Osvaldo Fabian "Elio"
La battaglia di Ovaro. La liberazione (*) |
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Relativamente a questo ultimo grave scontro armato che seminò tanti lutti e rovine in quello spendido paese, molti hanno avuto modo di rendere personali interpretazioni dei fatti, alcune lacunose, altre non chiare, altre tendenziose, altre decisamente errate. (**) Prenderò le mosse, per ricostruire come effettivamente si svolsero quei dolorosi fatti, dalla versione, peraltro anch'essa in gran parte inesatta, resa da P.A. Carnier nel suo volume "L'Armata Cosacca in Italia". (***) Su questo libro non mi soffermerò più che tanto se non per dire che esso è storicamente inattendibile ed è da prendersi soltanto come un "romanzo", per giunta settariamente malevolo verso la Resistenza, scritto da persona che non ha vissuto quelle tremende realtà avendole solo sfiorate o sentite raccontare quando era ancora troppo giovane e perciò non in grado di comprendere l'esatta dimensione di quel grande dramma storico, con l'aggravante per lo scrittore di avere dato alla sua narrazione un'assurda impronta generale di viva simpatia per le usanze, ovviamente talora pittoresche e molto diverse dalle nostre, di quella banda di predoni ed assassini che furono invece i cosacchi sotto bandiera nazista. Fanno poi sorridere, a dir poco, altri suoi giudizi, frutto evidente di totale disinformazione, come quello sull'origine del movimento partigiano in Carnia attribuita dal Carnier al già descritto compagno slavo Mirko che sicuramente invece giunse ben più tardi e non fu l'iniziatore di un movimento nato in precedenza con altra matrice storica e politica, come pure è già stato ampiamente narrato in questo mio libro. Detto autore d'altronde si è ben qualificato per quel che è attraverso l'impronta generale data alla narrazione, da un lato largamente simpatizzante per i cosacchi e di converso scopertamente e fortemente minimizzante e dispregiativa verso il mondo della Resistenza e dell'Antifascismo carnico. A mio parere è inammissibile e calunnioso minimizzare, come ha fatto il Carnier, sulla tremenda tragedia che il popolo carnico allora soffrì a causa dei cosacchi e minimizzare altresì sull'eroico contributo e tutti gli ideali che mossero i nostri combattenti, per privilegiare e narrare invece in tono entusiastico il folklore, l'esotismo, le tradizioni, gli usi di quell'orda di barbari e di predoni dell'Armata Cosacca relativamente al cui comportamento ed ai terribili lutti e rovine da essa cagionati al nostro povero paese egli ha invece moltissimo sorvolato. Di quel libro, che è scopertamente libro di parte a favore dei nazifascisti e dei loro servi e che a mio parere è sicuramente ed in toto da gettare alle ortiche, peraltro evidenzierò un solo concetto che è quello relativo all'origine ed agli sviluppi della famosa battaglia di Ovaro in ordine alla quale il Carnier ha affermato che essa si era sviluppata non per decisione del Comando delle formazioni garibaldine della Carnia e del C.L.N. locale, bensì per diversa e ben precisa volontà. Ha affermato infatti lo stesso Carnier, pur essendo uomo di siffatta parte, che... «L'idea dell'attacco era il volere di una terza forza di natura borghese, che costituiva una corrente a sé stante, appoggiata dalla Brigata Osoppo». Ha invece il Carnier come al solito falsamente riferito, sulla perpetua linea del tentativo di gettare discredito sulle nostre formazioni combattenti, che «la Divisione Garibaldi... avrebbe potuto concentrare... un nuovo battaglione sulla linea di combattimento, in aiuto a Furore», evidentemente lasciando intendere che le catastrofiche conseguenze dello scontro ai danni della popolazione dovevano essere addebitate all'intenzionale mancato invio di rinforzi in zona da parte delle formazioni garibaldine. L'autore, così dicendo, infatti non si è minimamente reso conto dell'assurdità della sua pretesa e cioè che l'ipotizzato arrivo di un ulteriore battaglione garibaldino, la cui consistenza era in tempi normali di circa 100-150 uomini ed allora appena usciti dal terribile inverno nei bunker in alta montagna invece era molto ridotta (20- 30 uomini al massimo), avrebbe potuto fermare un esasperato intero esercito cosacco di oltre 30.000 feroci combattenti, munito di cannoni e d'ogni altro armamento pesante, dei quali i nostri partigiani invece erano totalmente privi. Su quest'ultima affermazione del Carnier tengo a richiamare le testuali parole dei nostri massimi comandanti garibaldini che nel modesto libro edito subito dopo quei fatti per dare breve resoconto delle azioni armate della Divisione Garibaldi durante l'intera Resistenza, hanno precisato: «Nessuno aveva preavvertito il Comando del piano di azione su Ovaro. Quando se ne venne a conoscenza, ad azione iniziata, altri reparti da poter chiamare tempestivamente in zona non ne esistevano ed era troppo tardi per predisporre aiuti ed appoggio. Il Comando Divisione Garibaldi, dislocato nella zona Voltois di Ampezzo, ebbe notizia dell'avvenuto attacco solamente nella notte del 2 maggio 1945. Il comandante Barba Toni ed il Capo di Stato Maggiore Marco partirono a piedi ed all'alba arrivarono a Mione quando il grosso dei Cosacchi si faceva sotto. Prima loro cura fu quella di controllare se fossero stati organizzati posti di blocco nella valle. I due arrivarono a Mione quando già era in atto l'attacco dei Cosacchi contro Ovaro. Ma né a Mione né nei pressi era più disponibile un'arma. Si può inoltre osservare, riguardo all'attacco di Ovaro, che il Comando Garibaldino aveva diramato ai propri reparti l'ordine di evitare scontri frontali contro massicce forze cosacche allorquando c'era il pericolo che andasse di mezzo la popolazione» (vedasi Diario Storico della Divisione Garibaldi Carnia, pagg. 55 e 63). Di quel drammatico episodio e dei momenti che lo precedettero ho ricordi personali molto nitidi avendo vissuto e tantissimo sofferto in prima persona tutto lo svolgersi di quei tragici avvenimenti. Del C.L.N. della VaI di Gorto in precedenza ho già posto nella dovuta evidenza l'opera illuminata svolta in Carnia durante l'estate del 1944 ed anche dopo nella clandestinità del terribile inverno di occupazione cosacca, opera improntata a precise norme di prudenza per la miglior tutela delle sorti delle popolazioni. Ancora più difficile si accingeva ad essere ora l'attività di quel Comitato del quale facevo parte, in quegli ultimi drammatici momenti di lotta. Mentre altrove già dai primi giorni attorno al 25 aprile quasi tutta l'ltalia stava festeggiando la totale liberazione dall'oppressione nazifascista e la recuperata libertà, in Carnia invece scorrazzavano ancora da padroni i cosacchi semi impazziti per l'incertezza del futuro loro e delle loro famiglie, disperati per quella imminente fine di tutti i loro pazzi sogni che ormai