Scioperi antifascisti


Le prime lotte del 1942

Durante il regime fascista gli scioperi, naturalmente, erano assolutamente vietati, ma con lo scoppio della guerra le condizioni di vita dei lavoratori e in generale della popolazione erano sensibilmente peggiorate, soprattutto a causa dell'aumento dei prezzi, e ciò provocò un profondo malcontento, che progressivamente portò a veri e propri momenti di protesta.

Il primo sciopero - dopo molti anni - si ebbe a Carbonia, il 2 maggio 1942: la Carbosarda, approfittando del fatto di essere un'azienda militarizzata, aveva notevolmente aumentato i ritmi di lavoro, e i lavoratori si trovarono anche a dover far fronte all'impennata dei prezzi alimentari e degli affitti: militanti del PCI clandestino svolsero un'intensa attività di denuncia - così come stava avvenendo in numerose fabbriche italiane - e riuscirono ad organizzare la mobilitazione operaia.

Nel dopoguerra da più parti si è accusato il PCI di un atteggiamento "proprietario" nei confronti della Resistenza, quasi che i comunisti volessero apparire come gli unici protagonisti della lotta di liberazione; ci sono certamente stati atti di settarismo da parte del PCI, ma complessivamente la sinistra ha sempre cercato di mantenere una visione unitaria e patriottica.
In ogni caso è fuori di dubbio che il PCI svolse un ruolo decisivo, perchè, a differenza degli altri partiti messi fuori legge, seppe darsi una robusta rete clandestina e non cessò mai, anche nei momenti di più dura repressione, di lavorare fra la gente. E questa presenza non solo diede l'avvio alle prime lotte contro il carovita ma seppe dare loro un significato sempre più politico.
Per la ripresa delle lotte, e la loro prosecuzione fino alla vittoria, un ruolo molto importante fu svolto dalla stampa antifascista: l'Unità, soprattutto, e poi i quotidiani liberati dall'obbedienza al regime, i periodici politici e quelli delle formazioni partigiane.

Il 26 maggio 1942 a Sesto San Giovanni, alcune centinaia di donne manifestarono per chiedere la distribuzione degli alimenti, protestare contro la scarsità del cibo e l'inflazione devastante: le organizzatrici vennero fermate e portate nelle carceri di Milano. Sempre a Sesto, nella settimana di Natale alla Ercole Marelli il Comitato per la pace e la libertà diffuse dei volantini per la mobilitazione contro la guerra che trovarono il consenso di molti operai.


Gli scioperi del marzo 1943

Nel 1943 la FIAT contava oltre 20mila addetti, e anche qui un agguerrito nucleo di militanti comunisti - circa 200 - fu il motore di un movimento che presto assunse caratteri di massa.

Gli scioperi incominciarono il 5 marzo 1943 e si diffusero in tutto il triangolo industriale, anche col contributo attivo di militanti socialisti, anarchici e del Partito d'Azione; tant'è che nelle prime settimane del 1943 si era costituito a Milano l'embrione del Comitato di Liberazione Nazionale.
La stampa clandestina, e in particolare l'Unità, svolse un ruolo molto importante nel diffondere le parole d'ordine antifasciste, e complessivamente furono oltre 100.000 i lavoratori che parteciparono alle lotte.
La prima fabbrica nell'area milanese che incominciò a scioperare fu, 22 marzo, il reparto bulloneria della Falck, e quando intervenne un gruppo di fascisti per riportare l'ordine gli operai reagirono duramente.
Tra il 25 e il 30 marzo ci furono scioperi sia nelle fabbriche minori dell'hinterland milanese sia soprattutto nelle grandi fabbriche: Breda, Pirelli, Ercole Marelli, Broggi, Magneti Marelli, Magnaghi, Isotta Fraschini, Borletti, Face, Caproni, Motomeccanica, OLAP e TIBB. Al Cotonificio Dell'Acqua di Legnano intervenne Tullio Cianetti, sottosegretario del Ministero delle corporazioni, che inutilmente cercò di sedare la protesta: fu preso a sassate dopo aver minacciato le operaie.
Alla Borletti le operaie della spoletteria zittirono Eduardo Malusardi, gerarca del sindacato fascista milanese, che era accorso con tre camion di poliziotti per reprimere le dimostrazioni.
Nel milanese vennero arrestati 50 scioperanti che furono processati dal Tribunale militare territoriale di Milano e liberati nell'agosto del 1943 dopo la caduta del regime; alcuni dirigenti antifascisti vennero arrestati e deportatati nei lager; morì a causa delle torture dell'OVRA Luigi Tavecchio nel carcere di San Vittore; l'organizzatrice degli scioperi e partigiana Gina Galeotti Bianchi venne uccisa dai tedeschi il giorno della liberazione nei pressi del Niguarda.

Gli scioperi furono al centro della riunione del direttorio del Partito Nazionale Fascista a Palazzo Venezia: Mussolini decise di rimuovere Carlo Scorza dalla guida del Partito e sostituì il Capo della Polizia, avendo constatatoil l'incapacità del partito e delle autorità di capire quanto stava per succedere.

 

 

Scioperi del marzo '44

ll 1° marzo 1944 i lavoratori delle fabbriche delle regioni italiane ancora sotto il controllo di tedeschi e fascisti scendono in sciopero: per una settimana la grande industria italiana si ferma e così la produzione per la Germania.

Epicentri del grande movimento di lotta sono Torino e Milano, dove gli operai vivono ormai in condizioni di estrema precarietà e sono perennemente sottoposti alla minaccia - che per molti di loro diventa realtà - della deportazione. In Piemonte, soprattutto a Torino, entrano in sciopero i lavoratori della FIAT, di tutte le aziende collegate e di molte altre, mentre in Lombardia quelli dell'Alfa Romeo, della Breda, della Ercole Marelli, della Falck, della Innocenti, della Isotta Fraschini, della Dalmine e di altre.
Alla protesta partecipano anche gli operai toscani delle Officine Galileo e della Pignone, e in Emilia Romagna quelli delle Officine Meccaniche Reggiane e della Ducati. A Genova, che dovrebbe essere un altro degli epicentri dello sciopero, l'agitazione invece riesce solo parzialmente. 

Negli stabilimenti che partecipano alla protesta operano varie strutture clandestine: CLN aziendali, Gruppi di difesa della donna, SAP.

