“Amavo combattere
in prima linea, davanti a tutti”
Intervista a Elio Martinis ‘Furore |
Sono
nato ad Ampezzo il 26 ottobre 1921. Dopo le elementari non ho proseguito
gli studi. Ciò che vedete, sia le opere d’arte costruite
da me che i fossili raccolti in tanti anni di passione da paleontologo,
sono frutto del mio lavoro da autodidatta. Non ho nessun maestro verso
cui imprecare né da lodare. Sono tutti risultati del mio personale
impegno, che valgano o no. La prima formazione l’ho avuta stando
accanto ai miei genitori. Mio padre era muratore, andava all’estero,
mia madre faceva la contadina, teneva le mucche e io l’aiutavo dalla
mattina alla sera. Siccome anche i miei fratelli facevano o il muratore
o il falegname, i miei vollero che imparassi il mestiere di sarto. Potete
credere! Con il mio carattere! In un primo momento però li accontentai.
C’era un sarto che veniva da Trieste, ma era originario di Voltois (1) e per un po’
di tempo mi recai da lui ad imparare il mestiere. Poi un bel giorno mi
sono detto: “È ora di finirla!”. Mi lasciarono
una settimana senza mangiare a causa del rifiuto, ma tenni duro e non
c’andai più.
Lei quando è stato chiamato sotto le armi? Sono stato chiamato dalla cartolina nel 1940 e partii il 3 gennaio ’41. Andai a Gemona dove rimasi circa due mesi e fui scelto per fare il corso di radiotelegrafista. Poi a Tarvisio nel reggimento ‘Tolmezzo’, altri due mesi a Camporosso e nella zona e, infine, il reggimento è stato diviso: da una parte i battaglioni reali che andarono in Russia, dall’altra i battaglioni base. Io ero del ‘Val Fella’ e fui mandato in Montenegro. Ovviamente non si trattò di una nostra scelta. Venivamo selezionati lì sul posto, un gruppo da una parte, un altro dall’altra, e via dicendo. L’esperienza di questo periodo di guerra com’è stata? Non bella. In primo luogo c’era la questione del cibo, poi c’erano i pidocchi e la sporcizia. Anche se ci si lavava bene, dormendo nelle tende e sul terreno è chiaro che si fosse sempre sporchi. Poi c’era il problema di essere sottomessi agli ordini dei superiori. Io, per esempio, che sono sempre stato sbarazzino, mi tenevo il colletto della camicia aperto. Mi dicevano: “La prossima volta, condanna!”. E mi condannavano, mi davano spesso punizioni, dieci, venti giorni. Questo mi creava un grande disagio, la mancanza della libertà. Si ricorda qualche fatto, qualche episodio particolare durante la guerra? Quando ci attaccavano il fatto di spararsi era ordinaria amministrazione. Ricordo un caso molto drammatico. Eravamo sotto attacco nei pressi di un passo in montagna. Mi trovavo in alto, ad un centinaio di metri dal nemico. Il mio tenente, originario di un paese vicino a Tricesimo, mi disse: “Vai giù tu, Martinis, che hai un cuore forte!”. Risposi: “No, non vado!”. E lui: “Devi andare, altrimenti ti denuncio!”. Ovviamente non era possibile disubbidire ad un ordine. Così fui costretto ad impegnarmi in una feroce battaglia. Ma ciò che mi mosse fu soprattutto il desiderio si salvarmi la pellaccia. Ho sempre avuto coraggio, forse anche troppo. E anche molta fortuna. Ho visto cadere accanto a me molti soldati. Io sono ancora qui.
