Riconosco che descrivere sia pur brevemente la vita e la morte di questo
eroico combattente dell'antifascismo è compito superiore alle mie
forze.
Inoltre mi ritengo forse la persona meno adatta allo scopo in quanto con
la morte di Aso ho perduto un vero fratello di lotta e di tante dolorose
esperienze precedenti e perciò temo che la mia penna possa essere
travolta dalla commozione.
L'affetto e l'immensa stima per lui non distoglieranno peraltro la mia
commossa narrazione dal rispetto della nuda verità.
Poiché nessuno sino ad oggi l'ha fatto intendo qui ricordare, sia
pure maldestramente, la luminosa figura di Aso perché non posso
sottrarmi al dovere di tracciare in sintesi un quadro sommario della sua
vita e della sua morte
gloriosa ad insegnamento e memoria perenne per le generazioni che verranno.
Con il Compaesano Aso (Italo Cristofoli), di Prato Carnico, avevo trascorso
l'intera giovinezza; successivamente avevamo provato assieme l'amarezza
della forzata emigrazione in Francia; avevamo infine sopportato, sempre
assieme fraternamente con Nembo, le sofferenze del confino fascista nell'isola
assolata di Ponza.
Ci eravamo poi ritrovati in Carnia nel 1943 ancora una volta affratellati
nlella lotta contro il fascismo e contro l'invasore nazista.
Assieme a lui i primi nuovi conatti con gli altri antifascisti della Zona,
le pime riunioni, le infinite discussioni, le corse per i boschi e le
valli ad intessere contatti, a diffondere l'idea della lotta e del rinnovamento
sociale, talvolta tra noi accaniti contendenti su un argomento o sulla
impostazione politica di un problema ma sempre poi uniti nel perseguimento
dei fini superiori della lotta ler la liberazione del paese dalla lebbra
fascista.
Aso aveva animo generoso, carattere esuberante, grandissimo coraggio,
fede incrollabile nel perseguire le sue e le nostre idee: in passato era
stato un fervente anarchico ma una idea incrollabile l'aveva sempre animato,
quella della lotta al fascismo e quella della redenzione sociale dei popoli
e ciò lo aveva avvicinato a chi questa lotta aveva portato e portava
avanti con la massima decisione, ai comunisti, gli unici che ovunque si
battessero a fondo contro il regime dittatoriale di destra, soffrendo
carceri e persecuzioni ed ora affrontandolo in una lotta Ciò lo
aveva alla fine naturalmente ed indissolubilmente legato alla politica
del PCI attraverso la sua convinta accettazione dei criteri unitari della
lotta.
Il 26 luglio 1944 si trovava di stanza ad Ovaro, comandante del Battaglione
Garibaldi "Carnico", intrepida anche se allora piccola formazione
di una cinquantina di uomini forgiata in tanti combattimenti da lui e
dal commissario Nembo.
Ebbi la ventura di essere presente a Ovaro in quel giorno e di salutarlo
per l'ultima volta proprio quando a metà mattino partì alla
testa del suo battaglione verso Sappada che era fuori dalla nostra Zona
Libera, con l'intento di assalirla e catturare il presidio tedesco ivi
acquartierato che aveva provocato in precedenza grossi guai al nostro
movimento, azione che aveva anche lo scopo tattico di tenere in rispetto
i tedeschi particolarmente attivi nel Cadorino ed in quel centro che confinava
con il nostro schieramento.
Salutandolo come al solito gli raccomandai prudenza anche se sapevo che
questa esortazione sarebbe stata inutile per il suo coraggio di leone
ed egli ridendo mi salutò militarmente e rispose con qualche parola
scherzosa che non ricordo salendo poi sul camion con gli altri responsabili
del reparto, Nembo (Augusto Nassivera) suo commissario, Ivan (Livio Toniutti)
vice comandante, Checo (Giancarlo Franceschinis) vice commissario, e tutti
i suoi pochi garibaldini, dopo di che essi scomparvero in breve alla mia
vista al canto della "Guardia Rossa" le cui note ancor oggi,
ogni volta che le sento mi procurano un brivido di grande commozione per
ciò che per noi in quei tempi queIle parole significavano e per
il ricordo di Aso che ogni volta esse mi richiamano.
E poiché non lo rividi più vivo ma lo riabbracciai solo
a tarda notte coperto di sangue e di polvere, salma gloriosa portata in
trionfo dai suoi garibaldini e dall'immensa popolazione, sulla sua morte
lascerò la parola a chi ebbe l'onore e l'infinito dolore di partecipare
a quel fatto d'armi ed essere presente alla sua fine.
