racconta qualcosa della sua esperienza nella campagna di Russia? Come ho già detto, alcuni miei compagni partirono nell’agosto del ’42, mentre io nel gennaio del ’43. Fin dal principio la situazione fu indicativa dello stato d’animo dei soldati. Ricordo che quando ci imbarcammo a Gorizia suonarono prima l’inno reale e poi quello fascista. Fino all’inno reale ci fu silenzio, gli alpini ossequiosi. Quando invece eseguirono l’inno fascista si levò un urlo di protesta da parte della truppa. Cose inaudite. Ancora più grave quello che successe appena arrivammo a Udine. Gli alpini rimasero di nuovo in silenzio all’inno reale, ma quando attaccarono quello fascista, oltre alle grida di dissenso, dai treni partirono scariche di fucile, centinaia di colpi. Così la festa fu interrotta in fretta e furia e partimmo con i treni. Era un chiaro segno che iniziava a manifestarsi una protesta abbastanza robusta e diffusa. A causa di questo grave fatto seguirono delle inchieste per scoprire chi aveva sparato. Gli ufficiali furono anche obbligati a dormire nei vagoni con i soldati per controllarli, almeno fino al confine italiano. Prima di arrivare a destinazione, ricordo che nei pressi di Harkov (4) , verso le nove di sera, siamo stati bombardati da aerei russi. Il bombardamento durò tutta la notte. Non fu per niente piacevole. Il sistema ferroviario fu scardinato e noi rimanemmo bloccati. Il nostro reparto venne diviso in tre parti. Un vagone arrivò quando la ‘Julia’ era in combattimento; i nostri avevano solo il fucile e nessun’altra arma. Furono mandati così, al freddo, a battagliare con i Russi. Il secondo vagone, quando arrivò, neanche incontrò gli alpini, ma i Russi, che li aspettavano tranquilli con i carri armati. Scesero dai treni e furono immeditamente catturati e portati in Siberia. Il terzo gruppo, con il quale stavo io, attraversò tutta l’Ucraina, fino a Gomel (5), in parte a piedi e in parte in treno. Come sapete l’Armir (6) era assediato dall’esercito russo. La fascia di difesa italiana lungo il Don era stata insufficiente; quando cedettero i reparti a sud venne sfondata e quindi fu necessario ripiegare. Centinaia di migliaia di soldati italiani morirono nel modo più atroce, al gelo. C’era un freddo tale che il vino si tagliava a blocchi, il burro bisognava segarlo. Quando si sputava la saliva si congelava prima di arrivare al suolo. Ci furono anche 45 gradi sotto lo zero.
Come ha fatto la ritirata? In parte in treno, in parte in camion, ma soprattutto a piedi, abbastanza tranquillamente. Siamo arrivati vicino a Gomel. Ci trovavamo in un villaggio vicino a quello in cui c’erano gli altri della ‘Julia’, che raggiunsi qualche giorno dopo. C’erano circa 150 soldati, tra cui anche amici carissimi di Forni e di altri paesi della Carnia. Incontrai lì anche Mario Candotti, un amico fraterno, con il quale saremmo stati compagni durante la lotta partigiana. Dopo ci accorparono tutti in un gruppetto e fummo spediti in Italia in treno. Noi ufficiali fummo messi in quarantena a S. Candido, dove vennero a salutarci non i gerarchi ma le loro mogli. Per le alte sfere dell’esercito lo sfacelo della Russia era percepito come un’offesa profonda per il paese. Lì ho passato trenta giorni. In seguito, ritornai in caserma, dopo aver fatto un periodo di licenza e poi, per poco tempo, con gli altri pochi rimasti della ‘Julia’, fummo mandati a rastrellare i territori montuosi del Friuli orientale, a cacciare partigiani sloveni . Questo quando è stato? Nel mese di luglio del ’43, subito prima della caduta di Mussolini. I giorni successivi al 25 luglio come li avete vissuti? Ricordo che la notizia della caduta di Mussolini l’avvertimmo nella valle nei pressi di Caporetto. Ormai eravamo preparati. Tanta gente, già quand’ero in Russia, cantava Bandiera rossa a tutto spiano. Con alcuni compagni discutemmo sul da farsi e decidemmo di dividerci e di trovarci, dopo una certa data, in un paesino vicino a Udine e andare in giù. La prima idea fu di unirci agli Alleati. Ormai era chiaro che il fascismo era caduto. Quindi fu nel periodo fra il 25 luglio e l’8 settembre che lei decise da che parte schierarsi. Certo. Fu una scelta quasi ovvia. Anche se non si parlava ancora di partiti o di schieramenti. Quali furono le motivazioni che sostennero questa sua posizione? Intanto l’esperienza drammatica della guerra. Poi le contraddizioni del regime nella conduzione del conflitto, questo sfascio del paese che ormai si manifesteva in modo chiaro. E infine l’occupazione tedesca delle nostre zone: “A rivin i todescs”, si sentiva dire continuamente. Non ci fu quindi una motivazione di carattere ideologico, quanto piuttosto un’avversità nei confronti delle scelte concrete del regime riguardo alla