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Antonio Gnoli
Intervista a Rossana Rossanda |
Sommersi come siamo dai luoghi comuni sulla vecchiaia non riusciamo più a distinguere una carrozzella da un tapis roulant. Lo stereotipo della vecchiaia sorridente che corre e fa ginnastica ha finito con l'avere il sopravvento sull'immagine ben più mesta di una decadenza che provoca dolore e tristezza. Guardo Rossana Rossanda, il suo inconfondibile neo. La guardo mentre i polsi esili sfiorano i braccioli della sedia con le ruote. La guardo immersa nella grande stanza al piano terra di un bel palazzo sul lungo Senna. La guardo in quel concentrato di passato importante e di presente incerto che rappresenta la sua vita. Da qualche parte Philip Roth ha scritto che la vecchiaia non è una battaglia, ma un massacro.
La guardo con la tenerezza con cui si amano le cose fragili che si perdono. La guardo pensando che sia una figura importante della nostra storia comune. Legata al partito comunista, fu radiata nel 1969 e insieme, tra gli altri, a Pintor, Parlato, Magri, Natoli e Castellina, contribuì a fondare Il manifesto. Mi guarda un po' rassegnata e un po' incuriosita. Qualche mese fa ha perso il compagno K. S. Karol.
Per una donna come me, che ha avuto la fortuna di vivere anni interessanti, l'amore è stato un'esperienza particolare. Non avevo modelli. Non mi ero consegnata alle aspirazioni delle zie e della mamma. Non volevo essere come loro. Con Karol siamo stati assieme a lungo. Io a Roma e lui a Parigi. Poi ci siamo riuniti. Quando ha perso la vista mi sono trasferita definitivamente a Parigi. Siamo diventati come due vecchi coniugi con il loro alfabeto privato.
Quando vi siete conosciuti esattamente?
Nouvel Observateur. Quell'anno morì Togliatti. Lasciò un memorandum che Luigi Longo mi consegnò e che a mia volta diedi a Le Monde, suscitando la collera del PCF.
Collera perché?
Era un partito chiuso, ortodosso, ligio ai rituali sovietici. Louis Aragon si lamentò con me del fatto che avrei dovuto dare a lui quello scritto. Lui si sarebbe fatto carico di una bella discussione in seno al partito. Per poi non concludere nulla. Era tipico.
Cosa?
Vedere questi personaggi autorevoli, certo, ma alla fine capaci di pensare solo ai propri interessi.
Ma non era comunista?
Era prima di tutto insopportabile. Rivestito della fatua certezza di essere Louis Aragon! Ne conservo un ricordo fastidioso. La casa stupenda in rue Varenne. I ritratti di Matisse e Picasso che lo omaggiavano come un principe rinascimentale. Che dire? Provavo sgomento. E fastidio.
Lei come è diventata comunista?
Scegliendo di esserlo. La Resistenza ha avuto un peso. Come lo ha avuto il mio professore di estetica e filosofia Antonio Banfi. Andai da lui, giuliva e incosciente. Mi dicono che lei è comunista, gli dissi. Mi osservò, incuriosito. E allarmato. Era il 1943. Poi mi suggerì una lista di libri da leggere. Tra cui Stato e rivoluzione di Lenin. Divenni comunista all'insaputa dei miei, soprattutto di mio padre. Quando lo scoprì si rivolse a me con durezza. Gli dissi che l'avrei rifatto cento volte. Avevo un tono cattivo, provocatorio. Mi guardò con stupore. Replicò freddamente: fino a quando non sarai indipendente dimentica il comunismo.
E lei?
Mi laureai in fretta. Poi cominciai a lavorare da Hoepli. Nella casa editrice, non lontano da San Babila, svolgevo lavoro redazionale, la sera frequentavo il partito.
Tra gli anni Quaranta e i Cinquanta era forte il richiamo allo stalinismo. Lei come lo visse?