Queste che seguono sono le pagine da me trascritte della cronaca di quel
cobattimento, stralciate dal Diario tutt'oggi inedito tenuto dal comp.
Checo (Giancarlo Franceschininis) allora giovane universitario ma fermo
combattente, amico fraterno di Aso e mio sin dai primi giorni della lotta,
il quale scriveva giorno per giorno o come meglio poteva quanto gli era
occorso; diario manoscritto bagnato di fango, pioggia e sudore, quasi
illeggibile, autentico cimelio che ho avuto da lui in visione per qualche
giorno, che egli durante la lotta poi di tanto in tanto trascriveva rendendolo
più comprensibile, pieno di freschezza anche emotiva ed assai importante
per sincerità ed assoluta conformità ai fatti, come pure
Nembo, Ivan ed altri già allora mi confermarono, che riflette la
grande carica di fede e di combattività della quale i nostri compagni
combattenti erano animati.
Queste sono le parole di Checo.
«26/7/44 - Ovaro.
Si parte per l'azione a Sappda. Aso comandante, Nembo commissario, Ivan
vicecomandante, io vicecommissario, con le idee chiare in testa e con
la tranquillità di saperci in qualsiasi momento tra noi sostituire
in caso di morte.
Partiamo con le poche armi e munizioni che abbiamo, senza bagagli per
essere più liberi in marcia ed in combattimento.
Siamo una trentina ed i miei compagni sono tutti bravi combattenti senza
paura, come tutti si sono dimostrati di essere nei combattimenti già
fatti assieme.
Col camion arriviamo un po' dopo Forni Avoltri, un chilometro prima dei
Piani di Luzza. Qui il camion si ferma, scendiamo e proseguiamo a piedi,
rimandando indietro l'automezzo.
Nostro armamento: il solito fucile mitragliatore italiano con soli sette
caricatori, due mitra in mano ad Aso e Ivan, il resto fucili e moschetti,
più una decina di bombe a mano italiane O.T.O. e R.S.M. che fanno
solo fracasso ma nessun effetto. L'ordine per il mitragliatore ed i mitra
è di sparare a colpo singolo e non a raffica se non in casi estremi,
onde risparmiare le poche munizioni.
Dalle informazioni assunte da un compagno del terreno di Sappada sappiamo
che il presidio tedesco è composto da venti-venticinque uomini
della Feldgendarmerie, quelli con l'uniforme verde e l'aquila
al braccio, particolarmente accaniti. Mi dicono che questo presidio qualche
tempo fa ha catturato un partigiano della zona che è stato poi
portato in Cadore e trucidato in modo barbaro. La spedizione di oggi è
perciò motivata sia dal desiderio di vendicare quel compagno caduto,
che dall'intento di eliminare il fastidioso caposaldo nemico al confine
con la zona da noi controllata.
Il presidio tedesco di Sappada è accasermato in una villa un po'
isolata sull'ultima curva e contro curva della statale prima del rettilineo
in discesa che porta al centro ed è posta su un terrapieno, come
ha riferito ad Aso il nostro informatore che ci ha dato come sempre molte
notizie preziose che ci consentiranno un notevole margine di vantaggio
sul nemico che non ci attende.
L'informatore ci ha anche fatto una accurata mappa del posto e ci ha detto
che la villa non è vigilata da sentinelle e perciò è
possibile e facile avvicinarci ad essa, scalaire il terrapieno senza essere
visti ed irrompervi dentro anche dalle finestre del pianterreno quando
i tedeschi si mettono a cena mai più essi immaginando un attacco
così audace e strano nella loro zona.
Con Aso abbiamo poi discusso a lungo e deciso quale sarà il nostro
piano: ci avvicineremo alla villa nascosti, supereremo poi d'un balzo
il terrapieno sopra il quale è posta la villa, gettandoci alle
finestre da tutti i lati e spianando le armi in modo di catturare i nemici
senza neppure sparare mentre dovrebbero trovarsi quasi tutti in quella
stanza di angolo che funge da sala da pranzo.
Aso ed io invece, mentre tutti gli altri si lanceranno alle finestre,
ci butteremo sulla porta d'ingresso spezzando il vetro superiore e sparando
una raffica in corridoio per intimorirli, entrando poi in casa per sorprendere
da quest'altro lato i tedeschi a cena.
Lasciamo la strada e ci buttiamo sul fianco sinistro della valle, attraversiamo
il fiume ed iniziamo la marcia su sentieri appena tracciati nel fitto
del bosco di abeti, sempre risalendo il percorso del fiume molto lontano
dalla strada, onde scavalcare il valico e scendere poi inosservati all'altezza
di Sappada.
