Romano Marchetti

L'Ors di Pani


(scritto nel 1955, pubblicato nel 1993)

Prefazione di Ermes Dorigo

Resistenza ha significato, per chi l'ha vissuta come Romano Marchetti da intellettuale, che riflette sulle azioni, la conquista della Storia, l'uscita da una minorità regressiva, che impediva all'uomo di crescere e maturare, di decidere del proprio destino: l'abbandono di uno stato primitivo e "naturale" per diventare un essere "sociale".
In questo senso la Resistenza andò proprio in direzione contraria all'Ors, uomo della natura più che della storia e della società degli uomini, dalla quale visse appartato nella conca di Pani di Raveo, signore e padrone di terre e animali, avvolto da un alone di mistero al punto da assumere connotazioni mitiche, fuori del tempo.
Marchetti lo conosce e se lo fa amico durante la guerra partigiana (in Pani ci si nasconde o ci si raduna).
La miticità dell'Ors colpisce anche lui: non solo nel suo scritto lo fa come resuscitare, ma cerca di collocarlo in una tradizione mitologica, più della saga nordica, con tutto l'orrido romantico, che nella mitologia mediterranea, seppur tragica come quella greca.
Non può comunque rifiutare la consapevolezza che con la sua azione partigiana, storica, ha fatto perdere all'Ors la "ferocia della solitudine", quella pienezza che si può godere solo in un totale stato di natura, dove natura e uomo si armonizzano al punto tale da non avvertire sensi di vuoto e di mancanza, il bisogno degli altri, com'è per l'uomo storico, soggetto al limite del tempo.
Da questo punto di vista l'Ors assume il duplice valore simbolico della fine di un'epoca storica (per la Carnia, la fine della civiltà contadina e l'entrata in un nuovo tempo) e della fine di un'epoca esistenziale, la giovinezza. Il rimpianto malinconico per l'Ors è l'espressione della nostalgia di Marchetti per la sua vita antecedente, la consapevolezza della proria storicità, per la giovinezza, insomma, coi suoi sogni e le sue speranze, ma soprattutto per la 'irresponsabilità' e la 'atemporalità' che la caratterizzano.
Sul filo della regressione Marchetti rimane ancorato, comunque, alla sua 'maturità', raggiunta dolorosamente attraverso la lotta partigiana (che qui diviene la metafora, leopardiana, della sofferenza insita nel diventare adulti): indietro non si può tornare, si può solamente procedere verso il nuovo futuro, per costruire il quale si è lottato, portando dentro di sé il senso amaro di una perdita necessaria.
Intrecciate di leggenda e di storia, di personaggi fantastici e reali, le dieci rievocazioni si reggono, appunto, su questo rapporto speculare tra narratore e narrato, tra l'uomo della Storia e l'uomo della Natura, e rivelano sotto sotto un sogno di conciliazione e di armonia tra i due, da realizzare dopo la rottura.


Savona, 1955

Giù il cappello! È morto I'Ors di Pani.

Partigiani... venite... portiamo in trionfo Toni Zanella; in trionfo portiamolo in cimitero; buttiamo la cassa nel buco e poi cominciamo a chiamarlo, canzonandolo con tutta la motteggiante acredine di cui saremo capaci: vedrete che ne uscirà assieme a quella con un riso sottile tramato di parole colanti ironia e scetticismo; ci farà diventar rossi, ci farà; io ve lo dico... Così ci converrà depositare l'arma e fare la pace: lui a garganella stando a cavalcioni della bara e noi tutti intorno - fazzoletti rossi e fazzoletti verdi: amici e nemici fino al delitto - assieme berremo vino rosso dal fiasco e le fughe sugli angoli saranno come di sangue poltiglioso; berremo a non finire prima di sgozzarci, se sarà il caso, e finché saremo così marci da cantare stonando «...tutti uniti tutti fratelli...» come se fosse finalmente vero; con lacrime di protesta addirittura.
E allora, con gli occhi che si incaponiscono a mettersi su una linea verticale, ti ameremo TONI, d'un amore liquido infinito come se tu fossi la cassa di palanche che, chissà dove e perché, tu hai in qualche modo sepolte: ...cosa credevi? Che ci credessimo! Già. Ma tu hai già pensato al minuto che viene dopo la morte, come sarà dentro di noi, brigante di ORS.