A Torino, dove le proteste post-armistiziali sono iniziate nel novembre e proseguite nel dicembre 1943, e poi nei mesi di gennaio e febbraio 1944, lo sciopero generale scatta nonostante le “ferie” imposte dalle autorità di governo piemontesi il 29 febbraio.
Il 1° marzo, con tutte le fabbriche ferme, il capo della provincia, Paolo Zerbino, ordina la ripresa del lavoro, minacciando la chiusura degli stabilimenti, con conseguente perdita delle retribuzioni, arresti e deportazioni, licenziamenti e annullamento dell'esonero per i lavoratori che hanno l'obbligo del servizio militare. Ciononostante lo sciopero continua, coinvolgendo anche le maestranze di stabilimenti minori, almeno fino al 6 marzo. Le formazioni partigiane delle valli vi partecipano interrompendo alcune linee di collegamento. La conclusione definitiva dello sciopero, stabilita dal comitato di agitazione interregionale, avviene l'8 marzo, quando il lavoro riprende. 

Anche a Milano e in tutta la sua area industriale - già interessata da settimane di proteste nel dicembre 1943 e gennaio 1944 - lo sciopero assume subito un carattere generale. Accanto agli operai delle fabbriche, si fermano dal 2 al 4 marzo i tranvieri, che paralizzano il trasporto pubblico della città. In Lombardia si calcolano in totale circa 350.000 scioperanti (cfr. P. Secchia - F. Frassati, Storia della Resistenza. La guerra di Liberazione in Italia 1943-1945, Ed. Riuniti, 1965, vol. I, p. 475).


La repressione è molto dura: minacce di morte, arresti, deportazioni: sono più di cento gli operai della FIAT finiti in Germania, quattordici quelli della Innocenti (dodici non torneranno), undici quelli della Ercole Marelli (tre non torneranno) - ma l'organizzazione dello sciopero riceve il sostegno del CLNAI e alle rivendicazioni economiche si affiancano subito anche quelle politiche, contro la guerra e l'occupazione nazifascista. 

Quello del marzo 1944 è il primo e solo grande sciopero generale avvenuto nell'Europa occupata dal nazifascismo: l'elemento della lotta operaia e di classe si affianca a quello della lotta partigiana, e ciò determina una delle specificità principali della Resistenza italiana nel contesto di quella europea. 

 

Le rivendicazioni degli scioperanti sono sì di carattere economico, ma hanno un forte significato politico poiché l'insubordinazione contro l'occupante tedesco ed il suo alleato fascista si collegava direttamente alla lotta armata. L'obiettivo immediato delle lotte è la cessazione delle deportazioni di manodopera e dei trasferimenti di macchinari e impianti in Germania; attraverso tali rivendicazioni si punta a sospendere o ridurre al minimo la produzione di guerra. Oltre a ciò, si chiede il blocco dei prezzi dei generi alimentari, l'aumento dei salari e delle razioni, il pagamento delle gratifiche già concesse.

Nonostante gli scarsi risultati materiali, gli scioperi sono un segnale inequivocabile per la RSI e gli occupanti nazisti. Essi rappresentano uno spartiacque, a partire […] da una contraddizione di fondo: le agitazioni operaie risultano un grande successo sul piano organizzativo e politico poiché la mobilitazione operaia appare senza precedenti e trova un sostegno uniforme da parte di tutte le forze del Cln; nondimeno il suo sviluppo è incerto e i risultati limitati in quanto le rivendicazioni avanzate si concretizzano in modo assai parziale (B. Maida, Scioperi, in Dizionario della Resistenza, Einaudi, 2000).

Pietro Secchia

Gli scioperi del marzo 1943


Quegli scioperi scoppiati non a caso il 5 marzo 1943 segnarono una svolta decisiva nella lotta contro il fascismo che accusò il colp , furono la scesa in campo della classe operaia in modo possente e decisivo. Poiché, se è vero che durante il ventennio fascista non erano mancati scioperi, fermate di lavoro, agitazioni, si era sempre trattato di movimenti locali e parziali riguardanti alcune fabbriche, ora in questa, ora in quest'altra città. Essi ferivano la «legalità» fascista, ma non riuscirono mai a spezzarla, come la spezzarono gli scioperi del marzo 1943.

Senza sottovalutare il duro, lungo, difficile lavoro di chi li aveva organizzati (2), non si possono vedere quegli scioperi al di fuori del quadro degli sviluppi della situazione internazionale, delle battaglie sui vari fronti e delle loro ripercussioni in Italia.

Non si può ignorare o dimenticare che la vittoria definitiva di Stalingrado porta la data del 2 febbraio 1943 e che un mese dopo scoppiano gli scioperi di Torino e di Milano. Lo riconobbe perfino Mussolini che, nel suo discorso al Direttorio fascista riunito il 17 aprile, disse:

«Quanto è accaduto è sommamente deplorevole. Questo episodio sommamente antipatico [si riferisce agli scioperi di Torino e Milano] che ci ha fatto ripiombare di colpo vent'anni addietro, bisogna inquadrarlo nell'insieme della situazione internazionale e cioè nel fatto che l'avanzata dei russi pareva ormai irresistibile e che quindi il "baffone" (così è chiamato negli ambienti operai Stalin) sarebbe arrivato presto a "liberare" l'Italia». (3)

L'«Unità» del 31 gennaio 1943 portava a piena pagina il titolo: « Le grandi vittorie dell'Esercito Rosso avvicinano il momento del crollo hitlero-fascista». E l'«Unità» del 20 febbraio, sempre in prima pagina, titolava: «L'Esercito Rosso lottando per la liberazione dell'URSS lotta per la libertà di tutti i popoli oppressi». L'articolo di fondo incita «tutti a partecipare al Fronte Nazionale d'Azione per muovere all'attacco e organizzare senza indugio la lotta aperta contro il fascismo». Infine l'«Unità" del 28 febbraio (cinque giorni prima dello scoppio degli scioperi di Torino) porta sull'intera pagina il titolo: «Commemoriamo il XXV anniversario dell'Esercito Rosso iniziando in Italia la lotta armata per la pace e la libertà».

I primi mesi del 1943 segnarono per l'Italia l'ora della riscossa. Dopo le vittorie dell'Esercito Rosso sul Fronte Orientale, la distruzione dell'Armir, i successi delle armate anglo-americane in Tunisia, le menzogne della stampa fascista non riuscivano più a celare la realtà agli italiani. La resa dei conti per Mussolini e i suoi complici si avvicinava.