Non mi è mai piaciuto uccidere, neanche all’epoca partigiana. Ricordo un episodio molto brutto, uno degli ultimi, accaduto il 28 aprile del 1945, poco prima dei fatti di Ovaro. (3) Avevamo catturato l’interprete dei tedeschi. Era un carnico. Era stato preso a casa sua e portato al mio comando. Per le spie e i traditori era prevista la fucilazione immediata. Ricordo che si mise a piangere e mi fece molta pena. Gli dissi: “Dovrei fucilarti, ma non lo faccio. Va’ a casa e non rompere le scatole a nessuno! Se hai fatto qualcosa di cattivo vuol dire che la legge domani ti punirà”. Erano gli ultimi giorni della guerra e non valeva la pena ammazzare un uomo che aveva 5-6 bambini. Chi li avrebbe mantenuti? Alcuni giorni dopo, durante la battaglia di Ovaro, venne anche lui a sparare con noi. Purtroppo, il 5 maggio, mentre mi trovavo a Tolmezzo, venni a sapere che era stato fucilato a Vinadia. L’avevano ammazzato quelli della Osoppo. Mi prese una gran rabbia. L’avevano fucilitato perché era stato un collaboratore dei tedeschi, ma a quel punto la guerra era ormai finita. Se non avevo dato io stesso l’ordine appena l’avevamo catturato, che senso aveva farlo dopo? Ecco, fatti come questi mi han rovinato l’animo. Tornando indietro ai primi anni di guerra, dai ricordi che ha, come vissero gli altri suoi compagni quell’eperienza? Anche loro dovevano adattarsi per forza. La guerra cambiava spesso il carattere delle persone, le inclinazioni, anche i piccoli vizi. Bisognava in ogni caso sottomettersi. A suo avviso, quindi, non c’è stata un’adesione sostanziale all’avventura bellica voluta da Mussolini? No. Tutti erano contrari. Nessuno stava bene in quella situazione. Ma come mai non ci sono state delle azioni di opposizione chiare, esplicite? Ci si sottometteva per disciplina e anche per non recare danno agli altri. Poi però, di nascosto, si discuteva, si ragionava insieme su ciò che stavamo vivendo.
Nel novembre del 1942 siamo andati ad occupare la Francia. Prima ci hanno portato ad Aosta, ci hanno fatto oltrepassare a piedi il Piccolo San Bernardo, poi abbiamo fatto una cinquantina di chilometri con uno zaino da 45 chili sulle spalle. Ricordo che c’era un freddo da morire e avevamo molta fame. Lungo il percorso raccoglievo le bacche del maggiociondolo (4) abbastanza buone e commestibili. I miei compagni, quasi tutti friulani, non carnici, mi dicevano “Ma sei matto, Martinis? Sai che con quelle lì ti avveleni?”. E io: “Provate la fame, e vedrete”. Poi, visto che non mi succedeva nulla, si sono messi anche loro a tagliare rami di maggiociondolo con la baionetta e a mangiarne le bacche. Quando siamo arrivati in Francia, in Alta Savoia, nevicava. Siamo entrati in un casolare di montagna per vedere se ci davano qualcosa da mangiare. Una donna ci offrì del latte. Ci mettemmo a leccarlo come cani. Una scena indescrivibile!. E dopo la Francia, dov’è stato? Dalla Francia ci hanno riportati vicino ad Imperia. Lavoravamo per costruire dei fortini. Siamo rimasti lì circa due mesi. In seguito ci hanno richiamati per andare nuovamente in Jugoslavia e quindi siamo ripassati per il Friuli. Erano gli ultimi di agosto del 1943. Mi ricordo che un giorno sono fuggito dalla caserma per andare a trovare i miei a casa. Al ritorno, il mio capitano, un veneziano, mi disse che se l’avessi fatto un’altra volta mi avrebbe fatto fucilare. Quindi, quand’è venuto l’8 settembre lei si trovava in Friuli? Sì, precisamente mi trovavo al bivio di Tarcento, stavamo andando verso Cividale. Ero entrato in una casa cantoniera per lavare la gavetta. C’era la radio accesa e appresi la notizia dell’armistizio. Ero contento. Tornai dai compagni che erano accampati lì vicino e chiesi loro cosa avremmo dovuto fare. Il nostro comandante decise di proseguire verso Cividale. Una scelta poco sensata pensando a quello che sarebbe successo dopo. Infatti quella notte tra di noi iniziammo a dirci: “Cosa stiamo facendo qui? Dove andremo a finire?”. I tedeschi erano già arrivati in quelle zone e cercavano soldati italiani per arruolarli con loro. Così convinsi 6-7 miei amici a lasciare la compagnia e a scappare. Prima di andarcene il nostro capitano, un certo Scabia, ci intimò di rimanere, altrimenti il giorno dopo ci avrebbe fatto fucilare. Ma ce ne andammo ugualmente e tornammo a casa. Come noi fece la gran parte dei soldati italiani di quella zona. Durante il ritorno a piedi ci siamo fermati ad Osoppo presso la casa di un mio compagno di plotone. Abbiamo lasciato lì le divise militari e ci siamo messi in borghese. Poi, siamo passati sotto il forte dove pensavamo non ci fossero più i tedeschi. Invece c’era ancora una guarnigione di difesa. Dovevamo attraversare il Tagliamento e, per non essere visti, ci siamo messi in fila, uno dietro l’altro, a distanza. Purtroppo le cose andarono male. I tedeschi riuscirono ad avvistarci e si misero a spararci contro. Due furono colpiti in mezzo al guado e portati via dalla corrente.