conduzione della guerra. È così. La coscienza del fallimento era ormai piena e totale. E la situazione era tale che le sorti della guerra ci imponevano di compiere una scelta. Di preciso non sapevamo quale, ma naturalmente, siccome si era a caccia di partigiani, si sapeva della loro esistenza. Li avevamo visti morire. Come coniuga questo fatto di aver dato la caccia ai partigiani e, dopo alcuni mesi, essere diventato uno di loro? Quando si sta da una parte si deve obbedire. Anche se con molti dubbi. Ricordo che quando catturavamo dei partigiani venivano messi in piazza e la gente era chiamata a identificarli, ma nessuno parlava perchè spesso erano loro parenti, genitori, figli, mariti. E noi muti, come loro! Terribile! Dove si trovava l’8 settembre? Come visse quel momento? L’8 settembre eravamo a una cena nel goriziano. Quando venne fatta la comunicazione eravamo nella valle che porta in Slovenia e ci dirigemmo verso Caporetto. Ci fecero schierare a circa un chilometro dal paese per fermare i soldati che stavano tornando indietro. Erano disarmati, avevano lasciato tutto e tornavano a casa. E chi poteva fermarli? Noi, poveri diavoli come loro?! Dal quel momento vi siete sentiti sostanzialmente liberi? No, non proprio. Il codice militare era chiaro, si trattava di diserzione. Eravamo preoccupati, soprattutto noi ufficiali. La sera stessa dell’8 settembre stavamo aspettando ordini dai superiori e non sapevamo cosa fare. Molti soldati, ad esempio, in quell’occasione, furono consegnati ai tedeschi dai loro ufficiali. Non era facile decidere come comportarsi. E non avevamo direttive chiare. Poi, ad un certo punto, gli alpini dissero: “Scjampìn, anìn vie!”. Io non risposi nulla. Non potevo dare l’ordine di scioglimento, perché avrei rischiato l’arresto per abbandono del campo. La mia speranza era che i soldati se ne andassero senza che noi ufficiali dessimo l’ordine per non assumerci responsabilità. Così fu che “i reparti si sciolsero”. Noi graduati ce ne andammo solo dopo, quando ormai i soldati non c’erano più. Ricordo che quella sera, un caro amico, che poi sarebbe morto eroicamente durante la lotta partigiana, mi si avvicinò tutto preoccupato e mi chiese: “Noi, come ufficiali, come la mettiamo adesso? Se domani si ricostituirà il regime e ci chiederanno chi ci ha autorizzato, cosa diremo?”. Io, molto tranquillo, gli risposi: “Nessuno ce lo chiederà, perché si è sciolto tutto. Non ci chiederanno niente”. Io ne ero sicuro, ma questo scrupolo in alcuni c’è stato.
Quando prese la decisione di entrare nelle formazioni della Resistenza? Subito. L’adesione fu una scelta naturale, scontata. Anche perché alcuni contatti con i partigiani sloveni li avevamo già avuti. Dopo lo scioglimento delle nostre truppe erano venuti a chiederci le armi con grande simpatia e disponibilità. La lotta partigiana dove la fece? In Carnia. Dopo il ritorno a casa, vestiti gli abiti borghesi, decisi fin da subito di andare in montagna. Al mattino studiavo, visto che mi ero iscritto alla facoltà di Lettere all’Università di Padova, e nel pomeriggio mi mettevo in contatto con la rete dei partigiani. Ad Ampezzo c’erano diversi simpatizzanti: il medico, ad esempio, che era un comunista, e durante le visite distribuiva volantini, cosa per cui fu arrestato diverse volte. Avevamo rapporti con il gruppo di Preone e anche con quelli che risiedevano nelle montagne del pordenonese. Qual era il suo nome di battaglia e come lo scelse? Era ‘Marco’. Lo scelsi senza una motivazione precisa. Volevo un nome neutro che potesse passare inosservato. Perchè, considerato che non si ispirava all’ideologia comunista, scelse di entrare nella Garibaldi e non, per esempio, nella Osoppo? Perchè il nucleo di Preone con cui ero in contatto era un gruppo di garibaldini. Fu quindi un’adesione naturale, quasi casuale, più che una scelta nata da motivazioni ideologiche. In lei c’era un orientamento politico di qualche tipo? Non c’era bisogno di avere un orientamento politico. C’erano alcune idee comuni: l’indipendenza, battersi, essere onesti. C’era il sogno di una società libera, tanto libera che anche i comunisti si emanciparono di alcuni loro elementi ideologici. Pensiamo al dietrofront che fece anche Togliatti, (7) fu un capolavoro. Questo non vuol dire che tra gli osovani e i garibaldini non ci fossero delle differenze. C’era una guardinga posizione che nasceva quando si ipotizzava quali sarebbero stati i rapporti di forza nella politica del dopoguerra. È però importante sottolineare che certe revisioni storiche che vengono fatte oggi non corrispondono a realtà. Mi riferisco in particolare a quei politici che tacciano di comunista tutti coloro che hanno partecipato alla Resistenza. Questo è davvero inaccettabile.