sapevano essere molto vicina. Ricordo che dirigendomi verso Ovaro in bicicletta per partecipare ad una riunione del C.L.N., incrociai colonne di cosacchi armatissimi, al galoppo sui loro cavalli, che si spostavano freneticamente in altre direzioni. Ero uscito da quel terribile inverno come una larva; le ansie, i dolori, il freddo, la fame, mi avevano ridotto quasi irriconoscibile; dai miei normali 70 chili di peso ero ridotto a 45; avevo perduto un figlio, la casa, tutti i miei beni, avevo gli occhi come lucidi di febbre. Ad Ovaro trovai il C.L.N. già riunito che stava discutendo e ripresi il mio posto nel suo seno. Era il 29 aprile e malgrado l'avvicinarsi della primavera faceva ancora freddo: il nevischio vorticava sulle cime e nelle valli ove solo talvolta compariva un timido raggio di sole, ma per il resto pioveva. In cuor mio, in base alle notizie apprese della già avvenuta liberazione dell'intero Friuli ed alle direttive emanate dal nostro Comando Divisione, confidavo che dopo tante peripezie e lutti anche nella nostra zona avremmo potuto festeggiare senza ulteriori traumi il 1° Maggio e la libertà riacquistata assieme ai lavoratori di tutto il mondo. Il C.L.N. data la grave situazione sedeva in permanenza, composto da cinque membri rappresentanti dei vari partiti. Mancò solo per una seduta o due il "conte Burgos", già ufficiale superiore di Marina, ora rappresentante nel C.L.N. della Osoppo, andato ad incontrare gli Alleati per riferire sulla nostra situazione. Nelle mie sistematiche ricerche del dopoguerra di tutto il materiale documentario sulla Resistenza in Carnia, molte cose preziose ho ritrovato, persino quasi tutti i Verbali delle sedute dei vari Comitati di Valle e Comunali durante i difficili momenti dell'occupazione cosacca. Un'unica cosa non ho ritrovato e nessun altro ha potuto reperire: gli storici verbali delle sedute di quel C.L.N. della VaI di Gorto, relativi a quelle tragiche giornate di fine guerra che peraltro, io presente, erano stati sistematicamente ed ampiamente compilati. La perdita di questi preziosi documenti a mio parere non è stata casuale: pensando a quel che poi avvenne quasi certamente vi fu una mano interessata a che non fossero divulgati e che li distrusse in quanto essi avrebbero accertato tutte le personali singole responsabilità dei ceti borghesi e della Osoppo per quanto Ovaro ebbe a patire a causa degli errori di certi resistenti e dei personaggi dell'ultima ora. Conservo peraltro ben vivo il ricordo di quegli storici momenti e di quelle ultime discussioni e non mi sottrarrò al dovere civico, politico e morale di darne fedele testimonianza. Presiedeva il compagno G. Cleva di Prato Carnico ed era una riunione di estrema importanza per la VaI di Gorto, dovendosi decidere quale atteggiamento dovessero tenere le popolazioni e le nostre formazioni combattenti in quel momento in piena fase di ricostituzione, verso le disperate orde cosacche e tedesche in procinto di abbandonare la Carnia. Dirò peraltro che il Comitato prima di allora sulla necessità di tutelare in tutti i modi l'incolumità delle popolazioni e la salvezza dei beni residui era sempre stato fermo ed unitario ed anche i pochi incerti erano stati trascinati dalla fermezza dei più. Nelle discussioni di quei giorni l'euforia per la vicina libertà, nonostante le prevedibili gravi difficoltà che si annunziavano in quelle ultime ore di occupazione, portò taluni a prospettare assurde ipotesi di insurrezione delle popolazioni e di intervento armato delle formazioni partigiane nel pazzesco intento di bloccare in Carnia le truppe nemiche in ritirata, al fine di prenderle prigioniere, fondando tale impossibile tesi unicamente sulla labile ed indimostrata ipotesi di una loro totale demoralizzazione e disgregazione. Era un sogno pazzo che non teneva conto di una situazione di fatto ben precisa, del tutto contraria ed ovvia, che scavalcava e travisava la realtà, in quanto chiunque, anche uno sprovveduto, avrebbe potuto capire che i cosacchi ed i tedeschi prima di arrendersi avrebbero compiuto qualsiasi tentativo anche feroce pur di riguadagnare la loro vicina e confinante patria dalla quale li separava il solo nostro Passo di Monte Croce Carnico distante meno di 30 chilometri da Ovaro. Intervenni duramente per dimostrare l'assurdità dell'alternativa prospettata da quei pochi pazzi; tutti gli altri mi appoggiarono e la discussione si fece accesa e generale, come fu fatto constare a Verbale della Seduta. Ricordo che era presente un commissario della Brigata Osoppo, l'amico Da Monte, pallido, pensoso ed anche evidentemente incerto ma sempre gran galantuomo, l'unico che in passato avesse sinceramente tentato anche di superare le divergenze tra le due formazioni onde pervenire ad una loro unificazione, il quale ad un certo punto interruppe il confuso vociare dei presenti dandomi la parola e chiedendomi di esporre con chiarezza il mio pensiero con l'autorità che mi veniva da tante precedenti battaglie. Nel silenzio generale ristabilitosi, guardando fermamente negli occhi i pochi ìncerti, risposi con gravità queste testuali parole che mi restano tutt'ora scolpite nella mente nonostante gli anni trascorsi: «Ho già detto nelle precedenti discussioni ed ora ripeto il parere che non è soltanto mio ma è quello del Partito che rappresento e delle Formazioni Garibaldine, dichiarandomi scandalizzato dalle affermazioni di alcuni che hanno espresso perplessità ed affacciato tesi contrarie rispetto ad un problema che presuppone una unica ovvia decisione ed invito tutti ad assumersi le proprie responsabilità perche ognuno debba rispondere un domani di esse davanti all'intero popolo carnico. Mi dispiace offendervi ma chi prospetta assurde tesi contrarie non è né un vero politico, né ha il minimo senso militare. Al nemico che fugge ponti d'oro, è una regola di sempre, che sicuramente va rispettata oggi a difesa delle nostre popolazioni. Cosa volete dopo tante sciagure in Carnia? Ulteriore sangue? Rovine ed ancora rappresaglie? Pensare di attaccare ora i tedeschi ed i cosacchi che sono padroni della nostra terra, con le poche formazioni partigiane esistenti, sarebbe una pazzia politica e militare. Occorre perciò attendere evitando inutili provocazioni.» Questo in sintesi fu quanto dissi di fronte al C.L.N. Val di Gorto e di fronte idealmente all'intera popolazione carnica e così fu anche scritto in mia presenza ed a mia precisa richiesta nel Verbale della seduta. La discussione riprese poi abbastanza confusa com'era stato prima. Alla fine peraltro una netta maggioranza del consesso si dichiarò d'accordo con me sulla necessità di evitare qualsiasi provocazione con le truppe nemiche in ritirata, che si sarebbe ritorta in ulteriore grave danno per la popolazione e così fu verbalizzato. La riunione fu poi sospesa con l'accordo di riprenderla nel pomeriggio.
