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Carlo Ghezzi *
Questa terra è la mia terra, una vittoria a metà
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Nell’autunno di settanta anni fa, era il 1950, Parlamento italiano e Assemblea regionale siciliana vararono alcuni provvedimenti legislativi dando il via a una riforma agraria che, pur dal carattere piuttosto limitato, tuttavia recepiva alcune delle istanze di un grandioso movimento di lotta per la terra. Sviluppatosi dal 1944, ne aveva posto le basi, scuotendo nel profondo l’intero Mezzogiorno.
Le battaglie dei braccianti e dei contadini contro il feudo e per l’utilizzo delle terre incolte erano già state al centro delle imponenti lotte dei Fasci Siciliani della fine del XIX secolo: dopo la Comune di Parigi, avevano rappresentato la più grande iniziativa delle forze di progresso in Europa, ma vennero duramente represse dal governo Crispi e dalla mafia.
Quel partecipato movimento di lotta chiedeva scelte economiche e di sviluppo innovative, regole chiare per la conduzione dei fondi concordate tra le parti sociali e, soprattutto occasioni di lavoro. Le mobilitazioni ferocemente decapitate dalla repressione del gendarme, da pesantissime condanne inflitte ai suoi capi e dalla emigrazione forzata verso altre terre di moltissimi militanti, riesplosero in Sicilia dopo la caduta del fascismo. Si creò un grande movimento di massa che, magistralmente guidato dalla CGIL, dal PCI e dal PSI, praticò l’occupazione delle terre incolte e gli scioperi alla rovescia.
I decreti promulgati nell’ottobre 1944 dal ministro dell’agricoltura, il comunista Fausto Gullo, prevedevano la distribuzione dei terreni incolti dandoli in affitto a cooperative di contadini e segnarono un primo parziale approdo di quelle mobilitazioni.
Subito dopo la Liberazione, la lotta nelle campagne si estese ad altre regioni del Meridione scontrandosi sempre con l’intransigenza degli agrari, con le forze politiche che li sostenevano e con settori degli apparati dello Stato: l’obiettivo perseguito era contenere e ridimensionare l’azione delle forze del lavoro e del movimento democratico e progressista.
Molto sangue venne fatto scorrere in numerose località del Sud ed emblematicamente la strage di Portella della Ginestra del Primo maggio 1947 ne rappresentò la pagina più tragica. L’eccidio avvenne dopo il grande risultato elettorale ottenuto dal Blocco del Popolo nelle elezioni regionali siciliane: il bandito Salvatore Giuliano, al soldo degli agrari e della mafia, uccise 11 manifestanti e ne ferì altri 27.
Nel maggio 1947 la rottura dei governi di unità antifascista promossa da De Gasperi e l’avanzare della guerra fredda appesantirono ulteriormente il quadro generale e le stragi proletarie si moltiplicarono.
Il dopoguerra contò l’assassinio di oltre 30 sindacalisti in Sicilia, ordito dagli agrari e dalla mafia, per i quali mai nessuno sarebbe stato condannato e punito.
Si ebbero altresì le stragi di Celano in Abruzzo, di Melissa in Calabria, di Montescaglioso in Basilicata, di Torremaggiore in Puglia; nel 1949 diversi lavoratori furono uccisi nella Valle Padana nel corso delle battaglie sindacali per la conquista del contratto nazionale di lavoro.
La crudezza di tali avvenimenti scosse l’opinione pubblica italiana e internazionale e infine il rinnovo del contratto nazionale dei braccianti venne sottoscritto. Il governo venne spinto a varare una riforma agraria che, se per un verso divideva alcune terre incolte e le consegnava ai contadini atavicamente affamati di terra, tuttavia spezzettava eccessivamente la dimensione delle singole proprietà, impedendo così un reale decollo dell’economia delle campagne e dell’intera agricoltura italiana, mentre il settore si espandeva su vasta scala in Europa e nel mondo.
Ma, nonostante avessero conseguito dei risultati solo parziali, quelle lotte fornirono un determinante contributo delle forze del lavoro alla modernizzazione del nostro sistema produttivo, formarono tantissimi militanti e selezionarono classi dirigenti, scrivendo pagine importanti nella storia d’Italia.
* già membro della Segreteria nazionale CGIL
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