Sicuramente a quel tempo lei avrà avuto delle speranze per un futuro diverso per l’Italia che stava uscendo dal Ventennio e dalla guerra. Quale tipo di società immaginava o idealizzava? Quella che avevamo cercato di costruire durante l’sperienza della ‘Repubblica libera della Carnia’: una società plurale, con i rappresentanti di tutte le parti politiche. Liberal-democratica? ‘Liberal-democratico’ è un concetto in parte ambiguo, non sa né di carne né di pesce, non indica niente di compiuto. Starebbe a significare una società un po’ liberale, un po’ socialista. Ma non troppo socialista, perché non ci sta molto bene. È un termine strano. Quindi? Pensavo ad una società libera. Diciamo di sinistra, se vogliamo darne una connotazione, perché ancora oggi dire di sinistra è dire di grande democrazia. Ad esempio, uno spirito democratico vorrebbe che oggi fosse già attuato il canone direttivo per la nuova Europa, e invece è fallito, per beghe di alcuni, per capricci e per incapacità di altri. L’Europa è già fatta, ma c’è sempre agitazione e si vogliono creare degli inciampi in questo sviluppo, in questa partenza per una nuova società. Quindi dire di sinistra è solo orientativo. Un termine adatto potrebbe semplicemente essere ‘democratica’. Possiamo quindi affermare che lei si riconosceva nello schieramento socialista? Certamente. Ma lo schieramento socialista è estremamente ampio. E infatti ancora oggi si esagera e si fraintende nel voler mettere insieme idealità e parole che si prestano ad ogni gioco. La ‘Repubblica libera della Carnia’, secondo lei, fu un modello di esperienza democratica. Allora, ad esempio, si pose per la prima volta in modo esplicito il problema del voto alle donne e del suffragio universale, ma non fu realizzato in modo pieno. Come mai? Quella della ‘Repubblica libera’, con il suo governo civile, fu un’esperienza che nessun altro in Italia riuscì ad eguagliare. (8) Il diritto di voto alle donne fu riconosciuto per la prima volta nella storia italiana, anche se solo in parte, cioè quando fossero state capifamiglia. Comunque fu un’apertura straordinaria per i tempi. Ricordo che prima delle elezioni delle ‘giunte popolari comunali’, giravo i paesi invitando le persone a sentirsi libere di votare secondo coscienza e a non subire le pressioni di questo o quel partito. Devo dire che furono veramente le prime elezioni libere della nostra storia.
Tuttavia, nonostante questa importante esperienza democratica, il ricordo che ancora oggi in Carnia rimane dei partigiani è spesso negativo o addirittura ostile. Per qual motivo? Per quanto mi riguarda, devo dire che la gente ci voleva bene, a me particolarmente. Mi hanno voluto sempre bene. Ero un tipo semplice, ero come loro: dormivo nelle loro case, ringraziavo sempre quando mi davano ospitalità. Tuttavia, l’organizzazione comportava degli obblighi, una disciplina, delle regole che dovevano essere osservate. Ricordo, ad esempio, il caso di un partigiano che si macchiò di fatti gravi e per questo venne fucilato. Certi errori non potevano essere passati sotto silenzio, ledevano qualcosa che non era di terra, qualcosa che riguardava il prestigio e l’immagine della Resistenza. In alcuni casi dovemmo allontanare dalle formazioni certi individui che non si comportavano correttamente. Poi la gente non sempre capisce che di lazzaroni ce ne sono sempre e da qualsiasi parte. In questi ultimi tempi si è tornato a parlare molto, sulla stampa e tra gli storici, delle violenze delle ultime fasi della guerra e dell’immediato dopoguerra. Si parla di migliaia di esecuzioni perpetrate nei confronti di sostenitori del regime fascista, di processi sommari, addirittura di ‘guerra civile’. Questi fatti accaddero anche in Carnia? No, che io sappia no. Forse ci furono alcuni casi negli ultimi momenti prima della liberazione nei confronti di persone sospettate di essere spie dei tedeschi. Lo spionaggio veniva punito duramente. Ma accadde quando la guerra era ancora in corso. In tali situazioni è purtroppo normale che succedano fatti del genere, e le pene, di solito, sono molto dure, anche perché non ci sono altri mezzi.