L'inizio dei possenti bombardamenti della Raf su numerose città e centri vitali del nostro paese faceva pesare più direttamente su tutta la popolazione gli orrori della guerra e toccare con mano la dura realtà della disastrosa e infame politica del fascismo. Il bagliore degli incendi illuminava tragicamente le notti delle nostre città bombardate (il fascismo non aveva potuto predisporre neppure una efficace difesa e un adeguato sfollamento delle popolazioni). Ogni giorno aumentava la fuga dalle organizzazioni fasciste: dal 28 ottobre 1942 all'11 marzo 1943 oltre due milioni di italiani (secondo i dati ufficiali) non avevano rinnovato la tessera del partito fascista, gli iscritti alla Gioventù del Littorio erano scesi da nove milioni a quattro milioni, le iscritte ai fasci femminili da oltre un milione a 350 mila, e così via.

Questa fuga in massa di coloro che volenti o nolenti erano stati irreggimentati nelle organizzazioni fasciste indicava chiaramente che gli italiani aprivano gli occhi, non avevano più paura, e che il terrore dell'Ovra non riusciva più a contenere la ribellione. La caldaia era in ebollizione.

Le leggi sulla mobilitazione civile e sulla militarizzazione degli operai che sottoponevano i lavoratori a uno sfruttamento bestiale, il carovita in continuo aumento e i bombardamenti che talvolta colpivano le officine erano tutti elementi i quali, aggravando la situazione, creavano facile terreno a organizzare quelle lotte e quegli scioperi che malgrado l'impegno e gli sforzi non si erano potuti organizzare prima.

Infatti, se fin dal giugno 1941 Palmiro Togliatti con i suoi appelli quotidiani da radio Mosca aveva indicato agli italiani la via da seguire, incitandoli alla ribellione, agli scioperi e alla lotta; se fin dai primi mesi del 1942 lanciava appelli alla lotta armata e alla guerriglia partigiana, è soltanto nel marzo 1943 che scoppiarono i grandi scioperi di Torino e di Milano.

L'epica battaglia di Stalingrado, conclusasi il 2 febbraio alle ore 16 con la completa distruzione della VI Armata tedesca e con la capitolazione di Von Paulus, non fu soltanto, come tutti gli storici riconoscono, la più grande battaglia della Seconda guerra mondiale, ma mutò le sorti stesse del conflitto, fu il segnale decisivo che percorse da un capo all'altro l'Europa.

Il 5 marzo gli operai della FIAT, guidati dai loro comitati segreti, iniziarono lo sciopero. La notizia si diffuse con la velocità del fulmine in tutti gli altri stabilimenti della città e della regione. Nei giorni successivi lo sciopero si allargò ad altre fabbriche. Al sesto giorno Mussolini, nell'impossibilità di piegare la decisa volontà dei lavoratori e degli antifascisti, cercò di far soffocare il movimento con la violenza. Fu come buttare benzina sul fuoco. Dal 16 marzo ai primi di aprile lo sciopero si estese rapidamente a tutti i centri principali del Piemonte, ad Asti e nel Biellese (4), a Milano e in Lombardia, minacciando di dilagare negli stabilimenti della Liguria, della Venezia Giulia e dell'Emilia.

Le celebrazioni degli scioperi di Torino e di Milano del marzo 1943 segnano dunque a buon motivo l'inizio del trentennale della Resistenza anche perché indicano che quando gli operai scendono in campo uniti, la loro lotta acquista un peso decisivo. Se gli scioperi di Torino e di Milano (organizzati dai comunisti, ma vi parteciparono operai di ogni corrente politica e senza partito, lavoratori anziani e giovani delle nuove generazioni cresciute negli anni del fascismo) non furono decisivi per l'abbattimento immediato del regime, gli assestarono un durissimo colpo; essi furono una di quelle «spallate», come si dice, con le quali si mutano le situazioni. Ebbero i loro limiti, perché quegli scioperi non andarono oltre Torino, Milano e alcune località del Piemonte e della Lombardia: perché forte fu la repressione seguitane (oltre 900 gli arrestati) e perché, come ha scritto Roberto Battaglia:

«Nel resto d'Italia manca ancora la possibilità di organizzare le masse popolari nell'urto decisivo, infinitamente minore è il peso della classe operaia, i gruppi antifascisti agiscono ancora in superficie e non in profondità. Tanto che si può affermare che già agli albori della Resistenza, si riveli in tutta la sua gravità il problema storico del dislivello e dello squilibrio tra le due Italie». (5)

Tuttavia non se ne può sottovalutare l'importanza ed è giusto considerarli come l'inizio della Resistenza, anche se a quegli scioperi seguì una «stasi» e fu chiaro che, per abbattere il fascismo, occorreva allargare l'unità ad altre forze politiche, occorreva che altri si muovessero.


NOTE:

1) Scriveva Farinacci a Mussolini nell'aprile 1943: «Ho vissuto, stando naturalmente nell'ombra, le manifestazioni degli operai di Milano. Ne sono rimasto profondamente amareggiato come fascista e come italiano. Non siamo stati capaci né di prevenire né di reprimere ed abbiamo infranto il principio di autorità del nostro regime. [...] Se ti dicono che il movimento ha assunto un aspetto esclusivamente economico, ti dicono una menzogna. Il contegno degli operai di Abiategrasso di fronte a Cianetti è eloquente, come è eloquente la fioritura del manifestini stampati alla macchia che danno alle manifestazioni un carattere deliberatamente e preordinatamente antifascista.

[...] Bisogna correre ai ripari e imporre agli organizzatori, del centro e della periferia di vivere non già nei grandi e meno grandi loro ministeri fra segretari e dattilografe ecc.. ma a contatto con le masse. [...] Il partito è assente e impotente. Ora avviene l'inverosimile. Dovunque, nei tram, nei caffè, nei teatri, nei cinematografi, nei rifugi, nei treni, si critica e si inveisce contro il regime e si denigra non più questo o quel gerarca, ma addirittura il Duce. E la cosa gravissima è che nessuno più insorge. Anche le questure rimangono assenti, come se l'opera loro fosse ormai inutile». Archivio Centrale di Stato. Collezione Farinacci a Mussolini, riportato in parte da F. W. Deakin in Storia della Repubblica di Salò, Torino 1963. pag. 228

A proposito di questure e polizia ormai assenti, scrive Guido Leto, il capo dell'Ovra: «Ma com'era possibile usare maniere forti quando tutto crollava intorno? La polizia non era affatto collusa né col nemico né con l'antifascismo; faceva come sempre il suo dovere, ma non si estraneava dalla realtà vivente del paese». Da G. Leto: Ovra, Fascismo e antifascismo, Bologna 1951, pag. 248

Umberto Massola, Marzo 1943 ore dieci, Edizioni di cultura Sociale, Roma, 1950; Giorgio Vaccarino, Il movimento operaio a Torino nei primi mesi della crisi italiana, Ist. Nazionale Storia Movim. Liberaz., Milano 1953; Raimondo Luraghi, Il movimento operaio torinese durante la Resistenza, Torino 1958.