Ma gli eventi pecipitavano. Giungeva notizia che in tutte le nostre valli stavano formandosi grosse colonne ciascuna di migliaia di cosacchi a cavallo, con tutte le loro armi anche pesanti; infinite colonne di carretti sui quali venivano sistemate tutte le loro cose, le donne, i vecchi, i bambini, più i 30.000 combattenti, un totale di circa 50.000 persone disperate, i cannoni, gli equipaggiamenti e tutto quanto da essi ovunque predato e che le colonne stavano lentamente riunendosi per formare un unico grosso convoglio che avrebbe guadagnato il vicino confine austriaco. A ciò si aggiungeva la notizia che anche i forti contingenti di truppe tedesche di stanza a Tolmezzo, accresciuti dalle colonne sopraggiungenti in ritirata, anch'essi di molte altre migliaia di agguerriti combattenti con tutto il loro armamento pesante stavano preparandosi per transitare per Ovaro e nelle nostre valli onde riguadagnare i valichi verso l'Austria. Ripresa la discussione nel tardo pomeriggio, subito intuii che qualcosa stava cambiando ed espressi le mie preoccupazioni all'amico Presidente Cleva che purtroppo invece non recepì il pericolo. Ed ecco improvvisamente il fatto nuovo. Un camion proveniente da Rigolato carico di uomini col fazzoletto verde dell'Osoppo dei quali soltanto alcuni erano armati, tutti con divise fiammanti, tutti entusiasti, tutti inneggianti ad immediati combattimenti contro il nemico, si fermò di fronte al Municipio ed irruppe nella sala ove si svolgeva la riunione del C.L.N. assieme a numerose altre persone civili estranee. Successe una indescrivibile confusione nella quale invano noi membri responsabili del C.L.N. cercammo di ristabilire l'ordine e di riavere la parola. L'entusiasmo dei neo arrivati e degli estranei, contagiò anche uno o due dei membri del C.L.N. precedentemente indecisi e così tutti uscirono dalla sala cantando ed inneggiando a vittoriose azioni che avrebbero schiacciato il nemico. Restammo nella sala in due-tre senza nulla poter più fare, cosicché poi uscimmo anche noi infilando il bracciale tricolore del C.L.N. con l'intento almeno di controllare l'evolversi delle cose e frenare se possibile quei pazzi. In piazza l'entusiasmo era al massimo: partigiani della Osoppo di elevato grado e civili, una piccola folla, osannando che la guerra era finita, cantavano e ridevano abbracciandosi e la festa continuava. Gli altri del C.L.N. ormai erano spariti. Vista inutile in quel luogo la mia presenza, in bicicletta mi diressi a Cella ove sapevo che si trovavano alcuni garibaldini, onde ragguagliarli della situazione e consigliarli ad essere equilibrati e guardinghi evitando di farsi trascinare in qualsiasi avventura. Mi fermai poi un po' con quei compagni per discutere la situazione generale. Le cose peraltro ad ogni minuto stavano cambiando in modo deteriore in Ovaro ove una confusione indicibile forse provocata da qualcuno a proposito, regnava sovrana. Accorsi nuovamente ad Ovaro cercando invano in quella ressa ed in quella confusione di trovare gli altri membri del C.L.N., ma mi accorsi che questo era stato totalmente soverchiato e messo da parte dagli estranei e dai militari dell'Osoppo che lo avevano in pratica esautorato. Fu così che questo gruppo di persone civili e militari della Osoppo ed in pratica chi gridava di più tra essi, usurpando le funzioni e le legittime decisioni del C.L.N., impose tra gli scroscianti applausi ed evviva di gente d'ogni genere la pazzesca decisione che bisognava far fronte con le armi alla marea di circa 50.000 cosacchi e familiari, senza tener conto delle ulteriori sopraggiungenti colonne corazzate tedesche, sbarrando loro il passo ed imponendone la resa: ricordo perfettamente che questi illusi della cui buona fede vi è moltissimo da dubitare, annunziarono addirittura di avere in corso avanzate trattative per la resa e per il passaggio alle loro dipendenze di buona parte dell'esercito cosacco stesso che sarebbe stato bloccato e preso prigioniero. Poi questo gruppo, falsamente a nome del C.L.N. del quale invece aveva esautorato le funzioni, inviò una staffetta presso l'unico reparto armato garibaldino che si trovava nelle vicinanze ordinando che esso accorresse immediatamente in Ovaro a disposizione del C.L.N. con il preciso ed unico scopo di «prendere prigionieri i cosacchi». L'unico nostro reparto in tutta la zona, e sicuramente non ne esistevano altri comunque raggiungibili, era quello garibaldino comandato da Furore (Elio Martinis, nella foto), nominalmente il Btg. Leone Mansueto Nassivera, ma in realtà invece un piccolo gruppo di uomini stremati, in piena fase ricostitutiva, pochi uomini, laceri e male armati e con poche munizioni, reduci dal duro inverno trascorso in alta montagna: non un intero Battaglione, quindi, come ha affermato il Carnier, ma una ventina di uomini soltanto, appena usciti dai bunker e dai terribili patimenti sofferti in quell'inverno di fame e di morte. Furore dopo questi fatti narrò ampiamente della sorpresa in lui provocata da questi ordini che contraddicevano le direttive di massima precedentemente diramate a tutti i suoi reparti dal Comando Divisione Garibaldi che aveva ordinato di non accettare combattimento con i cosacchi ed i tedeschi in fuga onde tutelare la salvezza delle popolazioni. Furore precisò anche che, ricevuto l'ordine dal C.L.N., non essendo riuscito a porsi in contatto con il Comando della sua Divisione per avere conferma ed istruzioni e trattandosi d'altronde non di attaccare il nemico, come gli era stato detto, ma solo di «prenderlo prigioniero», dovendo decidere da solo nell'immediatezza, aveva dovuto obbedire alla urgente chiamata che gli perveniva a nome di un organo legale di governo qual era il C.L.N., aggiungendo che non si era sentito di rispondere a quell'ordine con un rifiuto, nonostante esso fosse carico di troppe incognite, sia perché non intendeva si potesse mai dire che Furore ed i suoi garibaldini si erano rifiutati di far fronte ai nazifascisti anche nelle più precarie condizioni, sia perché ancora non si era sentito il coraggio di lasciare la indifesa gente del luogo alla mercé delle orde cosacche. Ecco quindi Furore accorrere in Ovaro con i suoi pochi uomini del Btg. Leone Nassivera: in quella ventina di combattenti c'era il comp. Osoppo, comandante di Compagnia, che il giorno dopo sarebbe gloriosamente caduto; il comp. Barba di Rigolato con suo fratello Arduino; sopravvenne Nitro, comandante del Btg. Friuli accompagnato da un solo suo compagno, tutti vecchi e duri combattenti, tutti senza il fazzoletto rosso che avevano dovuto riporre in tasca per tassativo ordine ricevuto dal C.L.N. di Ovaro e fecero il loro ingresso nella piazza principale del paese con le barbe incolte e gli abiti stracciati, tra l'enorme curiosità dei presenti ai quali erano note le loro gesta. In testa marciava l'intrepido Furore distrutto nel fisico ma mai domo, redivivo coi suoi uomini dalle inenarrabili peripezie della dura lotta, di quel terribile inverno trascorso in alta montagna sempre fieramente in armi. Furore eroico, simbolo del più bello dell'epopea partigiana, che in quel memorabile durissimo inverno con pochi era rimasto in armi con il fazzoletto rosso mentre quasi tutti ormai avevano dovuto rassegnarsi a nascondere armi, divise ed identità personale, per sottrarsi alla stretta ricerca nemica; Furore reduce da quelle battaglie estreme, da quella fame, da quelle tremende notti trascorse lassù tra la tormenta, dormendo tante volte con i suoi garibaldini anche tra i rami degli abeti per rendere vane le ricerche dei cosacchi e dei loro cani. Entravano quei duri combattenti in Ovaro, emaciati in volto ma con l'occhio brillante, coscienti di doversi ancora una volta impegnare in una lotta estrema; pur sapendo di essere pochissimi con scarse armi ed ancor più scarse munizioni nell'assurdo intento di far fronte e catturare un intero armatissimo esercito di 30.000 persone ma col pensiero ben chiaro comunque di difendere la popolazione; con le loro divise lacere e stinte innanzi alle tante invece nuove, ben piegate e profumate di quei partigiani dell'ultima ora che gridavano in piazza, dei partigiani del dopo vittoria, grandi parolai, salvo pochi d'essi, eroi di cartapesta inadatti nel momento della battaglia