Oggi parliamo di stalinismo. Allora non c'era questo riferimento. Il partito aveva una struttura verticale. E non è che si faceva quello che si voleva. Ma ero abbastanza libera. Sposai Rodolfo, il figlio di Banfi. Ho fatto la gavetta nel partito. Fino a quando nel 1956 entrai nella segreteria. Mi fu affidato il compito di rimettere in piedi la Casa della cultura.
Lei è stata tra gli artefici di quella egemonia culturale oggi rimproverata ai comunisti.
Quale egemonia? Nelle università non ci facevano entrare.
Ma avevate le case editrici, il cinema, il teatro.
Avevamo soprattutto dei rapporti personali.
Ma anche una linea da osservare.
Togliatti era mentalmente molto più libero di quanto non si sia poi detto. A me il realismo sovietico faceva orrore. Cosa posso dirle? Non credo di essere stata mai stalinista. Non ho mai calpestato il prossimo. A volte ci sono stati rapporti complicati. Ma fanno parte della vita.
Con chi si è complicata la vita?
Con Anna Maria Ortese, per esempio. L'aiutai a realizzare un viaggio in Unione Sovietica. Tornando descrisse un paese povero e malandato. Non ne fui contenta. Pensai che non avesse capito che il prezzo di una rivoluzione a volte è alto. Glielo dissi. Avvertii la sua delusione. Come un senso di infelicità che le mie parole le avevano provocato. Poi, improvvisamente, ci abbracciammo scoppiando a piangere.
Pensava di essere nel giusto?
Pensavo che l'URSS fosse un paese giusto. Solo nel 1956 scoprii che non era quello che avevo immaginato.
Quell'anno alcuni restituirono la tessera.
E altri restarono. Anche se in posizione critica. La mia libertà non fu mai seriamente minacciata né oppressa. Il che non significa che non ci fossero scontri o critiche pesanti. Scrissi nel 1965 un articolo per Rinascita su Togliatti. Lo paragonavo al protagonista de Le mani sporche di Sartre. Quando il pezzo uscì Giorgio Amendola mi fece a pezzi. Come ti sei permessa di scrivere una cosa così? Tra i giovani era davvero il più intollerante.
Citava Sartre. Era molto vicino ai comunisti italiani.
Per un periodo lo fu. In realtà era un movimentista. Con Simone De Beauvoir venivano tutti gli anni in Italia. A Roma alloggiavano all'Hotel Nazionale. Lo vedevo regolarmente. Una sera ci si incontrò a cena anche con Togliatti.
Dove?
In una trattoria romana. Era il 1963. Togliatti era incuriosito dalla fama di Sartre e quest'ultimo guardava al capo dei comunisti italiani come a una risorsa politica. Certamente più interessante dei comunisti francesi. Però non si impressionarono l'un l'altro. La sola che parlava di tutto, ma senza molta emotività, era Simone. Quanto a Sartre era molto alla mano. Mi sorpresi solo quando gli nominai Michel Foucault. Reagì con durezza.
Foucault aveva sparato a zero contro l'esistenzialismo. Si poteva capire la reazione di Sartre.
Avevano due visioni opposte. E Sartre avvertiva che tanto Foucault quanto lo strutturalismo gli stavano tagliando, come si dice, l'erba sotto i piedi.
Ha conosciuto Foucault personalmente?
Benissimo: un uomo di una dolcezza rara. Studiava spesso alla Biblioteca Mazarine. E certi pomeriggi veniva a prendere il tè nella casa non distante che abitavamo con Karol sul quai Voltaire. Era un'intelligenza di prim'ordine e uno scrittore meraviglioso. Quando scoprì di avere l'Aids, mi commosse la sua difesa nei riguardi del giovane compagno.
Un altro destino tragico fu quello di Louis Althusser.
Ero a Parigi quando uccise la moglie. La conoscevo bene. E ci si vedeva spesso. Un'amica comune mi chiamò. Disse che Hélène, la moglie, era morta di infarto e lui ricoverato. Naturalmente le cose erano andate in tutt'altro modo.