Tra gli organizzatori degli scioperi di Milano vi furono Giuseppe Gaeta, Pietro Francini, Felice Cassani, Ettore Gobbi, Cocchi, Marzorati, Migliorini, Facchetti, Cremonesi, Virgilio Seveso, Luigi Spinelli, Angelo Leris, Tavecchia, Martinini, Attilio Bietoli, Giosuè Casati e altri ancora.

F. W. Deakin in Storia della Repubblica di Salò, Torino 1963

4) Nel Biellese gli organizzatori degli scioperi che scoppiarono dal 29 marzo al 6 aprile furono Guido Sola, Benvenuto Santus, Mario Graziola, Pasquale Finotto, Edovilio Caccia, Domenico Bricarello, Alba Spina, Amalia Campagnolo, Mario Mainelli, Libero Coppo, Anna Pavignano, Ergenite Gili, Annibale Caneparo, Marco Ferrarone, Leonardo Cerruti, Oscar Meinardi, Giuseppe Maroino, Remo Pella, Corrado Boschetti, Imero Zona, Lorenzo Bianchetto, Ercole Ozino, Giovanni Pastore, Aurelio Bussi, Carlo Bertolini e altri ancora.

5) Roberto Battaglia, Storia della Resistenza Italiana, Torino, pag. 52

da Lotta antifascista e giovani generazioni, La Pietra, 1973

Umberto Massola

Gli scioperi del '43

Negli ultimi giorni del mese di aprile 1942, un gruppo di operai antifascisti della FIAT Mirafiori di Torino, in occasione del prossimo 1° maggio, decideva di offrire alla causa delle Nazioni Unite un primo grande e concreto aiuto. Dopo qualche giorno infatti alla FIAT Mirafiori un deposito pieno di caucciù, destinato alla produzione di guerra, veniva distrutto dalle fiamme.

I fascisti non fecero parola nei loro giornali di questa azione di sabotaggio. Ma la notizia si diffuse ugualmente. Ci pensarono a divulgarla i 16 mila operai della FIAT, e la popolazione torinese che aveva visto le fiamme innalzarsi al disopra dei recinti della fabbrica. L’organo dei comunisti torinesi, Il Grido di Spartaco portò la notizia fuori Torino, nel Piemonte, a Milano, nella Lombardia e altrove. I bagliori dell’incendio non erano ancora spenti che migliaia di operai occupati nella produzione di guerra, a Torino e Milano, si ponevano il compito di imitare l’esempio dei loro fratelli. Si sviluppò così un vasto movimento per la ricerca, la diffusione e l’applicazione di svariate forme e mezzi atti a ritardare, sabotare o distruggere la produzione bellica. Gli operai andavano a gara nel trasmettersi reciprocamente le proprie esperienze. Un gruppo di operai, della Grandi Motori di Torino, per esempio, comunicò a un gruppo di operai della Motomeccanica di Milano, che per “grippare” le bronzine senza lasciar traccia, in luogo del classico granellino di sabbia, era meglio utilizzare la tintura di iodio. Mentre si sviluppava questo movimento l’operaio nelle fabbriche cominciava a sentirsi meno solo, meno isolato, più fiducioso, più solidale verso i suoi compagni di lavoro. La classe operaia si riorganizzava, riprendeva fiducia nelle sue forze, si preparava a passare a forme di lotta più imponenti, agli scioperi, alle manifestazioni di strada, ponendosi così alla testa di tutto il popolo.

Da quando Mussolini aveva gettato l’Italia contro gli altri popoli, in Africa e in Europa e, in ultimo, contro l’Unione Sovietica, il Governo fascista non aveva cessato all’interno del Paese di prendere una serie di misure destinate ad alimentare, in mezzi e uomini, la sua guerra criminale, aggravando sempre più le condizioni già difficili delle masse lavoratrici. Dopo oltre due anni di guerra, i salari e gli stipendi continuavano ad essere bloccati, mentre i prezzi dei generi di vario consumo aumentavano del 100%.


Si pesano gli operai torinesi

La razione-base del pane, della carne e dei grassi, benché fosse già insufficiente, subiva continue diminuzioni fino a raggiungere il più basso livello a confronto di tutti gli altri Paesi.



Nel mese di luglio 1942, i gerarchi fascisti stabilirono di far pesare gli operai di alcuni stabilimenti di Torino. Speravano di poter ottenere con i risultati di questa inchiesta, la possibilità di ridurre maggiormente il tenore di vita delle masse e nello stesso tempo di aumentare la quantità di derrate alimentari da inviare in Germania.

Alla Grandi Motori - stabilimento di 4 mila operai - l’iniziativa dei gerarchi fascisti rivelò che la maggioranza della maestranza nel corso della guerra aveva subito gravi perdite di peso. Risultava infatti che la perdita di peso di ogni operaio si aggirava dai 5 ai 14 chili: “operai che misuravano metri 1 e 70 ed oltre di altezza pesano soltanto 53-55 chili. La percentuale degli operai ammalati è in continuo aumento”, riferiva l’operaia C. nel luglio 1942. […]

Già verso la fine del mese di maggio 1942, in una fabbrica di Asti, gli operai si mettevano in agitazione e strappavano un aumento di paga di 3 lire al giorno. A partire dal mese di agosto gli scioperi e le manifestazioni di strada si affermarono con forza e continuità di sviluppo nel nostro Paese. Da agosto alla fine dell’anno, cioè in cinque mesi, si scatenarono dieci scioperi: alla Tedeschi e alla FIAT Mirafiori di Torino, all’Alfa Romeo, ILVA, Caproni, Isotta Fraschini e per tre volte alla Falk di Milano, alla Scari di Modena; e due manifestazioni di strada: a Grugliasco e a Melegnano. Risonanza notevole ebbe la sospensione del lavoro nel reparto aviazione della FIAT Mirafiori. Questo sciopero, indetto in occasione dell’introduzione della nuova lavorazione dei motori per gli Stukas, impedì una diminuzione del salario. Era la prima volta dopo tanti anni che gli operai di questo stabilimento si mettevano in sciopero. Con l’impedire la diminuzione del loro salario e paralizzando per 24 ore la produzione bellica di Hitler, come già in occasione del 1° maggio, essi servirono d’esempio ai lavoratori torinesi.