estrema, sbucati all'aperto all'ultimo minuto a raccogliere, come poi raccolsero, onori e ricompense, quel premio che non certo essi ma i primi avrebbero largamente meritato. Alcuni cosacchi perfettamente armati ed allineati erano in piazza al comando del Maggiore Nauziko noto nella zona come uomo particolarmente crudele, che era stato convocato per trattative di resa dagli osovani. E fu un incontro davvero carico di terribile tensione, una scena indimenticabile per coloro che hanno avuto la ventura di viverla, l'incontro tra il gruppo dei veri e duri combattenti partigiani di Furore e quelle truppe che sino ad un'ora prima avevano sparato contro di loro e che tante sciagure avevano causato alle genti carniche. Trovai la sala del consiglio occupata da una marea di gente, con una nominale riunione del C.L.N. in corso, ma ivi non vidi alcuno dei veri componenti del vero C.L.N. esautorato. Entrai e gridando riuscii ad ottenere la parola: protestai vibratamente a nome del Partito per quello che stava accadendo ma il mio intervento non ebbe alcun effetto e si perse tra le risa ed il continuo vociare degli altri osannanti allo scontro armato ed alla resa cosacca. Mi resi subito conto della gravità del momento; che era in gioco l'interesse primario della salvezza delle popolazioni locali; che si prospettava un autentico dramma storico, che occorreva fossero puntualizzate al massimo le responsabilità che in quel momento ciascuno si assumeva e perciò gridando ottenni quantomeno che la mia presa di posizione fosse fatta risultare per iscritto nel Verbale della seduta, in quel verbale poi così non troppo misteriosamente scomparso. Ma purtroppo i capi militari e politici della Osoppo, con altri nuovi elementi della borghesia della zona mai visti in precedenza rispetto alla lotta, avevano preso il sopravvento imponendo una nuova assurda politica di scontro armato onde ottenere la resa di un intero esercito nemico, esautorando del tutto illegittimo C.L.N . In serata venni a sapere che questo nuovo consesso politico-militare si era di nuovo riunito e che era in corso una animata discussione. Accorsi immediatamente ancora una volta anche se non invitato e trovai nella sala moltissime persone quasi tutte a me totalmente sconosciute, assieme a molti capi militari della Osoppo e nessuno della Garibaldi i quali discutevano animatamente le condizioni di resa delle truppe cosacche. Era presente anche il maggiore cosacco Nauziko venuto nominalmente a parlamentare attorniato da parecchi suoi ufficiali, il quale troneggiava nella sala sorridendo. Appena fui entrato un responsabile militare della Osoppo mi affrontò e concitatamente mi ordinò di non intervenire nella maniera più assoluta nella discussione perché altrimenti mi avrebbe fatto uscire con la forza, in quanto, aggiunse, «...i cosacchi hanno una tremenda prevenzione ad incontrarsi con i garibaldini ed i comunisti». Mi sedetti perciò in un angolo da dove seguii tutta la seduta senza poter intervenire, ascoltando le assurde discussioni di quei poveri illusi ed esaltati che si affannavano a pretendere da 50.000 cosacchi la resa contrattandone le condizioni. Il Maggiore cosacco parlava poco, sorrideva e visibilmente tergiversava per guadagnare tempo ed è logico che così facesse, alla luce di quanto poi avvenne, essendo chiaro che egli ben conosceva le direttive unitarie dei suoi connazionali e la strategia da ciò derivante e sapeva anche che da Villa Santina era in marcia verso Ovaro, risalendo la valle per portarsi ai Passi per l'Austria, l'intero esercito cosacco e tedesco. Il Presidio cosacco di Muina distante da Ovaro pochi chilometri per il momento non si era mosso ma controllava la Valle di Gorto nel suo punto più vulnerabile verso levante, in attesa di unirsi anch'esso alla colonna in ritirata, raccogliendo tutti i cosacchi di Tolmezzo, Verzegnis e Villa Santina. La riunione finì con un nulla di fatto in quanto il Maggiore cosacco mantenne la sua posizione di attesa con vari pretesti cosicché essa venne aggiornata al giorno successivo, né quegli strateghi da strapazzo dell'ultima ora si avvidero quanto meno del fatto che il tempo giocava sicuramente a loro danno per l'approssimarsi del grosso dell'esercito nemico. Mi recai a Chialina molto stanco e demoralizzato per passare qualche ora di riposo e con me vi era il segretario del C.L.N. di Prato Carnico. Verso mezzanotte bussarono al portone ed entrarono alcuni partigiani della Osoppo accompagnati da alcuni russi georgiani con un ufficiale di questi ultimi, un piccolo gruppo passato a collaborare con i primi, tutti comandati dal comp. Amleto della Osoppo, che trainavano una vecchia mitragliatrice con le ruote e con lo scudo di protezione che fu da loro sistemata ad una finestra del corridoio con la canna puntata verso la strada sottostante. Dopo di che i sopravvenuti si buttarono a terra a riposare dicendo che stavano aspettando ordini. Nell'attesa, che fu lunga, potei conversare per parecchio tempo con l'ufficiale georgiano che già conoscevo in quanto in un primo tempo, volendo disertare ed unirsi a noi, era stato indirizzato a me per accordi di collaborazione ed io lo avevo inviato da Furore onde venisse da lui utilizzato, un ex capitano dell'Armata Rossa, il cap. Akaki, a suo tempo già prigioniero dei tedeschi, il quale raccontò di essere professore in Lettere e Filosofia, insegnante in un liceo russo. L'ufficiale parlava in uno stentato italiano quasi incomprensibile ma invece molto bene in francese, cosicché sul terreno di questa lingua che conoscevo per averla parlata a lungo durante l'emigrazione potemmo capirci perfettamente. Rimasi stupito per la sua alta preparazione culturale e mi parlò con entusiasmo e profonda cognizione di Marx, Lenin, Stalin e poi passò con altrettanta profondità di pensiero a Schopenauer, Schiller, Goethe, Dante, Milton ed a tanti altri filosofi, letterati e grandi uomini della cultura universale antica e moderna, da lasciarmi veramente estasiato ma anche umiliato quando ad un certo punto esclamò che noi italiani non sapevamo neppure l'immenso patrimonio culturale della nostra terra, quasi ignorando nomi come Giordano Bruno, Nicolò Machiavelli, Tommaso Campanella ed altri universali maestri del sapere. Mentre discorrevo pacatamente con quell'erudito e civilissimo personaggio, come ora si rivelava, il mio pensiero intanto non poteva dimenticare che egli era stato uno dei tanti traditori della patria sovietica, uno dei tanti nostri aguzzini sino a quel giorno, uno che forse con le sue armi aveva ammazzato miei compagni o deportato mio figlio Vero poi deceduto nei Lager nazisti od aveva combattuto contro i nostri compagni del Btg. Stalin al Rifugio De Gasperi. Ora egli evidentemente con quella sua partecipazione dell'ultimo minuto alla guerra antifascista, si proponeva di far dimenticare le sue precedenti colpe e riscattarsi per il giudizio finale, come poi d'altronde ebbe modo di fare con la sua morte da valoroso, della quale parlerò più avanti. Ma mentre discorrevo con lui in quello strano silenzio il mio pensiero era altrove, ero irrequieto, presagivo la tempesta che sarebbe presto venuta. Al primo chiarore del mattino mi ero da poco assopito, quando udii un tuono, boati tremendi e poi un diluvio di spari che facevano tremare la casa. Un quadretto appeso sopra il divano ove mi ero assopito mi cadde in testa. Balzato in piedi uscii per rendermi conto di cosa stava succedendo e vidi nel corridoio il capitano-filosofo che dalla finestra con la mitragliatrice sparava fittissime raffiche contro l'edificio vicino. Sbirciai da altra finestra e scorsi che l'edificio della ex caserma dei Carabinieri, situato a circa settanta-ottanta metri di distanza, usato come accantonamento di altre truppe cosacche, presentava la facciata verso strada quasi completamente demolita per lo scoppio di una carica esplosiva piazzata coraggiosamente, come seppi dopo, dal garibaldino Max (Giacomo Da Pozzo). Dalle stanze di tale edificio semidistrutto, sopra al pianoterra, tra le grida dei morenti, i cosacchi superstiti incrociavano il tiro delle loro armi automatiche contro la casa dove mi trovavo e contro il valoroso capitano georgiano e gli altri partigiani osovani. Le raffiche fischiavano sopra la