A complicare le cose ci fu anche la presenza cosacca, che diede molti problemi sia di tipo militare sia per l’occupazione dei paesi. Come fu la convivenza con quel popolo che veniva dalle lontane regioni del Caucaso? Pensate che a casa mia vivevano 27 cosacchi. Era un’abitazione molto grande e vi si erano sistemati donne e bambini. Era gente molto buona, che pregava molto, pietosa. Ricordo un fatto molto commovente. Durante la loro presenza qui, uno dei bambini era morto e mia madre ne fu così colpita che, anche dopo la guerra, quando ne parlava, le scendevano le lacrime. La mia famiglia ha avuto buoni rapporti con i cosacchi. Erano molto religiosi, andavano spesso in cimitero, facevano funzioni, preghiere comuni, balli. Durante gli ultimi giorni della guerra tornai a casa per salutare mia madre. Mi ricordo che le dissi: “Viodìn cemût ch’al è di sore...”, perché ero solito andare a studiare nell’appartamento in cima alla casa e volevo assicurarmi che fosse ancora in buono stato. Lei mi rispose: “Nol è nuie lassù!”, ma io insistetti per vedere le mia stanza. “No sta fâi nuie”, disse, “al è un frut!”. Aveva nascosto un ragazzino cosacco, che appena mi vide si mise a tremare. Mia madre si era molto affezionata a lui e non volle denunciarlo. Lo tenemmo con noi per un certo tempo e in seguito lo affidammo ad un’altra famiglia del paese. Poi non so bene che fine abbia fatto, dev’essere andato all’estero. Questo fatto è emblematico per comprendere il rapporto che si era creato, soprattutto tra le donne carniche e quelle cosacche. Un rapporto molto umano. Eppure di queste esperienze non è rimasto molto nei libri di testo scolastici e forse molto poco anche nella memoria collettiva, così come delle motivazioni che guidavano voi partigiani. A me sembra che nel periodo successivo alla guerra si è fatto il possibile perché la Resistenza non fosse conosciuta. E ciò è avvenuto soprattutto nella scuola. In quanto insegnante, posso dire che gli unici a parlarne furono le persone di sinistra o quelle direttamente coinvolte nella Resistenza. Io ne parlavo sempre con i miei studenti, ma il programma scolastico di storia non arrivava mai fino a quel momento. C’era tempo per tutto, ma per la Resistenza no, si finiva sempre con la prima guerra mondiale. Perchè, secondo lei? Perchè era bene tenere i giovani nell’ignoranza. Direi che è stato frutto di una scelta. Sarebbe stato sufficiente imporre che i programmi di storia arrivassero fino alla seconda guerra mondiale. Ma nessuno ha mai realmente spinto verso questa semplice scelta didattica. O meglio, è avvenuto solo alcuni anni fa. Così, due generazioni non sanno nulla della Resistenza o, se la sanno, è in termini scandalistici, come quando dicevano che i partigiani avevano ucciso 100.000 persone e venivano dipinti come dei mostri. Poi, dalle ricerche storiche è risultato ben altro! Vuol dire che la società nata dal 1948 non fu poi così ‘liberale’? Non direi questo. Alcune cose le abbiamo seminate. Il fatto che voi siate qui sta a significare che la libertà è una cosa contagiosa. Dove non si parla di libertà, la libertà muore. Bisogna lottare, pregare, parlare franco. Allora ci si fa liberi, bisogna farsi liberi, anche se non è facile. Quante volte anche noi ci lasciammo prendere dall’ira, dai risentimenti. Poi, sapete, finché si gioca con le parole tutto va bene, ma al di là di queste no. Se dovesse lasciare un pensiero ai giovani d’oggi, cosa direbbe? Fare sempre qualcosa che sia buono nei confronti degli altri e, se si può, cercare di aiutare tutti ed essere pazienti. Bisogna essere serenamente disponibili alla bontà, tentare di essere buoni. Mi piace la gente, ma non mi piace vederla patire. Quando vedo gente che soffre, che ha fame e non viene aiutata, mi dolgo per questo, perchè io, come voi, ho ricevuto molto aiuto dagli altri. Aiutarsi come bisogno di essere con gli altri come fratelli. NOTE (1)
Mediis: frazione di Socchieve. |