Nei primi due mesi del 1943, gennaio e febbraio, si scatenavano 11 grandi scioperi: alle Ferriere, SPA, FIAT Mirafiori, FIAT Lingotto e alla Diatto di Torino. Alla Caproni e alla Falk di Milano, alla Vai Assauto di Asti, alla Saffa in Toscana, in una fabbrica tessile nel Biellese e in una fabbrica di salumi a Fossano; una manifestazione di strada a Torino e una a Piacenza.

La media degli scioperi nell’anno precedente era di due per mese; nei primi due mesi del ’43 divenne di 5,5. Mentre durante gli scioperi degli ultimi cinque mesi del 1942, gli operai di fronte alla reazione fascista sovente si piegavano e cedevano, nel corso degli scioperi dei primi due mesi del 1943, essi dimostrarono maggiore esperienza, più decisione e minore arrendevolezza alle minacce e alle persecuzioni. […]

5 marzo 1943: Torino incrocia le braccia; 8 marzo: si muovono le donne

Dovevano essere gli operai della FIAT Mirafiori a dare il segnale del grande sciopero del marzo-aprile. Il 20 febbraio l’operaio L. riceveva direttive per scatenare lo sciopero. Le difficoltà per ottenere l’astensione totale dal lavoro da parte della maestranza sembravano insuperabili. In alcuni reparti dello stabilimento, oltre l’80% degli operai, provenendo dalla provincia, integrava il salario con lavori in campagna e sentivano meno i disagi alimentari. L’operaio L. e l’organizzazione, si mettevano subito al lavoro, in pochi giorni stampigliavano e diffondevano, in tutti gli stabilimenti e strade della città, migliaia e migliaia di manifestini minuscoli, composti di poche parole: “Per il pane, la pace e la libertà! W lo sciopero”.


La mattina del 5 marzo alla FIAT Mirafiori gli operai stavano in attesa del segnale-prova-d’allarme delle ore 10 per iniziare l’agitazione. La Direzione dello stabilimento, preavvisata, dava ordine di non azionare il segnale. Nei reparti gli operai avevano “l’aria” di attendere qualche cosa. Le ore 10 erano già trascorse e il segnale non suonava. Gli operai cominciarono ad alzare la testa, guardavano i loro orologi, comprendevano l’inganno, e tutti assieme smettevano di lavorare. Si iniziava lo sciopero. In tutti i reparti il lavoro cessava e la maestranza si raggruppava. Accorrevano in fretta e furia i “pezzi grossi”: “Che succede? Che cosa volete?” e gli operai decisi e compatti rispondevano: “Vogliamo che le 192 ore siano pagate a tutti! Vogliamo il caro-vita! Vogliamo vivere in pace!”.

Oramai a Torino e dintorni ogni giorno alle ore 10 erano sempre più numerose le fabbriche, che sull’esempio della FIAT Mirafiori, arrestavano il lavoro. In poco più di una settimana i 100mila operai, della FIAT Mirafiori, della Westinghouse, della Nebiolo, Officine Savigliano, Ferriere Piemontesi, Microtecnica, Pirotecnica, Aeronautica, Riv, ecc. presero parte allo sciopero.

L’8 marzo si distinsero due manifestazioni fra tante che ce ne furono. In una gli operai dell’Aeronautica di Corso Italia, chiusi a chiave nei loro reparti per aver iniziato lo sciopero, sfondavano le porte e si portavano in massa a reclamare di fronte alla Direzione. L’altra manifestazione si svolgeva in occasione della Giornata Internazionale della donna: migliaia e migliaia di donne, convocate alcuni giorni prima con un manifestino, si recavano in piazza Castello a protestare contro la guerra e per la pace.

Uomini e donne che il fascismo credeva aver ridotto a un branco di idioti affermavano così la loro volontà di pace e il loro diritto alla vita.

Nella giornata dell’11 marzo gli operai della Riv in via Nizza scatenavano lo sciopero. Mussolini ordinava di far intervenire i carabinieri e le guardie metropolitane per reprimerlo. “Ti ordino di lavorare!” - gridava il capo a un operaio. “Date le 192 ore e il caro-vita!” gli veniva risposto. Lo sciopero iniziato alle ore 10 continuò nel pomeriggio. Gli operai e le operaie abbandonarono i loro reparti e seguitarono nel cortile dello stabilimento a manifestare. I gerarchi inviati dai sindacati fascisti, furono accolti da urli e da fischi e da grida: “Vogliamo il pane e la pace”. Alle ore 15 intervenivano i carabinieri e i metropolitani, i quali tentavano di percuotere e di arrestare alcuni manifestanti. Ma le operaie si mettevano a gridare: “Pane! Pace! Pane! Pace!” e gettandosi in avanti strappavano a viva forza dalle mani delle guardie i loro compagni di lavoro.

 

Al sesto giorno di sciopero, Mussolini, vedendo l’impossibilità di piegare la ferma decisione degli operai, non potendo rompere il solido legame che nella lotta univa i lavoratori di ogni tendenza politica e fede religiosa, non volendo far nessuna concessione alle giuste richieste delle maestranze, tentava, facendo intervenire la sbirraglia, di soffocare il movimento. Ma non ci riusciva.

In tutti gli operai e in tutti i ceti cittadini gli scioperi di Torino sollevavano grandi ondate di simpatie e di speranze: essi avevano l’appoggio di tutta la nazione che voleva farla finita con la guerra. Solo Mussolini e i gerarchi fascisti erano furibondi e si preparavano alle repressioni più feroci contro i coraggiosi lavoratori torinesi. In una tale situazione, urgeva sviluppare un vasto movimento per appoggiare lo sciopero di Torino, occorreva estendere l’agitazione agli altri centri industriali del Paese per costringere il governo fascista a cedere. Il comitato operaio creato a Torino per dirigere lo sciopero, la sera del 12 marzo lanciava un manifestino ai lavoratori della città e provincia per invitarli a proseguire e ad estendere il movimento e inviava un compagno a Milano per sollecitare l’intervento di quelle masse operaie.

E ora tocca a Milano

Il 14 marzo a Milano si riunivano i membri della Direzione del PCI là presenti i quali, accolta la proposta del Comitato operaio di Torino, lanciavano un manifestino ai lavoratori milanesi e prendevano una serie di misure per assicurare l’estensione del movimento. Il 15 marzo veniva diffusa a Torino, Milano e in molti altri centri industriali l’Unità. Grandi titoli annunciavano: “Lo sciopero di 140 mila operai torinesi”. La direttiva era chiara: “Tutto il Paese segua il loro esempio per conquistare il pane, la pare e la libertà”.