mia testa e calcinacci mi piovevano addosso. Vista l'intensità del combattimento e rendendomi conto dopo un po' di essere più che altro di impiccio in quanto ero armato solo di pistola, uscii dal retro per recarmi a controllare la situazione dall'esterno e nel centro del paese. Ero sdegnato e preoccupato per il risvolto che le cose avevano preso. Nel chiaro-scuro del mattino scorsi un piccolo reparto di altri uomini armati osovani indecisi ove dirigersi, li fermai e li incitai a seguirmi, il che fecero, onde almeno portare rinforzo a quelli che già stavano combattendo, cosicché ci dirigemmo verso l'abitato e qui portai in posizione il reparto che iniziò a sparare partecipando all'azione che portò all'unico momento favorevole agli attaccanti e che ebbe come effetto la resa e la cattura del superstite presidio dei cosacchi di Chialina. Chiesi cos'era successo nella notte e venni a sapere che il Maggiore Nauziko che aveva così a lungo parlamentato il giorno prima e fatto dilazionare e fallire la trattativa per la resa, si era poi asserragliato nel suo rifugio con i suoi cosacchi fedeli portando con sé anche alcuni ostaggi del luogo e quando alcuni capi militari della Osoppo si erano ripresentati ripetendo ingenuamente le richieste di resa aveva risposto con scariche di armi automatiche, cosicché gli Osovani si erano dovuti ritirare e la battaglia era iniziata per ordine dei capi della Osoppo. Di notte poi una cassa con circa mezzo quintale di esplosivo era stata posta dai nostri garibaldini accanto al muro dell'edificio ove erano accantonati i cosacchi ed era stata fatta esplodere all'alba. Chi fossero e da dove provenissero quelle forze irresponsabili che avevano provocato tutto ciò ormai è noto, come a me fu noto allora sin dal primo istante. Purtroppo era avvenuto l'incontro di due fattori di diversa natura, la collusione tra i quali è data per pacifica persino dal Carnier nel suo libro, collusione che determinò catastrofici risultati. Da un lato uno degli elementi determinanti fu l'atteggiamento assurdamente oltranzista assunto da certi capi dell'Osoppo e degli industriali del luogo vogliosi, contro ogni logica militare, di "attaccar briga" con uno strapotente nemico, in circostanze assolutamente sfavorevoli, forse mossi dalla smania di un supplemento di glorie militari. Quali speranze infatti potevano avere questi pazzi strateghi affrontando oltre 30.000 cosacchi furiosi, armatissimi anche con armi pesanti, scagliando contro di essi un centinaio al massimo, a dir tanto, di garibaldini ed osovani malissimo armati, con scarse munizioni e per giunta senza che fosse stato predisposto un qualsiasi piano di battaglia? Dall'altro lato vi fu un chiaro movimento posto in essere da ben noti industriali della zona e da loro fiancheggiatori al fine di provocare un episodio, sia pur tardivo, che potesse attestare una loro diretta ed attiva partecipazione alla lotta contro i nazifascisti onde far perdonare o dimenticare tutta una vita di colpevole loro assenteismo e di rottura con i problemi sociali delle popolazioni carniche, oltre che di aperta connivenza dapprima con il fascismo dal quale molti di essi per vent'anni avevano tratto protezione, onori, potenza e ricchezza, poi con i nazisti ai quali avevano continuato a vendere legname anche a scopi bellici traendone ulteriori ricchezze. Lo stesso Carnier, nel suo citato libro, ha individuato a chiare lettere il personaggio responsabile di questo assurdo connubio politico-militare nel comandante osovano Paolo (Alessandro Foi), comandante della 5a divisione Osoppo Pal Piccolo avente giurisdizione su tutta la Carnia e non sono a conoscenza di querele, smentite o richieste di accertamenti per provare il contrario né da parte del personaggio indicato stesso né da parte dei suoi comandi superiori. lo stesso d'altronde sono testimone diretto che egli fu uno dei più esagitati propugnatori dell'assurda tesi dello scontro armato e l'esautoratore del legittimo C.L.N. L'ansia di quei ceti industriali d'altronde era evidente in quanto essi come detto, persino negli ultimi tempi dell'occupazione nazista avevano trescato e fornito materiali al nemico sterminando il patrimonio boschivo demaniale, continuando ad arricchirsi smisuratamente, continuando a danneggiare sistematicamente da oltre vent'anni gli interessi popolari ai cui bisogni erano rimasti sempre sordi. Evidentemente questi ceti industriali non avevano ritenuto sufficiente per rifarsi una verginità il saltuario e comunque ultramodesto aiuto pecuniario da essi offerto durante il periodo della Resistenza contribuendo alle sottoscrizioni lanciate dai C.N.L. e ben si comprende il perché in quanto con tali pochi contributi di danaro alla Resistenza a mio parere avevano restituito meno di un milionesimo di quanto avevano depredato in tanti anni. Questi industriali e capitalisti della zona, direttamente o per mezzo dei loro servitorelli, erano intenzionati a perpetrare qualsiasi altro crimine antipopolare, mascherato a parole con la parvenza di un presunto atto eroico contro i tedeschi ora che erano vinti, pur di riuscire a reinserirsi nel gioco dell'ltalia del dopoguerra con la maschera della verginità. Detto scopo fu da essi ricercato eccitando e turbando gli animi dei già tanti politicamente indecisi, dei troppi impreparati ed immaturi per quei momenti che erano anche di profondo rivolgimento sociale, indirizzandoli come strumenti, talora consci ma più spesso inconsci, a commettere atti inconsulti gravemente lesivi degli interessi delle genti. Tale vile proponimento venne attuato con la connivenza e l'appoggio dei famosi eroi partigiani da strapazzo dell'ultima ora, traendo vantaggio dal sangue della gente indifesa e dagli eroismi di Furore e dei suoi uomini che nel momento estremo della lotta, come in concreto è avvenuto, furono lasciati quasi soli, con pochi altri elementi di base dell'Osoppo e della Garibaldi, a combattere contro la sopraggiunta marea cosacca; traendo vantaggio, questi eroi fasulli, da un episodio dolorosissimo, dal sangue e dalle ulteriori inutili stragi della povera gente dei luoghi posta in balia di un furente e soverchiante nemico mentre essi, venuto il momento decisivo, erano fuggiti né altro avrebbero potuto fare davanti ad un intero feroce esercito deciso ad aprirsi la strada con qualsiasi mezzo verso l'ipotizzata salvezza. Non si indigni né si stupisca il paziente lettore per quanto ho affermato: la verità è, e nessuno lo potrà contestare, che anche tra i partigiani cosiddetti combattenti vi furono accanto ai partigiani veri, coscienti e duri, che veramente combatterono a fondo e pagarono di persona, anche quelli fasulli. Vi furono gli eroi ma vi furono anche i pavidi ed i vili. I primi, i veri combattenti, non furono molti perché di essi pochi sono i sopravvissuti e sono proprio quelli che dopo la guerra sono stati rigorosamente messi da parte dai cosiddetti benpensanti e dai "cadreghinisti" e talvolta più duramente perseguitati. I secondi, gli opportunisti, furono la grande maggioranza e sono coloro che ovviamente scansando pericoli si salvarono giocando sulla pelle dei veri combattenti, conservandosi alle glorie del dopoguerra ed alla mietitura di infinite immeritate successive ricompense. Questa è una dura verità storica, una amara constatazione che nessuno potrà smentire, che pochi hanno il coraggio di dire e di riconoscere, ma che farà insorgere soltanto coloro che hanno la coda di paglia. È un dato di fatto che oggi dopo trent'anni da quegli episodi nessuno potrà seriamente contestare; un vero dramma politico e sociale posto a tacere dalla classe dominante del dopoguerra per evidenti ragioni di opportunità e di protezione dei suoi interessi ed anche purtroppo con il connivente favore di certe opposizioni di comodo di questi ultimi decenni che tradiscono i veri interessi dei lavoratori. Sostai per breve tempo a Chialina vicino all'edificio semi distrutto dall'esplosione: alcune persone stavano demolendo travi e calcinacci pericolanti che cadevano al piano sotto terra, onde consentire la ricerca dei morti. Non potei in quel momento non ricordare per un attimo che nel giugno 1933, proprio in quelle cantine, ex caserma dei Carabinieri, ero stato tradotto in manette da detti Carabinieri