In fila indiana camminiamo per molte ore ed è una marcia molto
dura perche il bosco è fitto, ha forti dislivelli, un sacco di
vallette da scendere e salire: avanzare per un chilometro lineare qui
nel bosco significa farne almeno 5 faticosissimi. Ho il cuore in gola
e vedo altri compagni affaticati come me, sia per il peso delle armi,
che per il fatto che siamo tutti sempre affamati.
Finalmente scavalcato il valico scendiamo per due-tre chilometri ed arriviamo
all'altezza di Sappada sull'altro versante della valle, al di là
del Piave, sempre ben celati nel bosco di pini.
Ci fermiamo qualche minuto per riposarci ed intanto Aso ed io andiamo
su un piccolo belvedere dal quale osserviamo a lungo Sappada con il binocolo.
Il paese è lontano circa un chilometro, tutto sembra assolutamente
tranquillo e non si vede alcuno per strada. La sorpresa ai tedeschi sta
evidentemente riuscendo.
Date le ultime disposizioni Aso in testa, io dietro, Ivan in mezzo, Nembo
in coda, ci avviamo diretti al paese.
Attraversiamo il Piave con l'acqua alle cosce uno alla volta, distanziati
l'uno dall'altro una ventina di metri, curvi il più possibile verso
il terreno cercando di non farci scorgere. Poi attraversiamo nello stesso
modo un altro torrentello che scende dall'altro versante.
Sono circa le 16 -16,30.
I tedeschi, secondo l'informazione staranno preparandosi per mettersi
a tavola per la cena perché ci è stato detto che normalmente
mangiano verso le 17 e quello sarà il momento di attaccare.
Strisciando in certi tratti anche ventre a terra molto distanziati l'uno
dall'altro ed a piccoli gruppi, secondo le intese ci portiamo tutti senza
incidenti sotto il terrapieno sopra il quale sta la casermetta tedesca,
in assoluto silenzio, circondandola da tre lati dato che il quarto è
il muro di cinta di altra proprietà.
Il sole si sta abbassando all'orizzonte e tutti attendono silenziosi che
Aso ordini di attaccare.
Sulla strada in curva non ci sono passanti, le case sulla strada sono
chiuse e sembrano abbandonate, c'è un grande, irreale, strano silenzio
dappertutto e neppure dalla vilal dei tedeschi proviene alcun rumore o
voce.
Il terrapieno ci toglie la visibilità della villa ma ognuno dei
garibaldini ha bene in mente dove dovrà precipitarsi mentre Aso
ed io percorreremo di corsa il giardino antistante buttandoci sulla porta
d'ingresso, spezzando con la canna del mitra il vetro superiore, sparando
nell'interno e cercando poi di entrare.
È il momento, Aso mi fa un sorriso, mi strizza l'occhio e mi fa
cenno con la testa di andare mentre fa segno col braccio ai compagni.
Aso ed io scattiamo lanciandoci di corsa ma appena superato il terrapieno,
giunti sullo spiazzo che ci divide dalla villa, una vista orribile si
presenta ai miei occhi, un reticolato alto circa un metro e mezzo circonda
da ogni lato la costruzione sbarrando il passo dappertutto.
Per di più le finestre sono tutte murate per tre quarti della loro
altezza ed in esse ci sono solo piccole feritoie, sia al piano terra che
a quello superiore.
Aso ed io siamo lanciati di corsa, io alla sua destra, ma subito cadiamo
dentro i reticolati e ci dibattiamo furiosamente per superarli.
Mi procuro molti graffi e lotto intricato nei fili nel tentativo di andar
oltre ad arrivare alla porta della villa.
Appena usciti dal terrapieno ed arrivati ai reticolati, un diluvio di
colpi ci accoglie, sparati dai tedeschi dalle feritoie.
È un momento terribile. Vedo Aso che dopo qualche secondo, in mezzo
alle pallottole tedesche che non lo toccano, riesce non so come a scostare
o superare un reticolato e balza un istante prima di me verso la porta
d'ingresso mentre io invece continuo a dibattermi nel filo spinato ancora
per qualche secondo sempre sotto un diluvio di colpi, poi mi libero anch'io
e mi lancio dietro di lui verso il battente di sinistra della porta.
Aso è a due-tre metri avanti a me, e giunto alla porta d'ingresso
della villa spacca il vetro superiore di sinistra con la canna del mitra,
poi alza l'arma per infilarla nel buco e per sparare.