Dal 16 marzo ai primi di aprile lo sciopero si estese in tutti i principali centri industriali del Piemonte: a Pinerolo, Villar Perosa, Asti, Savigliano, Biella, nella Valle d’Aosta, ecc., e nella Lombardia.

A Milano nei giorni 16, 17 e 18 marzo si riunirono i comitati di zona del PCI. Il 19 alla Caproni e in alcuni stabilimenti di Sesto San Giovanni si verificarono i primi scioperi. Nel corso della settimana successiva il movimento si estese in tutti i principali stabilimenti della città e della provincia, alla Pirelli, Breda, Motomeccanica, Borletti, Marelli, ecc. Alla fabbrica Innocenti la maestranza, composta in maggioranza di donne, scendeva in massa nel cortile della fabbrica e sosteneva violenti scontri con le guardie metropolitane inviate dai gerarchi fascisti. Alla Face in via Bovio, le operaie manifestavano al grido: “Abbasso la guerra!”. Le guardie spararono sulla folla uccidendo un’operaia e ferendone gravemente altre nove.

Alla Borletti e alla Pirelli, i soldati inviati per reprimere lo sciopero fraternizzavano con gli operai. Ad Abbiategrasso un membro del Gran Consiglio fascista, Cianetti, tentava di parlare alle maestranze, ma veniva preso a sassate e messo in fuga. Alla Brown Boveri, alle ore 10 del 24 marzo, i giovani apprendisti del reparto n. 71 iniziavano per primi lo sciopero. Il direttore ing. Rolandi, accompagnato dai diversi capiservizio, si portava sul posto per reprimerlo. Gli operai del reparto n. 70, venuti a conoscenza dell’intervento del direttore, accorrevano in difesa dei giovani compagni di lavoro. Un operaio affrontava il direttore e in presenza della maestranza esponeva e difendeva i motivi dell’agitazione. Lo sciopero nel pomeriggio si estese in tutto lo stabilimento.

Malgrado la repressione ordinata da Mussolini, malgrado le centinaia e centinaia di operai arrestati a Torino, Asti, Biella, Pinerolo e a Milano e provincia, lo sciopero continuò ad estendersi.

La vittoria operaia

L’agitazione minacciava di svilupparsi nelle fabbriche della Liguria, Venezia Giulia e dell’Emilia. Nell’impossibilità di arrestare il movimento con i soliti mezzi repressivi a causa della possente e organizzata azione delle masse operaie, il governo fascista fu costretto a cedere.

Il 3 aprile, dopo un mese di scioperi, dopo l’interruzione di un mese nella produzione bellica, la classe operaia obbligava Mussolini a operare una prima grande “ritirata strategica”: i salari e gli stipendi furono aumentati.

Gli scioperi, iniziati il 5 marzo, terminarono nella prima quindicina del mese di aprile con una importante vittoria della classe operaia italiana. Il grande movimento, avendo colpito il governo fascista all’interno del Paese, rappresentò il primo grande contributo della popolazione italiana alla guerra di liberazione degli Alleati. Lo sciopero ebbe un’eco in tutto il mondo e i suoi effetti furono decisivi per lo sviluppo della vita politica del nostro Paese. I popoli progressivi accolsero e salutarono gli scioperi della classe operaia italiana come una grande manifestazione degli italiani contro la guerra nazifascista. L’apparato del governo e delle organizzazioni fasciste si sgretolò. Sotto la pressione delle sconfitte militari e sotto l’azione delle masse lavoratrici italiane, il governo fascista precipitava verso la sua completa rovina.


grazie a: http://www.patriaindipendente.it/

Roberto Battaglia

Lo sciopero generale

da: Roberto Battaglia, Storia della Resistenza italiana, Einaudi, 1964, pp. 184-190

Lo sciopero generale è una decisione fondamentale nella storia della Resistenza.

Non si tratta soltanto di ottenere migliori condizioni economiche per la classe operaia, consolidando i primi successi ottenuti con le agitazioni della fine del '43, ma di arrivare ben più a fondo nella lotta contro il nazifascismo: far cessare le deportazioni della mano d’opera in Germania, impedire lo smontaggio dei macchinari iniziato già in alcuni centri industriali, far sospendere o ridurre al minimo la produzione di guerra.
La classe operaia è ancora una volta la leva gigantesca su cui far forza per trasformare l'intera situazione della Resistenza, per raccogliere in un’unica direzione tutte le energie che si sono manifestate nel primo periodo della clandestinità, dagli organismi già pienamente efficienti come i CLN o i comitati d’agitazione alle organizzazioni di massa che vanno ora nascendo come il Fronte della gioventù e i Gruppi di difesa della donna.
Il nemico non dovrà più trovarsi nella condizione di poter agire e di poter concentrare le sue forze in un solo settore nei rastrellamenti o nella repressione operaia o nella caccia spietata ai GAP; dovrà trovare ovunque sulla sua strada pronto a sbarrargli il passo l'intero popolo italiano.



Lo sciopero generale si presenta dunque come una grandiosa operazione strategica da prepararsi contemporaneamente in ogni regione dell’Italia del Nord, da far scoppiare nella stessa data in ogni città. Tale è la violenza d’urto che si può sprigionare dal movimento popolare organizzato e simultaneo che si deve sacrificare, pressoché completamente, il vantaggio della sorpresa. L’opera di preparazione, così estesa e diramata fino ai centri minori della periferia, non può essere infatti celata del tutto, come non possono essere celati i movimenti di un grosso esercito che si accinga alla battaglia campale.
Da una parte e dall’altra viene quindi eseguita una serie di azioni preventive che abbraccia quasi integralmente i primi mesi del '44.


Da parte della Resistenza l’obiettivo preliminare da raggiungere è il coordinamento tra le sue forze per esser certi che questa volta non ci si muova da soli lasciando i comunisti quasi isolati alla testa dell’agitazione com’era spesso accaduto negli scioperi invernali. Viene quindi reso innanzi tutto più operante ed efficace il patto d'unità d'azione tra PCI e PSI, già rinnovato alla fine del settembre, mediante un appello comune dei due partiti alla classe operaia. È investito della responsabilità dello sciopero direttamente il CLNAI che precedentemente aveva soltanto aderito all’iniziativa operaia, assicurato l’appoggio delle nascenti organizzazioni di massa, posto in stato d’allarme l’intero schieramento in armi della Resistenza, dai GAP delle città alle formazioni della montagna.