e rinchiuso in cella prima di essere trasferito sempre incatenato ad altre innumerevoli carceri fino a giungere al confino fascista di Ponza ove avevo "villeggiato" per tre anni con tante anime elette. Nell'edificio man mano che si sgombravano i rottami affioravano cadaveri di uomini, donne e bambini russi, deturpati dal tremendo scoppio. Molti abitanti del luogo erano scesi nei sotterranei per aiutare a ricomporre e portar fuori i morti. Senonché ad un certo momento percepii od immaginai, forse sbagliando, un certo movimento sospetto da parte dei soccorritori. Era noto che i cosacchi portavano sui loro corpi notevoli valori in monete, orologi, preziosi d'oro e d'argento ed altre cose che essi avevano precedentemente razziato ovunque alle nostre genti. Fu così che per prevenire qualsiasi episodio disdicevole o sospetto che beni rinvenuti potessero sparire, quale membro del C.L.N. dapprima allontanai pistola alla mano tutti i presenti, poi chiamai nostri compagni combattenti affinchè sorvegliassero attentamente le operazioni di recupero, con l'ordine di raccogliere tutti i valori e consegnarli al C.L.N. in Comune. Mi avviai verso il centro di Ovaro ove la battaglia continuava ad infuriare attorno al Municipio nel cui vasto edificio si erano asserragliati i cosacchi. Il combattimento purtroppo aveva assunto ormai quell'aspetto di battaglia frontale di posizioni che noi garibaldini avevamo sempre sconsigliato e cercato di evitare dove fosse possibile ed i due opposti schieramenti continuavano a scambiarsi fitte raffiche di ogni sorta di armi. Molti valligiani erano intanto scesi dalle borgate, non soltanto gente curiosa di vedere; molti, compresi alcuni vecchi, erano accorsi con l'intento di dare il loro contributo a quell'ultima battaglia contro i nazifascisti. Stanchi di tante prepotenze nemiche, forse risposero all'istinto di farla finita contro il nemico nazifascista che tanto danno aveva arrecato alle nostre genti e si erano armati, scendendo verso gli spari, con tutte le possibili armi residuate e gelosamente occultate per anni, anche fucili da caccia caricati a pallettoni e non potei non sorridere ma anche compiacermi quando mi superò un vecchio compagno socialista di Comeglians, R. Pittini, ben più anziano di me che allora avevo 46 anni, il quale marciava impettito e sicuro, nonostante i tanti anni che aveva, col lungo fucile mod. 91 in spalla residuato dalla guerra 1915-18 e che forse lui stesso aveva usato allora contro gli austriaci e conservato poi, diretto anch'egli verso il luogo ove si sentiva sparare. Arrivai a Chialina in quel momento libera, staccai uno stallone cosacco, un bollente cavallo col quale al trotto ed al galoppo raggiunsi in breve Pieria ove volevo raccogliere tutti gli altri rinforzi possibili per portarli ad Ovaro o quanto meno per proteggere la VaI Pesarina. Trovai a Pieria alcuni compagni responsabili e passai loro questo incarico, poi ripresi immediatamente la galoppata verso Ovaro, ma ad un certo punto incontrai la colonna dei circa centocinquanta cosacchi catturati a Chialina nel mattino, scortati da alcuni partigiani e civili armati che li dirigevano più lontano che potevano dalla zona del perdurante scontro. Mi arrestai e quando i partigiani di scorta mi chiesero dove avrebbero potuto portare i prigionieri, dissi loro di alloggiarli provvisoriamente a Prato Carnico nella ex Casa della G.I.L. sorvegliandoli poi attentamente. Raggiunsi nuovamente Ovaro ove la furibonda lotta continuava. Il fumo del Municipio in fiamme e l'acre odore degli spari si univano nel già plumbeo cielo contribuendo a formare un quadro di inaudita desolazione. Simbolo dell'ardimento e dello spirito di sacrificio di tutti i Garibaldini, Furore era sempre là, primo tra i primi, lottando come un leone con i suoi uomini, prodigandosi in gesti di audacia, persino salendo sul tetto del fortilizio nemico per gettarvi esplosivo. Rigirai la periferia di Ovaro e per combinazione mi capitò di fronte il più autorevole capo militare della Osoppo, il più esagitato nella riunione della sera prima a chiedere lo scontro armato contro tutto l'esercito cosacco, il quale ora si aggirava colà tranquillo, sufficientemente lontano dagli spari che probabilmente gli riuscivano molesti, con la sua bella divisa pulita e ben stirata, le guance ben rasate e profumate, un fiammante mitra sulle spalle con molti caricatori pieni dai quali non mancava un colpo e che invece tanto sarebbe servito a quelli che invece erano rimasti quasi senza munizioni ma continuavano a sparare furiosamente in quel momento a distanza ravvicinatissima, di angolo in angolo del paese, contro il nemico soverchiante. Ecco dunque uno dei massimi colpevoli dell'inutile tragica ora e perciò furente lo avvicinai gridando e contestandogli le sue gravi responsabilità. Rispose sorridendo con calma serafica e con termini altezzosi di non temere perché i cosacchi stavano per arrendersi ma che la loro resa sarebbe stata trattata ed accettata solo da quelli della Osoppo e non da quelli della Garibaldi perché il merito della resa stessa e della vittoria sul nemico era tutto e soltanto dei primi. Gli gridai che era un pazzo ad ipotizzare simile soluzione e gli chiesi se almeno avesse predisposto misure adeguate per fronteggiare l'imminente ritirata dell'intero l'esercito cosacco, per proteggere i paesi prima della stretta di Ravascletto, anche per evitare eventuali rigurgiti offensivi nemici dalla VaI But che avrebbero potuto prenderci alle spalle. Non mi rispose ed infatti nulla avrebbe potuto rispondere alla mia specifica domanda dato che nulla quei strateghi da strapazzo avevano predisposto in tal senso, cosicché preferì allontanarsi sempre sorridendo non già verso gli spari ma in tutt'altra direzione. Per carità di patria e per non allargare inutili ulteriori polemiche e screzi non farò il nome di quell'eroe da strapazzo che nel dopoguerra fu invece beneficiato da molti onori e prebende, ma l'identità dello stesso è del tutto nota a coloro che soffersero sul luogo quei momenti drammatici. Il mio caro amico Da Monte non negherà di avere anch'egli disapprovato, almeno in cuor suo, ciò che senza sua colpa stava purtroppo succedendo: ancor oggi ho ben impresso nella mente il suo volto di gran galantuomo che scuoteva disperatamente la testa dicendo che doveva subire le assurde scalmane degli esagitati, dei non preparati, dei non idonei rispetto a quelle supreme circostanze.
Poco più indietro molti curiosi osservavano la scena e vidi tra essi, seduto su una antiquata carretta, l'amico G. Cleva mutilato di una gamba, che osservava tranquillo lo spettacolo come fosse a teatro. Percorrendo poi la prima linea di fuoco raggiunsi il filosofo della precedente notte, il capitano dell'Armata Rossa Akaki che aveva combattuto con la sua mitragliera a Chialina, mi avvicinai e notai che stava smontando un mitragliatore perché si era guastato. Tentai di aiutarlo, quale meccanico ed esperto di armi, ma fu inutile perché un ingranaggio si era rotto ed avrebbe dovuto essere sostituito: sentito ciò egli noncurante del pericolo si alzò afferrando la pistola dicendomi che avrebbe continuato a combattere solo con essa. Ma ad un certo punto compresi che qualcosa di nuovo e di grave stava succedendo e che la battaglia stava prendendo un'altra ben più terribile piega, come avevo sempre temuto. Stava infatti sopraggiungendo l'intero esercito dei 30.000 combattenti cosacchi in ritirata. Forti contingenti di cadetti cosacchi molto bene armati erano comparsi sopra il paese, giungendovi indisturbati attraverso il tracciato della ex ferrovia "decauville" e lo investivano ormai sul fianco. In perfetto ordine e con buona tattica militare i cadetti si erano infiltrati tra i fitti abeti raggiungendo inosservati le soprastanti alture vicino alla borgata di Liaris e da questa posizione avevano cominciato a sgranare raffiche precise sul fianco ed alle spalle dei nostri combattenti. Percepii il sibilo e la direzione delle pallottole e mi resi conto in un attimo della manovra avvolgente nemica cosicché urlando cercai di farmi capire da tutti i compagni presenti indicando il nuovo pericolo. Ripassai ove il capitano Akaki stava sparando con la pistola e gli urlai di ritirarsi con me ma egli