Le cronache dicono che la strangolò. Non si è mai capita la ragione vera di quel gesto.
Hélène venne qualche giorno prima da me. Era disperata. Disse che aveva capito a quale stadio era giunta la malattia di Louis.
Quale malattia?
Althusser soffriva di una depressione orribile e violenta. E penso che per lui fosse diventata qualcosa di insostenibile. Non credo che volesse uccidere Hélène. Penso piuttosto all'incidente. Alla confusione mentale, generata dai farmaci.
Era stato uno dei grandi innovatori del marxismo.
Alcuni suoi libri furono fondamentali. Non le ultime cose che uscirono dopo la sua morte. Non si può pubblicare tutto.
A proposito di depressione vorrei chiederle di Lucio Magri che qualche anno fa, era il 2011, scelse di morire. Lei ebbe un ruolo in questa vicenda. Come la ricorda oggi?
Lucio non era affatto un depresso. Era spaventosamente infelice. Aveva di fronte a sé un fallimento politico e pensava di aver sbagliato tutto. O meglio: di aver ragione, ma anche di aver perso. Dopo aver litigato tante volte con lui, lo accompagnai a morire in Svizzera. Non mi pento di quel gesto. E credo anzi che sia stata una delle scelte più difficili, ma anche profondamente umane.
Tra le figure importanti nella sua vita c'è stata anche quella di Luigi Pintor.
Lui, ma anche Aldo Natoli e Lucio Magri. Tre uomini fondamentali per me. Non si sopportavano tra di loro. Cucii un filo esile che provò a tenerli insieme.
Parlava di fallimento politico. Come ha vissuto il suo?
Con la stessa intensa drammaticità di Lucio. Quello che mi ha salvato è stata la grande curiosità per il mondo e per la cultura. Quando Karol era bloccato dalla malattia, mi capitava di prendere un treno la mattina e fermarmi per visitare certi posti meravigliosi della provincia e della campagna e tornare la sera. Godevo della bellezza dei luoghi che diversamente dall'Italia non sono stati rovinati.
Se non avesse fatto la funzionaria comunista e la giornalista cosa avrebbe voluto fare?
Ho una certa invidia per le mie amiche - come Margarethe von Trotta - che hanno fatto cinema. In fondo i buoni film come i buoni libri restano. Il mio lavoro, ammesso che sia stato buono, è sparito. In ogni caso, quando si fa una cosa non se ne fa un'altra.
Il suo esser comunista avrebbe potuto convivere con qualche forma di fede?
Non ho più un'idea di Dio dall'età di 15 anni. Ma le religioni sono una grande cosa. Il cristianesimo è una grande cosa. Paolo o Agostino sono pensatori assoluti. Ho amato Dietrich Bonhoeffer. Straordinario il suo magistero. E il suo sacrificio.
Si accetta più facilmente la disciplina di un maestro o quella di un padre?
I maestri li scegli, o ti scelgono. I padri no.
Il rapporto con suo padre come è stato?
Era un uomo all'antica. Parlava greco e latino. Si laureò a Vienna. C'era molta apprensione economica in famiglia. La crisi del 1929 colpì anche noi che eravamo parte dell'impero austro-ungarico. Il nostro rapporto, bello, lo rovinai con parole inutili. Con mia madre, più giovane di vent'anni, eravamo in sintonia. Sembravamo quasi sorelle. Si scappava in bicicletta per le stradine di Pola.
Dove lei è nata?
Sì, siamo gente di confine. Gente istriana, un po' strana.
Si riconosce un lato romantico?
Se c'è si ha paura di tirarlo fuori. Non c'è donna che non senta forte la passione. Dai 17 anni in poi ho spesso avvertito la necessità dell'innamoramento. E poi ho avuto la fortuna di sposare due mariti, passabilmente spiritosi, che non si sono mai sognati di dirmi cosa fare. Ho condiviso parecchie cose con loro. Poi i casi della vita a volte remano contro.