Sono ormai ad un metro-due da lui, già quasi sull'altro battente.
Sono frazioni di secondi e mentre Aso sta per sparare sento mezzo attimo
prima dall'interno una fitta scarica di mitra, anzi di pistol-maschine perché è più rapida. Mi chino istantaneamente e con
un salto dal battente mi sposto dietro lo stipite della porta che ormai
ho raggiunta: nello stesso tempo vedo Aso fermarsi come fosse perplesso
per qualche cosa.
È in piedi sul mio stesso scalino della porta, sul battente sinistro.
Poi dopo un istante le sue gambe si flettono ed egli piega le ginocchia
facendo un mezzo giro su se stesso, accovacciandosi seduto ma col busto
eretto nell'angolo a sinistra tra la porta e lo stipite che gli sorreggono
la testa, reclinlandola solo un poco e poi non si muove più.
Urlo ai compagni, alcuni dei quali vedo che ancora cercano invano di superare
il reticolato sotto i colpi, e così fanno Nembo e lvan, di tirarsi
indietro di nuovo al coperto del terrapieno ed anch'io mi lancio di corsa
a zigzag per raggiungerlo: con disperati strattoni che mi procurano altri
graffi e lacerazioni alla divisa, riesco a liberarmi dal filo spianato
riattraversando in un attimo i reticolati e mi metto al riparo iniziando
di là a sparare contro le feritoie.
Quei pochi secondi di fuoco nemico allo scoperto ed a bruciapelo non hanno
colpito altri compagni.
Solo Aso è caduto ed è rimasto sulla porta d'ingresso della
villa.
Tra il momento in cui siamo scattati dal terrapieno e quello in cui mi
sono di nuovo riparato sotto lo stesso, saranno passati sì e no
20/30 secondi ma sono sembrati un'eternità.
Ci rendiamo conto in quel momento che siamo rimasti vittime di un vile
tradimento, una ben congegnata trappola tesaci dai tedeschi con la complicità
di quel tizio di Sappada che bazzicava con noi da mesi e che consideravamo
nostro prezioso collaboratore ed informatore e che invece era anch'egli
un lurido nazista.
La morte di Aso peserà per sempre sulla coscienza di quell'assassino
e si auguri egli di non cadere nelle nostre mani perché noi lo
cercheremo ovunque per fargli pagare a caro prezzo il suo tradimento.
Questo spiega anche perché le case erano tutte sbarrate ed in strada
non si vedeva anima viva prima del nostro attacco che evidentemente era
stato avertito anche alla popolazione del luogo che è un'isola
etnica di origine, idioma e sentimenti prettamente tedeschi e parteggia
per i nazisti.
I compagni ed io spariamo con rabbia rispondendo al fuoco nemico ed i
fumi dei nostri colpi in arrivo sulla villa si scorgono attorno alle feritoie
delle finestre murate.
Scambio due parole con Nembo, decidiamo di non ritirarci e di proseguire
nell'azione per far pagare a caro prezzo ai Tedeschi il loro agire sperando
che essi si decidano ad un certo punto ad arrendersi quando avranno esaurito
le munizioni e si saranno convinti di non poter ricevere rinforzi.
Su quest'ultimo punto siamo tranquilli in quanto poco prima dell'attacco
abbiamo fatto tagliare la linea telefonica verso S. Stefano da due nostri
garibaldini mandati ad appostarsi in un punto strategico dell'unica strada
da dove potrebbero arrivare i rinforzi tedeschi ed ove anche eventualmente
i nostri ebbero fermarli sparando per un po' dandoci il tempo di ripiegare.
Ritirarsi ora comunque non è possibile perche ciò con tutta
probabilità significherebbe lasciare altri nostri morti o feriti
dato che dopo il terrapieno c'è un tratto scoperto ove i tedeschi
ci potrebbero colpire.
I tedeschi rispondono vivamente al nostro fuoco e lanciano dalla finestre
dell'ultimo piano della villa che nella parte superiore hanno 30 centimetri
liberi, molte bombe a mano, quelle col manico di legno e sparano come
pazzi.
È un diluvio di scoppi e di spari ed il terriccio ci piove addosso
tra un forte acre fumo per le esplosioni vicinissime delle bombe a mano
tedesche che peraltro non riescono ad arrivare oltre il terrapieno e non
ci procurano danni.
Vedo un cocuzzolo molto vicino sopraelevato dietro la villa ed urlo a
tre-quattro compagni di venire con me e mi sposto in tale luogo ove piazziamo
il nostro mitragliatore italiano che da quel punto più elevato
potrà centrare più efficacemente le feritoie nemiche.
