Brigate Rosse
Rossana Rossanda L'album di famiglia |
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Su questo si sono gettati come leoni tutti i partiti dell’unità nazionale. Il PCI si è sentito offeso, chissà perché. I suoi nemici sono stati felici, chissà perché. L’uno e gli altri strumentalizzano e falsificano allegramente. Vediamo. Non parlerò del Giornale, perché sono una veterosettaria e voglio morire senza parlarne. Il Popolo mi fa dire che non solo è veterocomunismo, ma che «affonda le radici nelle trame internazionaliste del Cominform». Povero Cominform, fiacca e spiacevole larva della defunta internazionale: scommetterei che della DC non ebbe neppure tempo di accorgersi, nella breve vita impiegata ingloriosamente a cercare di abbattere Tito. Il Corriere fa scrivere a Ronchey che l’abbandono da parte del PCI di quel giudizio sulla DC coincide con la fine del suo leninismo. E perché? Intanto, va a vedere come, se, quando, e in che senso Togliatti abbandonò il leninismo davvero. E poi, perché Lenin dovrebbe essere il simbolo dello schematismo? I suoi giudizi politici sono lucidamente articolati. E quanto alla DC, solo una veggente avrebbe potuto informarlo di questo squisito e tardivo prodotto del secolo. Soltanto Enzo Forcella sembra aver letto le nostre righe sull’album di famiglia, del resto poco originali, con la consueta lucidità. "il manifesto, fin dall’uccisione di Calabresi, ha negato che il «partito armato» possa trovare appigli nel bolscevismo." Questa è mancata davvero ai compagni comunisti. Lasciamo andare l’editoriale odierno di Tortorella, dove mi accusa nientemeno che di aver detto che il terrorismo è figlio di Marx, Lenin, Gramsci e Togliatti: qui siamo proprio nella polemica deliberatamente falsificatoria, giacché Tortorella sa benissimo che il manifesto ha, fin dall’uccisione di Calabresi, ricordato come esso sia una pratica veneranda della piccola borghesia, e più recentemente abbia negato che il «partito armato» possa trovare appigli nel bolscevismo. Ma vediamo il lungo articolo di ieri del compagno Macaluso. «Non so quale album conservi RR. È certo che in esso non c’è la fotografia di Togliatti, né l’immagine di milioni di lavoratori e comunisti che hanno vissuto le lotte, travagli, contraddizioni di questi anni». Che importa che io abbia scritto che non tutta la politica del PCI stava in quelle formule? Che fortunatamente c’era l’intuizione del partito nuovo, la lettura di Gramsci, una diversa pratica di massa, insomma la «doppiezza» di cui più tardi Togliatti avrebbe parlato? No. La Rossanda parla come il Giornale, come gli esponenti della DC, come i redattori del Popolo. Diavolo. Mi domando perché il PCI si sia tenuto in seno per quasi trent’anni un serpente come me. Ma usciamo da una polemica miserevole e ragioniamo. Perché il partito comunista è così agitato? Perché si sente sulla difensiva? Perché sembra volersi disperatamente scrollare di dosso una paternità dell’estremismo, che nessuno, in Italia, gli attribuisce? Galloni non spara sulla segreteria o sulla linea comunista, ma se mai su una retrovia sociale, su una base operaia non cedevole, sul sindacato. Anche Carli, a suo tempo, cercò di individuare una continuità fra insorgenza operaia, nel senso di non accettazione del patto sociale, ed eversione. È una vecchia trappola. Il PCI non solo farebbe bene a rispondere per le rime a chi cerca di stabilire un filo fra terrorismo e lotta di massa, ma avrebbe anche facile gioco. Che cosa fa imbarazzata la replica comunista, che cosa ne spinge due esponenti ad attaccare più noi che Galloni? Indebolisce il PCI l’incertezza della sua collocazione nei confronti della democrazia cristiana. Compagno Macaluso, prendiamo un anno qualsiasi della collezione di Rinascita, per esempio il 1952. Siamo in piena restaurazione capitalistica. Chi la dirige? La DC. Siamo in piena guerra fredda. Chi ne è lo strumento in Italia? La DC. Siamo in pieno tentativo di mutare la rappresentatività popolare nel paese. Chi ordisce la legge truffa? La DC. Felice Platone scrive che la fascistizzazione del tempo nostro sta nel tipo di società americana, e in quel particolare unanimismo bloccato, e che «l’americanizzazione » della vita italiana è il vero veicolo d’un pericolo fascista, e il veicolo dell’americanizzazione è la DC. Togliatti torna, a proposito di Gramsci, due mesi dopo sullo stesso giudizio: «Non nei gruppi che vivono di nostalgia» ma nel maggiore partito di governo sta il pericolo più grave, «nei rapporti sociali non