Come vive il presente, questo presente?
Come vuole che lo viva? Metà del mio corpo non risponde. E allora ne scopri le miserie. Provo a non essere insopportabile con chi mi sta vicino e penso che in ogni caso fino a 88 anni sono stata bene. Il bilancio, da questo punto di vista, è positivo. Mi dispiacerebbe morire per i libri che non avrò letto e i luoghi che non avrò visitato. Ma le confesso che non ho più nessun attaccamento alla vita.
Ha mai pensato di tornare in Italia?
No. Qui in Francia non mi dispiace non essere più nessuna. In Italia la cosa mi infastidirebbe.
È l'orgoglio che glielo impedisce?
È una componente. Ma poi che Paese siamo? Boh.
E le sue radici: Pola? L'Istria?
Cosa vuole che siano le radici. Non ci penso. La vera identità uno la sceglie, il resto è caso. Non vado più a Pola da una quantità di anni che non riesco neppure a contarli. Ricordo il mare istriano. Alcuni isolotti con i narcisi e i conigli selvaggi. Mi manca quel mare: nuotare e perdermi nel sole del Mediterraneo.
Ma non è nostalgia. Nessuna nostalgia è così forte da non poter essere sostituita dalla memoria. Ogni tanto mi capita di guardare qualche foto di quel mondo. Di mio padre e di mia madre. E penso di essere nonostante tutto una parte di loro come loro sono una parte di me.
grazie a: Repubblica, 01.02.2015
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Rossana Rossanda
Messaggio a Sinistra Italiana |
Cari compagni, vi ringrazio per la vostra lettera e l’invito a partecipare al vostro dibattito congressuale.
È evidente che mi interessa. Ho letto i documenti che avevate da qualche tempo preparato, ma potete comprendermi se mi riguardano come materiale di riflessione piuttosto che come decisione di schieramento.
Vi prego di tenere presente, oltre alla mia età e al mio stato di salute, il lungo percorso che ho fatto. E con non poche sconfitte. Non me ne rincresce.
Ma mi obbliga - a quanto sembra diversamente dalla maggior parte dei fermenti che si sono sviluppati intorno alla crisi del Partito Comunista Italiano, prima e, poi, del Partito democratico - a uno sguardo e a un bilancio su quella che è stata la storia passata del movimento operaio italiano e, almeno, europeo. Si tratta di un secolo di elaborazione teorica e di lotte.
Di vite, insomma, rispetto alle quali mi pare eccessivamente disinvolto passare senza soffermarsi. Tanto meno sono disposta a seguire gli eredi di Berlinguer quando hanno pensato di poter ripartire da zero.
In realtà, mi pare che la loro sia stata una resa senza condizioni alle opinioni di quello che chiamavamo avversario di classe. L’ammissione, cioè, che fosse inutile rivedere testi ed esperienze, sia del partito comunista e del movimento operaio italiano, sia dei cosiddetti socialismi reali, per rimontare senz’altro a Marx e dichiararlo liquidato.
Siamo ancora all’interno di un sistema capitalista.
In che misura e dentro quali limiti si è andato modificando? E, soprattutto: è ancora il terreno sul quale, nel lavoro, si materializza il soggetto che non ne sopporta lo stato di soggezione - peggio: di alienazione - in cui è tenuto?
Oppure è questo elemento che si è venuto modificando, a causa di quella che chiamiamo tecnologia e che un tempo, in più diretto collegamento col rifiuto del sistema, chiamavamo lavoro vivo e lavoro morto?
Certamente è cambiato il punto di aggregazione del lavoro dipendente, cioè la fabbrica (almeno in Occidente, perché altrove resta come forma residuale). E la scomparsa della fabbrica implica o no la scomparsa del proletariato come zona immensa della società non proprietaria?
Mi è capitato di leggere di molti attuali pensatori che dubitano del concetto di classe. Ma dubitarne, senza sostituirvi un concetto fondatore diverso, significa dubitare della possibilità di una materializzazione del soggetto politico del cambiamento.