Né si tratta, come è evidente, soltanto d’un miglioramento delle condizioni organizzative. L’obiettivo dello sciopero generale s'inserisce in una prospettiva politica generale sulla quale in questo momento concordano tutti i partiti antifascisti.

Reagendo alla tentata truffa della "socializzazione" fascista, in un appello ai lavoratori del 15 febbraio, cosi s’esprime infatti il CLNAI:

    Il CLN prende un solenne impegno dinanzi al popolo e dichiara che dopo la liberazione del paese le classi popolari, distruggendo ogni paternalismo di tipo fascista che le esclude dalla vita effettiva della nazione, attraverso l'esercizio delle libertà politiche e sindacali e con la diretta partecipazione agli organi del potere, saranno realmente chiamate ad abbattere il predominio della plutocrazia finanziaria fascista e fonderanno una nuova democrazia popolare che tragga forza e autorità unicamente dal popolo.

È lo stesso impegno che ha presieduto alla nascita del CLNAI, determinando la mozione di gennaio, ma ora ulteriormente ribadito e approfondito. Dall'altra parte, dalla parte dei nazifascisti, si predispongono le misure per smorzare la potenza del colpo, per rompere la compattezza del fronte avversario che sta minacciosamente avanzando. Innanzi tutto nelle fabbriche: si affretta la compilazione delle liste degli operai da inviare in Germania, si predispone il licenziamento degli elementi individuati come sovversivi, si sospende l’energia elettrica nelle officine o nei centri industriali piu soggetti al controllo delle formazioni partigiane. Nel piano controffensivo tedesco non c’è posto o c’è un posto assai limitato per l'opera di corruzione da affidare ai sindacati fascisti, non c’è posto nemmeno per il doppio gioco della classe padronale, per le effimere concessioni o promesse. Questa volta gli operai dovranno trovarsi subito di fronte al vero padrone dell’Italia del Nord, al tedesco in armi. L’urto dello sciopero generale non dovrà avere il benché minimo spazio di manovra economica; dovrà trovare in alcuni settori il vuoto delle fabbriche chiuse per ferie in seguito alla mancanza d’energia elettrica, in altri la resistenza rigida della serrata padronale protetta dai soldati del Reich.



Il 1° marzo s’acccende la gigantesca battaglia dal Piemonte al Veneto, dalla Lombardia alla Toscana. Per seguirne le fasi singole bisognerebbe scrivere la storia di tutte le fabbriche italiane, i mille e mille episodi in cui si manifesta a note squillanti l'energia della classe operaia.


Torino e Milano sono come sempre all’avanguardia.
Nella prima città lo sciopero s’inizia compatto alla scadenza prestabilita, malgrado la manovra fascista di concedere preventivamente le ferie: 60 mila scioperanti, il primo giorno. 70 mila il secondo. Una serie di comunicati del Comitato d’agitazione segue lo sviluppo dell’offensiva. Riportiamo il primo:

    Come sempre, Torino proletaria occupa un posto d’avanguardia nella lotta per il pane e la libertà. Con le officine Mirafiori in testa hanno scioperato compatte tutte le fabbriche che non erano state messe in ferie. Particolarmente combattive si sono mostrate le donne proletarie. Il manigoldo Zerbino, che ieri, con la manovra delle ferie, aveva ordinato la chiusura degli stabilimenti, oggi «ordina» la ripresa del lavoro minacciando la serrata e la deportazione degli operai. Ecco quanto promette la repubblica sociale fascista ai lavoratori!
    Se non ci date più pane, più pasta, più sale, più grassi non si lavora! Se non cessano gli arresti arbitrari, le violenze e le deportazioni non si lavora! Tutti i patrioti devono essere liberati! Né un operaio, né un giovane, né una macchina devono andare in Germania! Alla violenza nazifascista gli operai risponderanno con la violenza. I partigiani e le squadre garibaldine di azione patriottica sono entrati in azione.
    Viva lo sciopero rivendicativo politico!

C'è il tono d'un bollettino di guerra in questo comunicato e nei successivi e la situazione si fa subito aspra. Il terzo giorno gli operai vengono attaccati dai militi fascisti all'uscita della Grandi Motori e numerosi sono i feriti. Vengono compiuti atti di sabotaggio alle linee tranviarie, 150 operai sono deportati e attivissima è la ricerca dei dirigenti comunisti. Si moltiplicano gli esempi di serrata padronale nei maggiori stabilimenti e soltanto l’8 marzo si ha la ripresa del lavoro per ordine del Comitato d’agitazione.

Milano ci dà l’esempio piu completo di sciopero generale ed insieme agli operai delle fabbriche scendono in lotta i tranvieri paralizzando tutta la vita della città; li assecondano i gappisti facendo saltare la cabina elettrica che rifornisce la rete nord. I fascisti si assumono il compito di crumiri e nello spazio di poche ore fracassano ben centosessantasei vetture. Scioperano anche gli operai del Corriere della Sera e per tre giorni di seguito non esce il giornale piu autorevole della borghesia italiana. Lo spegnersi di quella voce assume un valore simbolico, rende concreta e tangibile per tutti i cittadini la presenza della classe operaia. Sciopera anche l’università da cui gli studenti cacciano a viva forza i professori fascisti, non c’è settore della vita operosa della capitale del Nord che resti inerte o neutrale nella lotta. Scioperano anche gli impiegati, particolarmente alla Edison e alla Montecatini. Il padrone di quest’ultima, Donegani, chiama la milizia per fare arrestare una commissione d’operai che ha chiesto di esporgli le sue rivendicazioni e subito dopo fugge in villa.
L’episodio dei padroni che chiamano i fascisti si ripete un po’ ovunque, alla Bianchi, alla Brown-Boveri ecc. A dar fiato e iattanza ai grandi industriali è calato in Milano il solito Zimmermann che decreta lo stato d’assedio delle fabbriche, intima la consegna delle liste degli operai schedati come sovversivi, fa sospendere ogni pagamento di salario o d’indennità. Ma gli operai tengono duro: «Avete chiuso gli stabilimenti, ebbene, riprenderemo il lavoro quando c’è l’ordineranno i nostri comitati d’agitazione». E difatti la ripresa del lavoro avviene come a Torino solo l’8 marzo, per ordine dell’unico organismo al quale nel corso della lotta gli operai riconoscono piena autorità. In tale data vengono diffuse 60 mila copie di due manifestini: uno del Comitato interregionale e l’altro di quello della Lombardia, in essi si dà disposizione di riprendere il lavoro l'8 marzo e si soggiunge:

    La cessazione dello sciopero deve segnare l’inizio di una guerriglia partigiana con l'intervento di tutte le masse lavoratrici dentro e fuori della fabbrica... Oggi, per l’esistenza del popolo italiano, vi è una sola soluzione: rispondere con la violenza alla violenza. Alle deboli forze brutali del nemico dobbiamo contrapporre le numerose e solide forze armate dei lavoratori... II sabotaggio nelle fabbriche deve essere l'azione quotidiana e crescente che i lavoratori dovranno sviluppare.