rifiutò facendomi segno che aveva ancora qualche caricatore e vidi il grosso reparto cosacco che scendendo aveva quasi raggiunto l'abitato di Ovaro e Chialina: nei paraggi non esisteva ormai più nessuno dei nostri, tutti erano spariti di corsa in ogni direzione, molti verso il torrente Degano nascondendosi nelle vicine boscaglie. Dal paese proveniva intanto un finimondo di spari e di raffiche; Furore, ormai quasi solo, con una sola decina dei suoi garibaldini ed i pochi cosacchi del cap. Akaki, cedeva il terreno metro per metro, di angolo in angolo delle case, sparando furibondamente le ultime raffiche per proteggere la ritirata degli altri e della gente. Cadde in quel frangente una bellissima figura di combattente garibaldino, il compagno Osoppo (Fabbro Renato) nato ad Osoppo del Friuli, comandante di Compagnia del Btg. Leone, che aveva condiviso con Furore oltre a quell'ultima disperata battaglia tutte le avventure ed i patimenti del terribile inverno precedente sino dai primi tempi della Lotta; ferito da una scarica cosacca cadde a terra e fu catturato; tentò disperatamente la fuga; fu ripreso e venne barbaramente trucidato. Una delle ultime pagine della Resistenza in Carnia stava finendo nel sangue e nel massacro, con l'esempio di questo martire. Come tutti, uno degli ultimi, mi allontanai dall'abitato e raggiunsi il ponte alla Patussera, all'imbocco della VaI Pesarina ove mi fermai in osservazione. Ad un certo punto vidi un'automobile civile sopraggiungere da Comeglians diretta verso Ovaro a grande velocità. Cercai di fermarla con grandi gesti avanzando in mezzo alla strada statale ma la vettura proseguì accelerando: ebbi appena il tempo di scansarmi con un salto e nell'attimo potei scorgere al volante l'industriale Umberto De Antoni che aveva al fianco il Direttore della Banca Cattolica e dietro altre persone. Pensai veramente che tutti costoro fossero impazziti per gettarsi in bocca ad un furente esercito nemico ed infatti, appena furono arrivati a Chialina, vennero bloccati dai Cosacchi armi alla mano ed uniti alla colonna come prigionieri, seguendone poi la sorte nella loro ritirata verso Ravascletto. Passarono momenti tremendi perché durante la salita furono posti al muro da alcuni ufficiali cosacchi infuriati che volevano fucilarli ed ivi dovettero stare a lungo recitando le ultime preghiere ma alla fine intervenne un ufficiale di grado più elevato ed essi furono miracolosamente liberati. Intanto Ovaro e Chialina erano state occupate dall'enorme massa dell'intero esercito cosacco in ritirata, circa 50.000 persone, gente di tutte le stirpi, con le carrette e tutti i loro beni e con l'intero loro potenziale bellico. I cosacchi, terminata l'occupazione di quelle località, piazzarono poi le loro armi e si dettero ad una terribile sparatoria con mitragliatrici, mortai e cannoni verso tutte le direzioni anche se ormai non esisteva più alcuna resistenza perché anche i pochi garibaldini si erano dovuti ritirare. Era una sparatoria isterica all'impazzata verso il nulla, chiaro segno del loro furore e del loro disorientamento. Nel contempo i cosacchi, letteralmente impazziti, si diedero a percorrere l'intero paese ove massacrarono chiunque si presentasse loro, donne, vecchi, bambini, decine di persone innocenti. Mi spostai nuovamente e raggiunsi la Patussera ove sostai presso le abitazioni dei fratelli Cimenti, nostri collaboratori sin dai primi tempi della lotta, trovandovi molte altre persone reduci dal combattimento di Ovaro, compreso il compagno G. Cleva, ai quali consigliai di risalire nella valle mettendosi al sicuro. La neve cadeva fitta in quella strana stagione di primavera, faceva freddo e la strada era inzuppata e fangosa. Raggiunsi Pieria molto preoccupato per l'esistenza in loco dei 150 prigionieri cosacchi che avrebbero potuto essere facilmente raggiunti dal sopraggiungente loro esercito e liberati con grave pericolo per l'intera valle. Trovai i prigionieri sorvegliati da pochi uomini armati della Guardia del Popolo, troppo pochi per tanti da sorvegliare ed ordinai perciò ad uno di loro di scendere di corsa verso Ovaro cercando qualcuno del nostro Comando comunque riportando qualche altro partigiano che potesse fermarsi a rinforzare la scorta. Il compagno, un bollente compagno, Luigi De Crignis, era in pratica senza scarpe dato che calzava un paio di scarpe leggere completamente sfasciate e chiese di poter prelevare almeno momentaneamente da uno dei prigionieri, tutti calzati molto bene, un paio di scarponi onde potersi recare compiere la missione. Ma entrare nella gran massa dei prigionieri che ci guardavano torvi e minacciosi mentre noi eravamo in così pochi e male armati, era cosa abbastanza rischiosa. Mi venne un'idea e visto in disparte un vecchio mitragliatore inservibile perché privo di munizioni e di otturatore, lo feci piazzare sul loggione della vasta sala, in luogo protetto da inferriate, con la canna rivolta verso i sottostanti cosacchi. Costoro, visto ciò, balzarono tutti in piedi impauriti e frementi gridando nei loro linguaggi incomprensibili, pensando forse che con il mitragliatore li avremmo tutti uccisi ma io imposi il silenzio gridando che avremmo solo effettuato una perquisizione cosicché si calmarono. Scesi nella sala tra loro con quel compagno il quale urlando e spintonando fece scalzare alcuni di essi, trovando finalmente un paio di scarponi adatti, infilandoli e partendo poi di carriera per la sua missione. Terminata l'operazione scarponi, mi fermai in mezzo ai cosacchi e diedi una sommaria occhiata a qualcuno dei loro zaini e li trovai non solo gonfi di ogni sorta di capi di vestiario e di altri oggetti ma rinvenni in essi molti coltelli, alcune pistole e parecchie bombe a mano. Mi venne un brivido al pensiero che essi avrebbero potuto facilmente eliminarci se lo avessero voluto o se si fossero trovati in un momento di esasperazione ma a quel punto ormai per fortuna il nostro bravo mitragliatore senza otturatore che non poteva sparare faceva buona guardia ed essi non poterono più osare alcunchè. Feci poi eseguire una accurata perquisizione alla ricerca di armi e furono rinvenuti tanti coltelli, una decina di pistole e rivoltelle e numerose bombe a mano che furono sequestrate. Il giorno dopo in una riunione presso la Casa del Popolo, presenti il C.L.N. di Prato, il Sindaco, la Giunta e molti cittadini anche di varie frazioni vicine, fu discusso il problema di cosa fare di quei prigionieri e mentre qualcuno insisteva che era opportuno avviarli verso il Cadore prevalse alla fine l'idea di lasciarli dove stavano, rinforzando la scorta. Due giorni dopo furono prelevati da un reparto garibaldino ed avviati verso l'ormai libera Ovaro per proseguire poi verso Tolmezzo. Qualche giorno dopo ancora, quando gli Alleati raggiunsero Tolmezzo, i cosacchi furono loro consegnati ed avviati in campi provvisori di concentramento e furono forse l'unico gruppo che potè salvarsi dalla quasi totale distruzione del loro esercito. Nel pomeriggio di quello stesso giorno scesi di nuovo ad Ovaro mentre le ultime retroguardie cosacche ne erano appena uscite e stavano risalendo la valle con tutto il loro esercito diretti verso Ravascletto e poi in direzione del Passo di Monte Croce Carnico. Visitai i luoghi ove si era più duramente combattuto sia ad Ovaro che al Chialina. I segni della cruenta battaglia erano dolorosamente in evidenza, un acre odore di bruciato impregnava la plumbea atmosfera, la valle presentava un aspetto terrificante, ovunque morti e distruzioni. I tantissimi cadaveri cosacchi vennero man mano caricati su carri e trasferiti nelle vicinanze della Patussera in quanto era impossibile trovare posto sufficiente nel locale cimitero ed ivi furono inumati provvisoriamente in una grande fossa comune dalla quale poi nel dopoguerra furono riesumati e trasferiti nel cimitero germanico di guerra di Costermano. Altri cosacchi trovarono invece provvisoria sepoltura in altri cimiteri locali donde furono poi anch'essi traslati a Costermano e tra essi quello di un generale cosacco anziano ucciso a colpi di pistola dai garibaldini sulla statale poco prima di Ovaro durante la ritirata, che in un primo tempo era stato ritenuto fosse addirittura il gen. Krasnof comandante dell'intero