E, allora, a che servirebbe un partito comunista riveduto e corretto, o, ancor meno, un partito democratico?
Perfino una teoria di compromesso sociale - come sono state, subito prima della guerra, le teorie di Keynes e di Minski - presuppone l’esistenza di un disagio di fondo che divide le nostre società, e di qui il bisogno di cambiare i rapporti sociali.
E infatti, non per caso, anche questi nomi, già pilastri di una certa socialdemocrazia, sono oggi coinvolti, senza una spiegazione, nella crisi finale dell’organizzazione capitalistica dominante.
È che su questa crisi sembrano lavorare piuttosto studiosi di provenienza diversa da quella del movimento operaio (come Luciano Gallino che ripeteva, negli ultimi scritti: La lotta di classe esiste ancora e l’hanno vinta i capitalisti).
Questa domanda non la ritrovo nei tentativi della maggior parte di chi si propone di dare un esito all’attuale, tormentosa vita delle sinistre italiane.
Un ragionamento analogo vale a proposito del soggetto politico del cambiamento, che è, anzi, un aspetto dello stesso problema, rimasto irrisolto dal secolo ventesimo: quello sulle o sulla libertà.
Con il voto del 4 dicembre, è stata ribadita l’importanza della Costituzione. Ma la Costituzione imposta il problema di una convivenza dell’intera società, comprese, anzi garantite, le sue dialettiche di classe (guardate in proposito il ragionamento di Mario Dogliani nel sito del Centro per la Riforma dello Stato).
Non si tratta, però, dello stesso discorso che può valere come orizzonte di una parte essenziale e conflittiva della società, specialmente quella che riguarda il soggetto del cambiamento. Vale a dire come questione relativa al lavoro, quale è stato ed è. E delle nuove questioni antropologiche - come quella posta dalle donne - sviluppatesi alla fine del secolo scorso.
Di fatto, mi sembra che non si sia andati oltre al dilemma reale del Novecento: fra garanzia dei diritti civili e nessuna garanzia dei diritti sociali, oppure, all’opposto, garanzia dei diritti sociali e nessuna garanzia dei diritti di libertà.
A ben vedere, si ripropone, anch’essa come irrisolta, la questione che nel secolo scorso era stata posta soprattutto da Louis Althusser: se il marxismo, teoria e lotte, debba essere visto come una filosofia o una scienza.
Da cui consegue il problema di come debbano organizzarsi i soggetti del cambiamento, se attraverso un partito o diversamente.
La risposta, che sembra venga data da una larga maggioranza in Italia, è che di partito non si possa più parlare.
Il che ha prodotto - con il consenso di nuovo di una maggioranza - una disarticolazione che ha di fatto assegnato il potere decisionale a una organizzazione semi-privata come il Movimento Cinque stelle (al quale non a caso hanno aderito diverse persone che eravamo abituate a chiamare compagni).
Non voglio farla lunga e neppure affronto i problemi che ci pose il leninismo. I socialismi reali e i partiti comunisti si sono dissolti senza neppure affrontare le domande che avevano lasciate irrisolte.
Desideravo solo indicarvi sommariamente, almeno attraverso qualche esempio, quali, e di quali dimensioni, siano le questioni che il Novecento ha lasciato aperte e sulle quali non mi sembra si possa passare oltre senza tentare di impostare risposte fino ad ora non date.
Vi ringrazio ancora per l’amicizia che mi avete dimostrato e vi auguro buon lavoro.
Parigi, 19.02.2017
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Bruno Quaranta
Intervista a Rossana Rossanda |
Una ragazza del 1924 nel nuovo millennio, una sfida che continua.
Nella vita e sulla pagina. La ragazza del secolo scorso, che pubblicai da Einaudi nel 2005, non è la mia autobiografia, ma la biografia del Partito comunista. Ne sto ultimando il seguito. Tempo un mese e scriverò la parola fine.