L’esempio di Torino è stato anche questa volta splendido: ma ancor più importante è ciò che avviene in provincia o nelle regioni in cui finora la classe operaia non era mai entrata cosi compatta nella lotta. Intorno a Torino lo sciopero mette in moto le formazioni partigiane della montagna che troncano le linee interurbane, compiono rapide incursioni nei centri minori, come a Lanzo o a Ceva, arrestando i fascisti e procurandosi nuove armi. Particolarmente attiva è la provincia di Novara. In Valsesia sono i partigiani garibaldini a decretare lo sciopero dove il nemico non ha fatto a tempo ad attuare la solita manovra delle ferie. In Val d’Aosta sono compiuti gli atti di sabotaggio più importanti e di più efficace appoggio allo sciopero; interrotte le linee elettriche, danneggiati gli impianti, sono paralizzati, di conseguenza, alcuni dei più importanti complessi industriali del Piemonte. In tutto il Piemonte oltre 150 mila operai hanno incrociato le braccia.

La stessa situazione si ripete in Lombardia dove non c’è centro industriale che non porti il suo contributo alla lotta: 350 mila scioperanti, dalla provincia di Milano (è in testa la Dalmine malgrado i’ondata degli arresti) a quelle di Brescia, di Como, di Varese. Ci sono centri industriali che come quello di Lecco si risvegliano per la prima volta dopo un ventennio alla lotta operaia. Ogni mezzo viene messo in opera per reprimere il movimento irrefrenabile; arresti, deportazioni, ritiro delle tessere alimentari ccc. Anche dove gli operai sono costretti infine a cedere, l’agitazione continua nelle fabbriche e la produzione bellica viene ridotta al minimo.

Più breve, ma anche più aspro lo sciopero in Liguria: 100 deportati solo a Savona, un morto a Vado Ligure nel tentativo di sfuggire a una retata fascista. È all’avanguardia La Spezia con l'OTO e qui più che altrove la resistenza operaia, pur disarmata, dà luogo a episodi di autentico eroismo: poiché è ben più difficile dimostrar coraggio quando si è inermi sotto un fucile puntato che in un combattimento dove si può reagire con le armi alla mano.
Gli operai della fonderia di piombo della Pertusola per tre quarti sono in sciopero. Immediatamente le autorità, comandante militare tedesco, prefetto e federale fascista accompagnati dai loro sgherri, fanno irruzione nei vari stabilimenti e, facendo puntare i mitra sulla schiera degli operai perché riprendano il lavoro, minacciano fucilazioni e deportazioni; all'opera di repressione vennero impiegati i peggiori elementi della X squadriglia MAS. Uno di costoro avvicinò un ragazzo che non lavorava, puntandogli contro il fucile, ma il ragazzo per tutta risposta, diede una manata alla canna, dicendo: "Guarda, come ho paura!" Il manigoldo rimase di stucco.

In Emilia il segnale dello sciopero viene dato da Bologna con la Ducati.
Già nella notte dal martedì 29 febbraio al mercoledì 1° marzo alla Ducati erano entrati reparti di SS tedeschi ad occupare lo stabilimento; ma ciò malgrado, lo sciopero riuscì compattissimo ugualmente. La direzione, dopo aver tentato tutti i mezzi di persuasione per indurre gli operai a riprendere il lavoro, fece finta di accogliere la delegazione nominata dagli operai, mentre contemporaneamente con i megafoni faceva annunciare che da quel momento la direzione passava nelle mani dei tedeschi. Ma la delegazione operaia rifiutava di trattare con i tedeschi, avendo avuto il mandato dalla massa di trattare solo con la direzione della Ducati. I reparti venivano quindi invasi dalle SS tedesche. dalle guardie repubblichine e dagli agenti di questura che, armi alla mano, intimavano agli operai la ripresa immediata del lavoro. Ma, caduta nel vuoto l’intimidazione, i nazifascisti provvedevano all’arresto di 9 operai e di 5 operaie fra i più combattivi.
L’esempio di Bologna viene seguito a Reggio, Parma. Piacenza, Cesena. Ma in Emilia la spinta non è più data soltanto dalla classe operaia che nella regione è presente in taluni grandi centri. Si mettono in moto insieme agli operai anche i contadini e per la prima volta nel corso della guerra di liberazione questi ultimi acquistano una voce propria, inserendo le proprie rivendicazioni nello schieramento generale. Ecco l’episodio di Castel Maggiore che è il più significativo sotto questo aspetto.

Mentre l’officina Barbieri scioperava al completo, le donne e i contadini dimostravano dinanzi al municipio. Il maresciallo dei carabinieri voleva opporsi alla manifestazione ma fu investito energicamente dalle donne e dovette ritirarsi con i suoi militi. Al commissario prefettizio i manifestanti hanno posto le seguenti rivendicazioni: 1) libertà di acquistare i prodotti direttamente dai contadini e i contadini chiesero di poter vendere liberamente i loro prodotti; 2) soppressione degli ammassi; basta con il richiamo alle armi; abolizione della pena di morte per i renitenti; rilascio dei patrioti arrestati; i tedeschi ritornino a casa loro e finiscano di fare la guerra in casa nostra.
L’episodio contiene in germe tutto l’ulteriore svolgimento della Resistenza emiliana in cui motivi patriottici e motivi sociali procedono di pari passo, fusi più che in ogni altra regione.

L’alleanza degli operai con i contadini
, il nuovo elemento decisivo della storia dell’Emilia, già affiora evidente fin dall’inizio. Sembra un fatto naturale ed è invece uno dei maggiori risultati che ha ottenuto l’antifascismo nel suo percorso segreto del ventennio, proprio là dove il fascismo s'era aperto violentemente il passo attraverso il varco della scissione fra operai e contadini.