Sì, e a Villa Santina ho incontrato mio padre, che intanto era andato giù a Reana a portarmi dei vestiti per mettermi in abiti civili. Mi disse che il capitano ci stava cercando e che se non fossimo tornati indietro rischiavamo la fucilazione. Gli risposi che allora avrebbero dovuto fucilarne un sacco. Così tornammo insieme a casa nostra. Quando decise di passare con i partigiani? E quali furono le motivazioni che la spinsero? Fu un episodio in particolare a farmi decidere. Accadde che il 13 marzo del 1944 un mio cugino, venendo giù dai monti dov’era andato a fare legna, incontrò lungo la strada una colonna di repubblichini che venivano da Forni e che gli chiesero dove fosse diretto. Lui rispose che stava tornando dal lavoro nei boschi, aveva anche in mano una mannaia ed era insieme a suo nipote. I repubblichini lo volevano per forza caricare sul loro camion. Lui sapeva che stava correndo il rischio di essere portato in Germania oppure di dover lavorare per loro. Così si mise a correre, insieme al nipote, nel bosco, cercando di scappare. I repubblichini lo rincorsero e a distanza gli spararono e lo ammazzarono. Solo il giorno dopo, appresa la notizia, andammo a recuperarlo. Ricordo che trovai prima i bossoli per terra e poi, più lontano, il corpo. Il nipote invece si era salvato.
No. Erano friulani. Due di loro erano di Treppo (5): li conobbi tempo dopo. Ricordo anche che li presi a schiaffi. Quindi la motivazione che la spinse ad aderire alla Resistenza più che da idealità nasceva da un fatto tragico. Sicuramente. La violenza non riuscivo ad accettarla, nemmeno se compiuta dai miei uomini. Molte volte ho ordinato loro di non sparare ai prigionieri. Porto un esempio. Un giorno ero a Terzo (6) e un signore mi disse che quattro miei partigiani gli avevano rubato delle mele (due erano di Treppo, (7) uno di Ravascletto e uno di Ligosullo). Li rimproverai ricordando loro che non si deve mai rubare a nessuno. Secondo il codice avrei dovuto fucilarli. Ma per non farlo trovai una pena sostitutiva, per così dire. Per un’intera settimana andai a legarli a Zuglio, in piazza, per due ore al giorno, in modo che la gente sapesse quello che avevano fatto. Questa fu la lezione. A tutti gli altri miei uomini invece non ho mai rotto le scatole. Tuttavia, nonostante ciò che lei afferma, ancora oggi molte persone in Carnia non hanno un positivo ricordo dei partigiani, proprio a causa delle violenze e dei soprusi subiti. Come mai? Secondo me, come in ogni famiglia, anche tra i partigiani ci furono i buoni ma anche i cattivi. In ogni epoca si fanno errori di questo tipo, è la realtà. In ogni caso fu una minoranza. C’è da dire, poi, che molte delle violenze commesse non sono state viste, accertate, si sanno per sentito dire. E questa è una brutta malattia: bisogna esseri presenti quando i fatti accadono prima di accusare. Lei prima ci disse che rischiò di perdere la vita più volte. Come viveva questa condizione di trovarsi quotidianamente faccia a faccia con la morte? Una forte spinta a resistere, a sopravvivere ad ogni costo, me la dava il fatto di vedere gli amici morire. Cercavo con tutte le forze di evitare la loro brutta fine. Per questo combattevamo. Cercavamo di far finire la guerra il prima possibile, soprattutto per evitare altri morti.
Principalmente perché qui in Carnia c’era solamente la Garibaldi (8), la Osoppo nacque dopo. Ricordo ancora i primi contatti con Ciro Nigris e il primo scontro che abbiamo avuto con i tedeschi. Il cappello d’alpino lo persi in quell’occasione! Quindi la scelta non fu per motivi ideologici? No, assolutamente. Non sono mai stato comunista. Sono di sinistra (perché, ad ogni modo, non sono un capitalista!) ma non sono mai stato iscritto al partito, anche se molti mi chiesero di farlo. Qual era il suo nome di battaglia e come venne scelto? Era ‘Furore’. Me lo diede un amico, un certo ‘Falco’, perché avevo uno spirito irruento. Amavo combattere in prima linea, davanti a tutti. Non mi tiravo mai indietro. Venendo alle ultime fasi della guerra, quando capì che gli Alleati avrebbero vinto? A seguito delle vicende in Africa del Nord. In quel momento capii che la guerra era persa, perché notai la debolezza delle forze armate italiane e tedesche. Lo stesso discorso vale per la campagna di Russia, dove combatté anche mio fratello. Ma il fatto che i Tedeschi, aiutati dalle truppe cosacco-caucasiche, smantellarono in poco tempo la ‘Repubblica Libera’ e occuparono la Carnia, non la spinse a pensare che la situazione stesse precipitando a loro favore? Assolutamente no. Pensai invece che fosse un momento di transizione. I conti ormai erano già fatti.