Di lì il mitragliatore lascia andare un paio di raffiche ben centrate
ma poi subito si inceppa. Febbrilmente il compagno addetto cerca di trovare
il guasto e vede che non c'è più olio nel serbatoio, cosicché
non può ovviarvi in altro modo che orinandovi dentro. Il mitragliatore
riprende a funzionare ma ad intermittenza.
Qualche colpo però deve essere andato a segno dentro le finestre
superiori perche da questo lato della villa i tedeschi non sparano più
da due-tre delle molte altre finestre.
L'accanita battaglia continua in un caos di esplosioni e sibili di pallottole,
di schegge, di terriccio, un duello per la vita o la morte tra loro e
noi, perché come noi non possiamo permetterci di ritirarci o cedere
così loro non vogliono arrendersi in quanto sanno di dover pagare
il prezzo delle loro efferatezze.
La battaglia dura già da un paio d'ore, così almeno mi pare,
ma forse di più o di meno, non ho un preciso senso del tempo ed
il sole sta definitivamente calando.
Ad un certo punto dalla villa il fuoco comincia a rallentare mentre stavamo
per disperare essendo rimasti quasi senza munizioni, poi il fuoco nemico
cessa del tutto e vediamo spuntare da una feritoia dal lato dell'ingresso,
ove sono nel frattempo tornato, un fazzoletto bianco.
Nembo, Ivan ed io gridiamo ai compagni di cessare il fuoco restando appostati.
Passano due tre minuti eterni di silenzio e di attesa mentre noi restiamo
al coperto con le armi spianate pronti a sparare le ultime cartucce.
Poi vediamo aprirsi una porta secondaria della villa non sul lato principale;
ne esce un uomo in divisa di corsa con una pistol-maschine in
pugno che cerca di buttarsi verso il fossato nel tentativo forse di scappare.
Trenta bocche da fuoco immediatamente sparano e l'uomo cade fulminato.
Poi di nuovo silenzio per altri interminabili minuti mentre si sta avvicinando
il crepuscolo.
Finalmente si apre la porta dell'ingresso principale dove all'altro battente
sta appoggiato Aso morto e nel vano vediamo apparire disarmato un tedesco
con le mani appoggiate sopra il capo; lo vediamo scendere a passi lenti
verso di noi e dietro di lui escono tutti gli altri tedeschi, tutti disarmati
e con le mani in alto sul capo.
Saliamo verso di loro e li teniamo sotto il controllo delle nostre armi:
il primo che è uscito è un sergente prussiano, gli altri
sono 18 soldati, tutti dell'Alto Adige, cittadini italiani come noi che
combattono invece sotto le bandiere uncinate dell'invasore nazifascista.
Alcuni compagni entrano subito nella villa e scovano in cucina una donnna
di Sappada che il Comando Brigata già ci aveva indicato come informatrice
e delatrice, moglie del pittore locale Pio Solero.
Nella villa rinveniamo una trentina di armi individuali, due pistolle
e parecchio materiale bellico, un po' di bombe a mano, qualche rifornimento
di colpi per le armi automatiche, una cassetta mezza vuota di altre munizioni
per fucile ed altre cose che ci fa estremamente comodo avere, essendo
rimasti quasi tutti senza munizioni.
Nella villa viene trovato anche un soldato tedesco morto, centrato da
una nosttra pallottola entrata da una feritoia.
Il sergente prussiano poi ci dice che l'uomo in divisa ucciso mentre cercava
di scappare dalla porta secondaria è il maresciallo comandante
che ha tentato questo mezzo estremo onde segnalare il fatto al più
vicino comando tedesco e avere rinforzi. Aggiunge poi che egli invece
con tutti i suoi uomini si era deciso ad arrendersi, visto che l'ultimo
tentativo di salvezza era andato a vuoto, il telefono era interrotto e
le munizioni ormai quasi finite.
Mettiamo i prigionieri più in là guardati a vista da alcuni
compagni ad armi spiananate.
Lascio tutti e risalgo verso la villa conquistata ed ora silenziosa.
Sullo scalino della porta d'ingresso in questo sopravvenuto silenzio,
fermo nella posizione in cui è caduto, sempre col busto fieramente
eretto, con la schiena e la testa appoggiate nell'angolo tra lo stipite
e la porta c'è Aso.
Mi chino su di lui, poi mi siedo accanto a lui sullo stesso scalino ove
sono arrivato una frazione di secondo dopo di lui, quello scalino fatale
ove avrei dovuto condividere con lui il primo fuoco, vivi o morti; a vincere,
vivere o morire assieme come già era stato in altri identici duri
combattimenti se il destino non avesse diversamente disposto.