Un seguito, va da sé, nel segno della politica. Domenica in Italia si vota. Da Parigi che cosa intravede?
Una grande confusione. Voterò anch’io. Eserciterò il mio diritto-dovere al Consolato.
E chi sceglierà?
La lista di Grasso, Liberi e Uguali.
Valentino Parlato, come lei tra i fondatori del Manifesto, alle comunali di Roma votò i 5 Stelle…
Non avrebbe dovuto dichiararlo. Ma Valentino prediligeva le acrobazie sul filo del paradosso.
Che cosa, dell’Italia, la preoccupa maggiormente?
Il populismo, i populismi.
Lei ha combattuto le sue battaglie. Quali le responsabilità della sua parte?
La mia parte. La Sinistra che è evaporata. Che si è dissipata. Non ha avuto il coraggio di realizzare sé stessa. Dal ’68 in poi ha smarrito la bussola. Sottovalutando, per esempio, i giovani, nella persuasione che fossero troppo frettolosi e distratti.
La Sinistra inetta di fronte alle diseguaglianze. Non le pare?
Sicuramente. Per abolirle, o arginarle, occorre penalizzare chi ha di più. Non è una scelta facile.
Rossana Rossanda comunista. Che cosa significa, oggi, non retoricamente, dirsi comunisti?
Significa essere leninisti. Mirare, cioè, alla distribuzione reale delle ricchezze e alla istituzione di regole condivise dai lavoratori.
Il fallimento della Sinistra. E del suo partito per antonomasia, il PCI. Quali le ragioni?
Dobbiamo risalire agli anni Venti. Da tutto il potere ai soviet a nessun potere ai soviet. L’apparato, la burocrazia, a prevalere sulla massa dei lavoratori, soffocandola. Da Lenin a Stalin.
A proposito di anni Venti. Riappare, ri-apparirebbe il fascismo. È un pericolo serio?
Ci sono, in Italia, indubbiamente, pulsioni fasciste.
A suscitare tali pulsioni contribuirebbe non poco il fenomeno immigrazione. Non teme l’islamizzazione dell’ Europa?
Niente affatto. È più probabile che gli islamici approdati nel nostro Continente si convertano all’Europa. Il nostro solido pensiero politico è in grado di fungere da attrazione e da antidoto.
Novantadue anni fa moriva a Parigi Piero Gobetti. Considerava il fascismo l’autobiografia della nazione.
Per me il fascismo è il potere senza regole del padronato. C’è una costante nella nostra storia: non riconoscere i diritti dei lavoratori. La Costituzione, in tal senso, è inattuata.
Vecchie e nuove povertà. I 5 Stelle le capterebbero, le rappresenterebbero…
Il Movimento 5 Stelle non mi interessa, non lo capisco. No, non sarebbe corretto leggervi un’orma fascista, ma affonda nella genericità, nel caos.
L’intellettuale Rossana Rossanda. Perché scelse il PCI e non il Partito d’Azione, il partito degli intellettuali?
Necessitava affrontare e sconfiggere il nazismo e il fascismo. Come non affidarsi alla forza maggiore sul piano internazionale?
Quale il maggiore politico comunista italiano?
Palmiro Togliatti. La sua intuizione: diffondere il PCI, radicarlo, farne un architrave popolare. Il che non era ovvio. In ciò, non era leninista. Il partito di Lenin è in primis colto, intellettuale.
Togliatti senza macchie? Non peccò di omissione, e grave, su quanto accadeva in URSS?
Togliatti ha commesso diversi errori, anche dal punto di vista morale. Come appoggiare la repressione spagnola contro gli anarchici.
Togliatti. E Gramsci?
Già, Gramsci. Quando nel ’47 uscirono i Quaderni si respirò a pieni polmoni, un po’ spazzando via la pesante aria zdanoviana. La modernità di Gramsci: non semplificare, sapere che la realtà è complessa e complicata.
I comunisti e oltre. Chi ha stimato? Moro, scomparso quarant’anni fa?