Ricordo con amarezza i fatti di Ovaro causati dalla Osoppo. Quello che successe fu inammissibile. In quel momento mi trovavo sul Col Gentile. Quando iniziò la battaglia vennero a chiamarmi. Ricordo che esclamai: “A nemico che fugge, ponti d’oro!”. Ritenevo fosse un grave errore intraprendere azioni armate in quel frangente. Ad ogni modo mi fu comandato di recarmi ad Ovaro a trattare con i cosacchi, per non peggiorare le cose. Andai prima al bar Martinis dove trovai cinque persone, tra le quali c’era anche il parroco del paese. Dopo aver tolto i gradi e la stella rossa dalla giacca andai a cercare di trattare per evitare più gravi conseguenze, che poi invece si verificarono. Mi fu anche lanciata contro una bomba a mano, ho ancora una scheggia in corpo. Poi, come è noto, gli eventi precipitarono e si contarono molti morti a causa degli scontri tra partigiani e cosacchi. Quindi lei era contrario a certe azioni che prevedevano un eccesso nell’uso della violenza? Sicuro! Molte volte ho evitato scontri con il nemico per evitare rappresaglie nei confronti dei civili. Ad esempio, ricordo una circostanza in cui avrei potuto colpire un gruppo di cosacchi a cavallo, ma proprio per evitare che quest’azione si ripercuotesse sulla popolazione, lasciai stare. Una delle critiche che vengono rivolte ai partigiani è proprio quella di non aver calcolato gli effetti delle loro rappresaglie. A distanza di anni, ci sono delle scelte, compiute da lei o da altri, che si rimprovera? Rimprovero innazitutto la classe dirigente di allora e del periodo successivo perché non ha saputo mantenere gli impegni e le decisioni prese a quel tempo. Per quanto riguarda me, mi rimprovero di aver obbedito anche quando non avrei dovuto, mi riferisco ad esempio ai fatti di Ovaro, dove ho visto morire i compagni con i quali avevo sofferto la fame.
Io non vi partecipai in modo diretto. In ogni caso fu un’esperienza molto importante, soprattutto per la gente, perché poteva capire come ci si sarebbe dovuti comportare una volta finita la guerra. A dire il vero alcuni esponenti non mi andavano molto a genio, in particolare tra i democristiani e i liberali. Ma preferisco non fare nomi. Secondo lei, quell’esperienza permise di gettare le basi della futura repubblica italiana? Sì, almeno in parte. Anche se a distanza di anni vediamo quanto la politica purtroppo si fondi sull’ipocrisia, cosa che allora era molto meno presente. Basti guadare all’oggi, ai nostri politici, ad esempio, che si fanno addirittura cambiare la faccia. (9) È un po’ un paradigma dei nostri tempi. Quando pensava alla società futura, qual era l’ideale cui si ispirava? Speravo si andasse verso una società socialista, che avesse la capacità di fare del bene all’umanità, e prima di tutto ai poveri, agli anziani e agli ammalati. Cosa intende con il termine ‘socialista’? Allude all’esperienza sovietica? No. Intendo un socialismo di stampo democratico, non autoritario e privo di imposizioni violente. Purtroppo questo, secondo me, non si è realizzato, almeno non completamente. Oggi tutti i partiti sono ipocriti, perché fanno politica, e la politica è ipocrisia. Tutti i nostri rappresentanti, una volta votati, seguono i propri interessi, non mantengono le promesse fatte alla gente. Questa almeno è la mia personale opinione. Quindi, la Repubblica italiana, come si è costituita dopo il 1948, non risponde alle sue aspettative? Solamente in minima parte, non in modo pieno, come avrei voluto. Molta gente soffre tuttora, basta aprire gli occhi. È inutile che i politici ci raccontino di voler fare del bene quando poi tutto rimane tale e quale. NOTE
(1) frazione di Ampezzo. |