svecchiati, nelle oligarchie economiche risorgenti e risorte, nella tracotanza dei ceti privilegiati, nella prepotenza e corruzione» che esso garantisce. Poco dopo, una risoluzione del Comitato centrale contro il totalitarismo clericale afferma che la DC vuole fondare «un vero e proprio regime totalitario, in connessione con manovre internazionali, appoggiandosi a forme di eccezionalità». Gli esempi possono moltiplicarsi, ma a che vale? Vale chiedersi se quel giudizio, che forse appiattisce una ricerca iniziata durante e subito dopo la resistenza, è negli anni cinquanta giusto o sbagliato. E perché si forma. È giusto, io credo, anche se si giovò di qualche forzatura nella propaganda e nella formazione dei quadri; la denuncia che il partito comunista faceva della DC, anche mettendo da parte l’interrogativo sulla sua natura «popolare» che pur anche allora esisteva, bloccò una svolta reazionaria nel paese e in qualche modo costrinse la stessa democrazia cristiana a quella sempre imperfetta scelta «democratica», che avrebbe fatto precipitare con la crisi prima del centrismo, poi di Fanfani, poi di Tambroni, tutte le contraddizioni interne d’una borghesia che in una società mutata e in mutati rapporti di forza cercava la sua espressione politica. Senza questa denuncia il movimento delle masse sarebbe gravemente arretrato. Perché Tortorella si giustifica: «Fummo settari, ma difendemmo sempre la costituzione»? Dovrebbe dire «Fummo settari perché dovemmo a tutti i costi e in condizioni internazionali terribili difendere la costituzione e impedire la sconfitta del movimento». Il giudizio sulla DC che allora si venne formando non mutò finché non mutarono la fase internazionale e i rapporti di classe interni, nella seconda metà degli anni cinquanta. Ancora nel 1956 – dove Ronchey collocherebbe, penso, l’abbandono del leninismo – il giudizio sulla DC così suona nelle Tesi: «Cedendo alla duplice pressione (dell’imperialismo e dell’unità delle classi abbienti, ndr) il partito democristiano, presentatosi all’inizio con un programma di rinnovamento, diventò lo strumento politico d’un piano di conservazione sociale all’interno e di asservimento a interessi stranieri in campo internazionale». Sono definizioni del 1956, quando si lancia la via italiana al socialismo. Che per la prima volta, contraddittoriamente all’affermazione sicuramente forzata d’una avvenuta «totale clericalizzazione della società», aggiunge la questione della DC come partito popolare, e vede in questa sua natura un principio di possibile squilibrio. Allora, anzi, la questione della DC diventa un perno della discussione nel partito comunista, luogo dove si confronta una visione «democratico-laicista» e una visione di classe, che mette l’accento e sui soggetti di dominio di classe e sul tipo di aggregazione sociale che il partito cattolico rappresenta; e vede in questa aggregazione una specificità del «caso italiano», il luogo su cui passare per una ricostruzione del blocco storico. Tutto questo, nel corsivo che ha suscitato tanti allarmi, lo abbiamo ricordato, ma sta scritto nei testi di anni recenti. L’ambiziosa operazione del compromesso storico è partita su concetti approssimativi (le grandi correnti, i grandi filoni) separata da un’analisi appena complessa della collocazione della democrazia cristiana nel contesto delle forze politiche borghesi, italiane e non, e della sua impossibilità a separarsi dal ruolo di «partito di fiducia della borghesia». È parsa vicina a perderlo qualche anno fa, perché per un momento la borghesia ha puntato altrove; ma la conversione di tendenza s’è subito verificata. Quando già era tornata ad esserlo in modo inequivocabile e centrale il PCI è andato – in piena crisi – a un accordo politico con un corpo sociale, storico, ideologico, clientelare che non sa più bene come definire, se avversario o amico. Che non sa «leggere» più. Che non analizza più. Che spera «diverso». Questa debolezza presente gli fa scrollare violentemente la criniera di fronte al ricordo del passato, gli fa gridare «al terrorista» contro chiunque dica che, sì, la democrazia cristiana era ed è il partito della borghesia italiana e che il PCI, smettendo di dirlo, porta una responsabilità anche dell’oscurarsi del fronte di lotta, dell’intorbidarsi della vita politica. Sono verità sgradevoli. Non è detto che, nei momenti difficili, bisogna astenersi dal dirle. da «il manifesto» del 2 aprile 1978, ripubblicato sull’edizione in edicola il 17 marzo 2018
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