No, Moro no. Ho la sensazione che fosse molto attento al suo partito e alla Chiesa. Ma non interessato a intraprendere una discussione costruttiva con la Sinistra.
Moro e Berlinguer, il compromesso storico.
Uno sbaglio di Berlinguer. E non credo che il compromesso convincesse realmente Moro.
Ha citato la Chiesa. Secondo molti, il riferimento autentico della Sinistra è Bergoglio.
Questo Papa rappresenta il cristianesimo delle origini. Si muove nel solco dell’uguaglianza e della solidarietà.
Il politico Rossana Rossanda.
Sono stata in Parlamento. Ma l’esperienza maiuscola, feconda, l’ho fatta a Milano, in veste di consigliere comunale. Con la percezione di agire in una società trasformabile perché conoscibile. Sperimentando un laboratorio con la sinistra cattolica, da Marcora a Bassetti.
Parigi. E Roma? Non pensa di farvi ritorno?
Ritorno di tanto in tanto. Ritornerò.
Magari come senatrice a vita?
Ne sarei onorata. E, lo confesso, mi farebbe comodo economicamente.
grazie a: lastampa.it, 02.03.2018
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Diego Bianchi
Intervista a Rossana Rossanda |
qui il video
Venerdì 26 ottobre 2018 Diego Bianchi ha trasmesso su Propaganda Live un’intervista a Rossana Rossanda realizzata qualche giorno prima.
Sei appena tornata dalla Francia, mi hai detto che non pensavi di trovare così l’Italia. Che pensavi?
Mancavo dall’Italia da 15 anni, pensavo di trovare un paese in difficoltà economica, politicamente basso, ma non scivolata dov’è adesso, con questa lite continua. Nessuno sente il problema di dire com’è che siamo arrivati a questo punto, com’è che oggi si possono risentire accenti che dopo la guerra non erano più pensabili. La sinistra, che ha perso milioni di voti, non si interroga o, se si interroga, non ce lo dice.
Una volta invece ci si interrogava sempre.
Certo. Adesso non so più se il partito democratico, o come si chiami, farà il congresso.
Quei bei congressi di una volta…
Belli non erano. Erano anche un po’ noiosini. Però c’era il problema di dire dove siamo, cosa succede su scala mondiale, su scala italiana e che cosa proponiamo noi. Sono cose elementari, perché una forza politica deve chiedersi in che mondo mi trovo, in che paese siamo, e che cosa farei io se fossi il governo.
Facciamo un congressino veloce. Ti sei data una risposta, una motivazione? Su scala internazionale per esempio in Brasile sta vincendo l’estrema destra.
Accade dappertutto. Una ipotesi è la delusione fornita dalla sinistra, sia nei luoghi dove ha potuto governare, sia in quelli dove non lo ha fatto. C’è delusione. Gli operai non votano più.
Non votano più a sinistra?
Non votano più. La sinistra ha perduto il suo elettorato.
Sei ottimista sul breve termine?
No. La sinistra del Pd di fatto non ha proposto niente di profondamente diverso da quello che fa la destra e allora perché dovrebbe conservare il suo elettorato?
Ti riferisci a qualcosa in particolare?
L’immigrazione è a parte perché è un fenomeno nuovo. Ma certo che si potesse approvare l’ultimo decreto di Salvini, anche con la firma della Presidenza della Repubblica, era inimmaginabile. Gli stessi diritti che noi vorremmo per noi, non li possiamo dare ai migranti. È qualcosa di insopportabile, non pensi?
Anche per questo il Pd è stato molto criticato dalla sinistra…
Ma quale sinistra? La sinistra non è rappresentata. In verità il più grande partito è quello degli astensionisti. Molta sinistra si è astenuta, non trovando nessuna offerta che la persuadesse. Penso che è un errore astenersi. Quando non si ha una rappresentanza bisogna ricostruirsela.
E tu che cosa pensi?