È sorridente, la testa solo un po' reclina, ancora col berretto
garibaldino in testa con la stella tricolore ed il fazzoletto rosso sulle
spalle, il volto sereno ed intatto, gli occhi socchiusi, sembra che dorma
dopo le fatiche di un lungo cammino e lungo è stato il suo cammino
verso la libertà e la morte gloriosa.
Sulla sua giubba militare poco sangue ma molti buchi e strappi ed il braccio
destro gli penzola a terra quasi staccato dalla fitta scarica che ha ricevuto.
La tensione nervosa si allenta ed io accarezzo e bacio Aso in fronte e
sto seduto accanto a lui con una tempesta di pensieri in capo.
Amato compagno Aso, fratello più che amico e compagno di lotte,
compagno di tante azioni dei primi tempi della resistenza che noi soli
sappiamo, che ricordavamo noi soli ridendo, te ne sei andato troppo presto
lasciandoci senza guida.
Che faremo ora senza di Te?
Mi vengono in mente in un baleno le tante occasioni di vita e di lotta
che ci hanno accomunato qui in Carnia, le discussioni e le risate a Udine
al Bar Quendolo dopo le nostre prime azioni in piena città, gli
incontri con Fabian, Cicco e tanti altri cari compagni ed amici; e poi
i combattimenti e le fatiche assieme vissute tra questi monti, i tanti
sogni fatti per quando avremmo potuto godere la vittoria e la libertà.
Mi accorgo che una terribile commozione mi prende alla gola come mai è
stato nei miei 19 anni, debbo vincermi da questo stato, non posso piangere,
mi scuoto, mentre la notte ed una infinita tristezza scendono ovunque
ed in noi.
Sopraggiungono compagni, mi alzo, saluto Aso accarezzandolo ancora una
volta in fronte, poi militarmente; altri compagni accompagnano altrove
i prigionieri, io invece mi allontano di corsa verso il paese chiamando
a seguirmi due compagni per eseguire le altre incombenze concordate con
Aso prima dell'operazione.»
Questo è quanto ha scritto con tanta commozione e realismo il compagno
Checo che lo ha visto morire.
Queste stesse circostanze mi sono state riferite da Nembo, Ivan ed altri
compagni che hanno partecipato all'azione.
Dopo la conquista di Sappada il sergente tedesco e la donna spia Solero
vennero poi giustiziati dal reparto garibaldino al rientro nella Zona
Libera, gli atri invece furono liberati: il paese pochi giorni dopo fu
rioccupato dai tedeschi che vi installarono una decuplicata guarnigione
che si fortificò e noi non potemmo impedirlo per l'assoluta penuria
di armi e di munizioni.
Aso fu poi sepolto nel cimitero di Prato Carnico dopo un trionfale corteo
funebre civile col concorso di circa 3.000 persone d'ogni luogo, tra le
lacrime delle donne ed il fragore delle scariche in aria sparate in suo
onore dai garibaldini in uno sventolare di bandiere rosse comuniste alle
quali io volli fossero aggiunte alcune nere a ricordo della sua giovanile
convinta militanza anarchica.
Fu una giornata indimenticabile ed egli fu deposto sotto un cumulo di
fiori con una imponente manifestazione di rimpianto e di dolore dopo che
lo stesso compagno Checo ebbe pronunziata sul ciglio della sua fossa una
fiera orazione funebre alla quale io feci seguire poche parole egualmente
commosse a nome del Partito e delle genti carniche.
In quel piccolo cimitero il luogo della sua sepoltura in terra dopo tanti
anni più non esiste perché la sua salma è stata esumata
e gettata nell'ossario: esiste però infissa sul muro di cinta la
semplice e piccola lapide che era sulla sua tomba e che porta soltanto
il suo nome e cognome, le date di nascita e morte ed un piccolo vaso di
fiori.
ln quel piccolo cimitero pieno di fiori vicino al quale presto anch'io
con altrettanto sereno animo troverò riposo assieme a tanti nostri
fratelli e compagni, talvolta mi reco con Checo od altri compagni, o soffermandomi
più spesso da solo in lunghi commossi silenzi, densi di tante ricordanze
e con me sono tutti i nostri morti ed i nostri compagni vivi che sento
in quel momento di rappresentare.