Da qualche parte, brandello di conversazione alla deriva, risuona nel silenzio improvviso «...impero...»; si condensa accanto a me il bagnasciuga. Oh... guarda chi abbiamo... accenna col capo. «Be... be... Benito» dice qualcuno.
Toni si volta come se non fosse così vecchio ed avanza la barba alzandola un po’ di necessità: «Oooh... sestu tu Mussolin!»; poi si rigira e gli angoli degli occhi si riempiono di rughette (brillio di pupille); «e la fantate, dulà lastu lassade?” lancia sopra la spalla. La risata omerica che ne consegue ha, com'è ovvio, risonanze d'oltretomba e sembra che, finalmente, l’universo abbia archiviato il caso.
Nonostante tutte le circostanze, quanta rettorica e quanto desiderio di colore per Toni ed intorno a Toni!: desiderio che sia assolutamente vero quanto supposto degli amori con la propria figlia che invece *Fermo dalle enormi ciglia ammiccanti dimostra assurdi: «Aveva pur cento pecore di cui almeno trenta vergini e dell'anno!»
Ma che dimostrano assurde con ben maggiore autorità le varie considerazioni possibili, per dire l'impossibilità dell’esistenza in lui di alcunché di Greco; dell'esistenza in tutta la terra Carnica ed in lui di alcunché di classico ed ellenico in sterminata scena nella vasta e brillante luce Eschilea; e l’essere costretti all'ambigua - comunque - scelta fra la figlia e le pecore (perché non le capre invece? Le diaboliche - umane capre della saga germanica o druidica?) apre un orizzonte allettante anche per l'inquadramento della recente e ed ultima tragedia; così l’assassino in veste di Fato e Nemesi acquisterebbe una tal potenza da innalzare accanto all'Egitto, Creta, Cartagine, Verona, anche la nostra terra finora aulente di solo poverissimo sudore.

Ma non si può credere. Dentro a me c è intimamente (ma c'è ?) la certezza di tale verità: dell'incredibilità; dentro di me, suo amico e di converso portatore dello stesso nome cristiano di colui che lo ha ucciso; e lo ha ucciso - io credo - sol perché portatore di un personale Fato non in legame con Toni e con la figlia; ignaro portatore di un Fato e di un'ira di là della nascita, ma d'un’ira generica non specifica.
Era già concluso il cerchio della vita di Toni e tutto il restante era ripetizione, quando lo scontro, incontro, amicizia, con noi, suoi fratelli nell'indomita ribellione di continuo riproducentesi e nell'amore - un po' troppo grondante, può darsi - per le misere donne sformate e per le sformate enormi mani degli uomini - quando l'incontro con noi, suoi fratelli, mise non so che dubbio nel suo occhio per l'innanzi così deciso; non so che bisogno di amicizia in lui nato e destinato selvaggio. È uno dei guasti più gravi di sorella nostra (la lotta fin troppo e malamente celebrata!) quella d'aver tolto a uomini come Toni la ferocia della solitudine; quella d'aver dato a Toni il bisogno forse di aver attorno a sé della gente e delle cose: della gente che parla e che esagera; forse di altro.
Ma sì: concluso quel cerchio ferocemente ma epicamente: il globo oscillante di luce del ferâl che avanza fra casa e casera; l'ombra - che lo deforma - dal va e vieni conturbante; i flussi dei fiocchi di neve, che sembrano onorare quella luce e quell'uomo, scendendo tutto attorno quasi elicoidali; ma ecco uno schianto rompe la luce, lo strano silenzio; lo schianto è corbellato da echi; le molto fresche carezze sul volto sono un ultimo saluto.
Profondissimo il nero buio copre improvviso il sangue e la neve.