esercito cosacco. Si trattava sempre di un generale cosacco, ma non di Krasnof il quale fu invece catturato più tardi in Austria dalle truppe sovietiche, processato ed impiccato a Mosca assieme ad altri criminali. Ad Ovaro c'erano ancora a terra molti altri cadaveri, nostri combattenti o civili, nel luogo stesso ove erano stati uccisi. Vidi il cadavere del buon ing. Cioni, nostro valido collaboratore, dei due figli Celoni, del compagno Osoppo, di tanti altri. Vidi poi il cadavere del parroco del luogo, don Cortiula, vero ministro di pietà e di generosità, presentatosi coraggiosamente a quei barbari per proteggere i suoi devoti e da essi trucidato assieme a tanti suoi fedeli. Furono scene di inenarrabile dolore e di sgomento che resteranno per sempre scolpite nella mente di coloro che vissero quel tragico giorno. Infine nella ex stazione decauville mi trovai di fronte agli otto cadaveri del gruppo di compagni georgiani che si erano uniti a noi e tra essi riconobbi quello del valoroso capitano Akaki, caduti nell'ultimo combattimento contro i loro connazionali. Quei cadaveri erano ancora nella posizione in cui li avevano posti i cosacchi in ritirata prima di andarsene ed erano disposti a terra a guisa di stella a cinque punte, privati delle scarpe, quale ultimo oltraggio verso questi compagni che con il sacrificio finale si erano invece riscattati dalle colpe precedenti battendosi con indubbio grande valore a fianco dei partigiani. Sono sempre stato considerato un duro che conserva freddezza in qualsiasi pur grave situazione ma confesso che a quell'ultima visione fui bloccato definitivamente dal dolore e dalla disperazione, i nervi mi cedettero, piansi disperatamente e fui strappato a forza da quel luogo da un compagno pietoso che aveva visto le mie condizioni. Ma i misfatti dei cosacchi non erano purtroppo finiti. Nel non lungo tratto di strada prima di immettersi nella Val Calda per raggiungere il Passo di Monte Croce Carnico, fecero infatti altre vittime innocenti. Il primo fu un contadino che si era loro presentato innanzi poco dopo l'incrocio con la Val Pesarina reclamando la restituzione della mucca appena rubatagli da quei predoni e che fu freddato sulla strada. A Comeglians si imbatterono poi nel dr. Marco Raber nei pressi della sua abitazione in quanto egli si spostava con fatica sulle grucce essendo mutiIato di guerra. Pare che egli abbia proferito alcune frasi minacciose contro quei barbari sollevando contro di loro una gruccia, novello Enrico Toti e fu anch'egli freddato sulla strada. Si compiva così il calvario delle nostre genti con quelle ultime scene di sangue e di disperazione nella nostra VaI di Gorto: il bilancio fu quello di 26 civili assassinati, 3 partigiani caduti in combattimento, 8 georgiani caduti anch'essi combattendo con noi, in tutto 37 morti. L'esercito nazista, inoltre, prima di commettere i misfatti sopra descritti, mentre qualche giorno prima stava transitando nelle Prealpi dalla bassa Carnia, aveva commesso ulteriori orrendi delitti: ad Avasinis, ai piedi delle nostre Prealpi, infatti, senza che vi fosse stato alcun attacco contro la colonna di S.S. transitante od alcun altro plausibile motivo, furono massacrate ben 63 persone, tutti civili del paese, tutti vecchi, donne e bambini perché gli uomini si erano rifugiati nel bosco, una orrenda ulteriore strage, oltre alla completa distruzione col fuoco di molte abitazioni. A Tarcento i cosacchi avevano poi catturato e massacrato molte persone e tra esse con estrema viltà Barbe Livio (il valoroso capitano dell'esercito Romano Zoffo) comandante di Brigata della Osoppo, presentatosi con bandiera bianca per parlamentare con loro onde rendere meno incruento il passaggio di poteri e la resa. Le perdite dell'esercito cosacco nell'ultimo combattimento furono molto gravi: oltre al gran numero di morti lasciati in loco e da noi raccolti e seppelliti, furono notate molte loro carrette in ritirata colme di molte decine di altri cadaveri, in base al che gli storici hanno univocamente giudicato con stima del tutto prudenziale che essi abbiano perduto in quegli ultimi combattimenti in VaI di Gorto non meno di 150 uomini. Una orribile scia di morti e di distruzioni che si aggiungeva ai tanti orrori da essi commessi durante l'occupazione ad indimenticabile memoria di quella banda di efferati assassini delle nostre genti.
5 Maggio 1945. Ovaro è contemporaneamente in lutto ed in festa
e da tutte le valli imbandierate per la Liberazione qui si riversano in
massa uomini, donne, vecchi e bambini per rendere l'estremo saluto alle
tante povere vittime dell'orrendo ultimo massacro nazifascista. (*) Nel dicembre 2005 il Presidente della Repubblica Carlo Azeglio Ciampi ha conferito al Comune di Ovaro la Medaglia d'Argento al Valor Civile. [**] Nella primavera 2005 [poi altre due edizioni: 2010 e 2016] è uscito il volume: I.S.TE. - Luciano Di Sopra - Rodolfo Cozzi, Le due giornate di Ovaro, 1-2 Maggio 1945, Aviani & Aviani. Numerose e interessanti testimonianze, belle cartine dei luoghi, e una gran quantità di inesattezze, errori di stampa, sciocchezze, omissioni: la più clamorosa è proprio l'assenza di ogni riferimento al libro di Fabian, non ignoto al prof. arch. Di Sopra, suo nipote... (ma pare che egli non abbia voluto citarlo perché il manoscritto sarebbe stato contraffatto... dai comunisti!). Un lavoro che si dichiara 'obiettivo', con ciò evitando di formulare apertamente una tesi, che invece viene lasciata filtrare con continue allusioni e manipolazioni. Una vera perla, assai significativa, è la prima frase del libro - subito dopo l'introduzione - laddove si delinea lo scenario generale: "28 aprile 1945: resa incondizionata dei tedeschi presenti in Italia." Il 25 aprile scompare dal calendario, l'insurrezione nazionale non è mai avvenuta, la resa dei nazisti ai partigiani - da Bologna a Genova a Torino - non esiste più. Se non altro gli storici revisionisti hanno il coraggio di esprimere apertis verbis le proprie opinioni, mentre il prof. arch. Di Sopra si maschera vigliaccamente dietro la presunta "obiettività" di chi non ritiene di doversi "schierare". Quasi che tra il '43 e il '45 non vi fosse in Italia uno spietato esercito di occupazione, e che, addirittura, il Friuli - Venezia Giulia non fosse stato annesso al Reich. E in quell'occasione ci fu chi restò servo dei nazisti e chi scelse di non essere "obiettivo" e "si schierò" dalla parte della libertà, coi partigiani.Chi scrive questa nota - per chiarezza - è anche in qualche modo coinvolto personalmente, dato che a suo padre, l'allora Capitano di fregata Gianroberto Burgos di Pomaretto, "Flavio" (convalescente a Mione per le gravi ferite riportate in combattimento, al comando del cacciatorpediniere Gioberti, e partigiano dell'Osoppo), Di Sopra dedica un'attenzione particolare, ad esempio riferendo che "Flavio", catturato dai tedeschi, viene liberato grazie all'intervento di un presunto agente doppiogiochista: la circostanza è vera solo in parte, comunque ripeterla per ben tre volte ha un preciso significato tendenzioso. E molte altre (l'abbandono del campo, la decorazione, il millantato credito, ecc.) sono le mascalzonate di questo tipo. Alberto Burgos, 25 aprile 2005 Altri, ancora, hanno detto numerose sciocchezze su queste vicende: il parroco di Ovaro, ad esempio, don Valentino Costante, che, in un lungo quanto sconclusionato articolo su la Vita Cattolica (29.04.06), per togliere qualunque possibile ombra (?) sulla figura di don Cortiula, s'inventa lo scoop: la riunione in cui si decise l'attacco ai cosacchi non si tenne nella canonica di Ovaro, bensì in quel di Mione, nella canonica messa a disposizione dal parroco del paese, don Lodovico Sandri, o nell'abitazione del comandante Burgos; lo confermerebbe, peraltro indirettamente, la testimonianza di uno dei protagonisti della battaglia, Rinaldo Fabbro "Otto". Il quale, interpellato dalla dr.ssa Adriana Dal Molin, e successivamente intervistato dalla stessa Vita Cattolica (13.10.06), smentisce seccamente le fantasiose (per usare un eufemismo) illazioni di don Costante.
[***] Il Sig. Carnier, venuto a conoscenza della pubblicazione di questo
passo, ci scrive una lunga replica che riproduciamo qui, esattamente come l'abbiamo ricevuta. |