Su quella povra lapide spesso trovo qualche fiore fresco non più
deposto da mani di familiari per la maggior parte morti o dispersi per
il mondo ma sicuro omaggio di umili mani sconosciute, anime forti che
a distanza ormai di parecchi anni serbano ben vivo il ricordo della sua
vita ardente spesa per la libertà.
Per questa sua morte e per la tante altre audaci azioni da lui compiute,
compresa quella dello sfondamento con un camion, le cui sponde erano state
rivestite da grosse lamiere, del posti di blocco tedeschi di Tolmezzo
ove passò indenne con i suoi garibaldini cantando le fiere canzoni
partigiane e sparando, fu proposto dal Comando Brigata Carnia appena una
settimana dopo la morte per il conferimento della medaglia d'oro al valor
militare con la seguenlte scarna motivazione pubblicata integralmente
sul nostro giornale "Il Garibaldino" del settembre
1944:
«Comandante di Battaglione, che egli stesso aveva formato ed
educato al combattimento, durante un attacco contro un munito presidio
tedesco durato oltre quattro ore, si prodigava alla testa dei suoi uomini
cui era di incitamento ed ese mpio. Ridotto il nemico all'estrema difesa,
per primo si lanciava all'assalto e cadeva colpito a morte sulla soglia
della casa ove l'avversario si era trincerato. Fulgido esempio di Comandante
Partigiano. Sappada 26 luglio 1944.»
Mentre le alte gerarchie ministeriali, dopo la Liberazione, con ingiustificata
parsimonia nel caso di autentici eroi popolari, hanno invece profuso onorificenze
e medaglie a piene mani a tanti altri personaggi talora discutibili della
Resistenza, specie a favore delle sopravvissute alte gerarchie della nuova
Repubblica che mai hanno sparato un colpo di mitra per la Libertà
o visto da lontano i tedeschi, questa sacrosanta medaglia a questo autentico
ed umile eroe proletario, che io sappia, ha ancora da venire. Neppure
ovviamente ad alcun altro dei valorosi partecipi alla battaglia di Sappada
è pervenuto qualsivoglia cenno di encomio o ringraziamento nel
dopoguerra dalle ingrate gerarchie dello Stato.
Mi sono dilungato per quanto ho sopra trascritto ed argomentato al fine
di rendere il massimo omaggio alla memoria di Aso ed affinchè attraverso
il suo esempio luminoso fossero resi noti quanto più possibile
i sentimenti, il coraggio, la fede nell'idea dei quali erano animati i
nostri cambattenti partigiani.
Il ricordo del compagno Aso mi ha portato a ricordare Checo legato a a
me da viva fraterna amicizia, l'allora giovane ma audace compagno, fresco
universitario che peraltro in quei frangenti studiava ed utilizzava molto
bene mitra e bombe a mano, ma probabilmente molto male i codici; partecipe
delle nostre prime azioni armate contro i tedeschi ed i fascisti in Udine
subito dopo l'8 settembre 1943; passato poi attraverso tanti combattimenti
in Carnia con Mirko ed Aso, divenuto commissario del leggendario Btg.
Leone Mansueto Nassivera assieme al comandante Furore; chiamato poi ad
altri incarichi superiori ed infine nell'ultimo mese della lotta commissario
della Brigata d'assalto Garibaldi S. Pellico nella zona pedemontana, protagonista
anche dopo la guerra di tante altre vicissitudini.
Della nostra antica amicizia nata nelle prime azioni della Resistenza,
vive il ricordo di quel caro compagno che era quasi imberbe ma era di
grande audacia, il quale immediatamente dopo l'8 settembre 1943, con i
tedeschi scorrazzanti da padroni d'ltalia, quando ancora la Resistenza
era agli albori, assieme ad Aso compiva azioni in Udine città contro
i nazifascisti allo scopo di procurarsi armi con qualsiasi mezzo, intrufolandoi
persino in caserme e comandi nemici, subendo avventure d'ogni genere e
salvandosi miracolosamente e ciò con risultati molto importanti
per noi compagni della Carnia al cui solo movimento era legato.
lo soprattutto venivo spesso a Udine per incontrarmi con lui e con Aso
e ricevevo da loro ogni volta qualche pistola, altre armi, esplosivi,
equipaggiamento militare, somme di danaro e tante altre cose utili per
l'allora nascente movimento armato in montagna, da essi acquisite con
ogni mezzo ma prevalent:emente con le armi in pugno.
Erano i primissimi tempi della Resistenza, settembre 1943 e mesi invernali
e ferveva le nostra attività per organizzare le formazioni in Carnia
onde poi iniziare la lotta.