Io sono una persona di sinistra. Sono stata cacciata dal Pci perché ero troppo a sinistra. Una persona mite come me è stata considerata una estremista. Oggi Bergoglio non credo che mi scomunicherebbe facilmente.
Bergoglio ha fatto il papa sull’aborto, proprio oggi…
È un punto delicato. È meglio lui della piddina di Verona che ha votato contro l’aborto. Vorrei un politico italiano che parlasse come il papa, per esempio sui migranti. Se Minniti fosse un vescovo verrebbe bacchettato da Bergoglio.
Si parla molto di questo governo di destra, di ritorno del fascismo, del razzismo. Chiedo a te che il fascismo l’hai vissuto.
Non sono per dire che siamo agli anni ’30. Sono preoccupata, anche se non credo che il paese accetterebbe un ritorno esplicito al fascismo. C’è la semina di mezzo secolo di democrazia. Ma la battuta di Salvini “prima gli italiani” è qualcosa di intollerabile. Perché “prima gli italiani”? Che cosa hanno fatto di meglio degli altri? Cosa c’entra con le idee che hanno fatto l’Italia? Il fatto che la sinistra italiana non ha avuto il coraggio di votare lo jus soli è veramente insopportabile. Bisogna essere italiani non solo per essere nati qui ma per che cosa allora? Non vorrei andare a frugare e trovare qualcuno che dice che ci sono le facce ariane e quelle non ariane. Sento l’odore di qualcosa di molto vecchio.
Sei stata responsabile della politica culturale del Pci. Chi ti aveva dato questo ruolo?
Togliatti.
E che ne pensi, esistono oggi politiche culturali?
Non mi pare. La cultura significa i valori, per che cosa ti batti. Adesso il partito democratico non si batte più neanche per l’uguaglianza dei migranti. Non lo vedo alla testa e neppure parteggia per la politica delle donne. La 194 è una legge degli anni Settanta. Oggi forse non la rifarebbero più.
Quindi essere del secolo scorso può diventare quasi un vanto?
Assolutamente sì. Io sono del ‘900 e lo difendo. È stato il primo secolo nel quale il popolo ha preso la parola dappertutto. E dove l’ha presa, l’ha presa sostenuto dalla sinistra.
La domanda che in tanti si fanno, anche a sinistra, è come comunicare. Tu frequenti i social network?
No. Zero. Io sono sempre stata povera ma non vorrei dare neanche mezzo euro a Zuckerberg. In gran parte dipende da lui se siamo messi così.
Ci sono però questi strumenti di comunicazione, anche e soprattutto in politica.
Non so se sia una vera comunicazione. Comunicare significa parlare a qualcuno di cui consideri che ha la tua stessa dignità.
Come si fa a parlare anche alla testa e non solo alla pancia? La sinistra sembra afona in entrambi i casi. Non è capace o non sa cosa dire?
Perché non ci crede più. Non è capace. Se la sinistra parla il linguaggio se non proprio della destra comunque dell’esistente, non può essere votata dall’operaio. La sinistra deve parlare a quella che è la parte sociale dell’Italia più debole e meno ascoltata. Quando uno vota il jobs act indebolisce le difese degli operai. Si può continuare a chiamarlo contratto a tutele crescenti, ma la verità è che ha diminuito la forza operaia.
Che idea hai sul Movimento 5 Stelle?
Il Movimento 5 Stelle non è niente. Gli italiani vogliono questa roba informe, generica, si fanno raccontare delle storie. Nella Lega invece cercano un’identità cattiva. Questo è Salvini. Di Maio non è cattivo, non è nulla.
Grazie compagna Rossanda.
Caro compagno… certo è difficile dire oggi questa parola. Non capiscono più in che senso lo dicevamo. È una bella parola ed è un bel rapporto quello tra compagni. È qualcosa di simile e diverso da amici. Amici è una cosa più interiore, compagni è anche la proiezione pubblica e civile di un rapporto in cui si può non essere amici ma si conviene di lavorare assieme. E questo è importante, mi pare.
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