Di quei primi tempi eroici ricordo altri uomini entusiasti di Udine come
Cotterli; il prof. Kos professore all'lst. Tecnico, vecchio antifascista
poi scomparso nei forni crematori tedeschi; Carlo ScIavi (Cicco) ex tenente
degli alpini, c:he talvolta collaborava con Aso e Checo, poi comandante
del Btg. garibaldino Sozzi, infine fucilato dai tedeschi a Tramonti durante
la lotta, medaglia d'arg. al V.M.; il prof. lvo Forni tenente degli alpini
e della rinata milizia fascista, commilitone di Cicco, che peraltro collaborava
strettamente con noi come informatore, bruciato poi nei forni crematori
nazisti in Germania allorché la sua attività fu scoperta;
e tanti altri che con noi fraternizzavano in quelle idee oppure che erano
solo amici inattivi rispetto alla Resistenza ma erano a parziale conoscenza
di ciò che alcuni di noi facevano in quel momento particolarissimo
ma tacevano e questo era già per noi molto, tutte persone con le
quali ci ritrovavamo nel famoso Bar Quendolo come allora si chiamava,
a sinistra in fondo a via Mercatovecchio in faccia alla Biblioteca Joppi,
l'abituale ritrovo di alcuni di loro.
E qui quante discussioni, quanti piani, quante ansie per le prime azioni
di Aso e di Checo e successivamente anche di Cicco, quanta fraternità
tra noi ed anche quante risate, in quel piccolo e fumoso retro del bar
ai cui tavoli si notava gente d'ogni specie, uomini strani, donne di malaffare,
brave studentesse con i libri sottobraccio, vecchi, donne, persino qualche
tedesco e fascista in dvisa ed individui dallo sguardo indagatore che
la presenza con noi dello stesso prof. Forni in divisa fascista teneva
a rispetto.
Ricordi lontani che resteranno per sempre nel mio cuore.
A tanti anni ormai da quei tempi e dal clima di quei tragici momenti sembra
tutto un sogno, sembra di raccontare cose strane parto di fantasia ed
invece sono tante cose vere dalle cui realtà le nuove generazioni
sono così abissalmente lontane. Come poter oggi credere d'altronde,
per gente nuova e di normale prudenza, alla verità di quegli incredibili
e spericolati sistemi attraverso i quali vennero procurate e poi trasportate
in Carnia le prime armi che poi coIstituirono la base dei primi nuclei
armati partigiani?
Ricordo che un giorno al Bar Quendolo mentre Aso era assente impegnato
in altra similare attività mi venne consegnato in quella fumosa
saletta da Checo, con fare noncurante, un pesante pacco lungo qualcosa
di più di mezzo metro, avvolto da vecchi giornali malissimo legato
con lo spago, nel quale sottovoce mi disse che c'era un mitra con parecchie
munizioni che si era procurato acquistandolo e purtroppo pagandolo ad
un suo vecchio compagno di liceo venutone casualmente in possesso perche
rinvenuto in un fosso tra le tante armi gettate dal nostre esercito in
fuga all'8 Settembre 1943.
Ai tavoli vicini in quel momento si trovavano varie persone sconosciute
e tra esse un tedesco in divisa che bevevano e ridevano.
Sudai freddo e maledissi in cuor mio il coraggio di quel pur prezioso
compagno e cercai come potei di sviare i sospetti nascondendo in fretta
l'involto sotto il tavolo e raddoppiando le risate, in quanto il pacco
avvolto con carta da giornale in parecchi punti molto logora, lascia intravvedere
con sufficiente chiarezza ad un attento osservatore il suo micidiale contenuto
pur essendo il mitra smontato in due pezzi.
Quel pacco da noi riavvolto con altra carta e spago fornitici dai buoni
titolari del Bar signori Quendolo che tutto sapevano e finché potevano
ci davano una mano, fu poi portato indenne da me ed altro compagno, attraverso
la città di notte in pieno coprifuoco, sino a Porta Gemona, evitando
le pattuglie tedesche di ronda notturna nascondendoci a tempo nei portoni.
Qui fu caricato su un camion addetto all'abituale trasporto della legna
da Tolmezzo a Udine ed il coraggioso autista Meni Cimenti della Patussera
se lo collocò addirittura sotto il sedile di guida trasportandolo
senza inconvenienti in Carnia.
Quel mitra fu un'arma gloriosa perche fu poi tenuto da Aso quando rientrò
definitivamente in Carnia ed allorché nel marzo 1944 si pose alla
testa di una delle nostre formazioni garibaldine all'inizio della lotta
sui monti e fu proprio l'arma che egli impugnava al momento della sua
eroica morte.
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