II

«Del resto, c'era la... predestinazione!...», motteggia uno dalla barba mefistofelica che non si rivela se defunto o vivente; come «...quando creò quella Chiesetta a coronamento della crisi dell'orgoglio oppure del misticismo.»
Tacciono intorno gli spiriti quasi assetati e le piccole streghe si mettono a gracchiare sui rami spinosi del pero da seme, e poi zampettano sui coppi marci del portico con mille inchini, mille ire ed una frenetica stizzosa ilarità.
«...Già!... di patate fin sopra la croce dell'altare l'ha poi riempito nell'annata grassa; del resto, dove mettere la grazia di Dio?...» Frana la trascinante risata di *Giuliano; accanto a lui i suoi pazienti (giustiziati?) *Katia e *Mirko sorridono.
Il Toni nella nuova pelle che chiaramente ricorda e più chiaramente capisce quel se stesso illuminato (sporadicamente) che volle la Chiesa, si raccoglie quasi raggomitolandosi ancor più nell'interno; ora alza di conserva le due mani pesanti con il gesto goffo ed usuale dei primitivi per chiamare la Provvidenza a confortare la protesta che vien fatta; la protesta che null'altro c'era da fare in quel frangente delle patate; alza le mani come se portasse a tiro di vista dell'ipotetico Iddio la cosa in discussione a che la guardi e la rigiri lui; e le streghette a sberleffarlo, volteggiandosi attorno, e poi, vili al primo gesto, insultando dall'orlo del tetto; ed attorno la liquida risata dei morti e quella tonante e disarmonica dei vivi e disperati, vicini e lontani che gli batte la spalla con solidarietà comprensiva. Scende la barba sul petto e dentro a questa la bocca che tace: del resto, la presentazione dell'eroismo all'estrema tensione della moralità, all'estremo di rigidezza è cosa troppo buffa ed intimamente immorale; del resto c'è pure la seconda componente della volontà di azione; dimentico del recente se stesso, Toni rivive; rivive, sdoppiato, quel tempo.
La donna che aveva voluto impalmare, tradendo la stirpe, (ecco! ecco qui la prima radice del male di poi!) portare al casolare dell’inferocito genitore, cogliendola in un orto di paese; la donna “civile" che sola gli aveva dato figli della sua tempra e della sua forza; la donna della piena religiosità al cui cospetto non potevano che frangersi - in verità - le onde della sua lapidea volontà; la “sua” donna era morta. Onorarla così era onorare la propria virilità; onorarla con "un'utile" chiesa. Ma era anche onorare la Fede e l'Amore; ma egli allora non lo sapeva, perché l'endemico imbarazzo vergognoso aveva dovuto difendersi - siccome suole - con una cupa macchia sulla coscienza.
Ed ora, ancora debole per la necessità di verità, chiama in aiuto il volto di Lei sua compagna di vita; Lei, unico essere che egli sa adatto a capire ed a dire; lo riempie di volumi, colori, carne e infine di vita e quindi lo ascolta parlare; le dolci parole, pian piano, prendono quota sul fracasso che all'intorno ha raggIunto il limite parossistico e, volenterose e quiete, partendo da un triste sorriso, raggiungono il volto che accenna di sì come nei bimbi.
«Presumo che il più grande di Pani, l'imperatore di Pani sia colui che possiede terra fin lì dove giunga la più forte voce; la forte voce, non lo sguardo, compenetrata dal bisogno di moltiplicare le vite animali; presumo che un uomo così abbia ben chiaro, sotto la fronte, che tiene lo scettro del luogo colui che alberga la Chiesa ben più che se avesse la scuola, questa invenzione degli uomini. Invece tu non hai voluto alcuno onorare; hai voluto soltanto lanciare una sfida ai maschi di Pani; l'ultima sfida; dubitavi che nessuno avrebbe celebrato nella tua cappella; dubitavi che nessuno sarebbe in ogni caso venuto a inginocchiarsi dì fronte alla tua casa; lo sapevi; ma il segno della maggior potenza sulla terra andava indelebilmente impresso: impresso con una chiesetta timida e timorosa al tuo cospetto e troppo vicina alle vaste tue stamberghe; impressa lì, come metallo da te forgiato e piegato: superbo! Ma poi l'intelligenza pratica che da te non poteva a lungo essere tradita, ha reso scipito a te stesso il giochetto e tu, così... come sopra pensiero hai riempito di patate il Sacello, il controaltare della scuola istituita da poco al di là del torrente.»
(Ma c'è chi parla di un diverso motivo: «Ad una veglia funebre nella chiesetta nasce una discussione fra Toni e *Porcasso sul dire “pro eo” oppure "pro es”. Per un colpo di croce sulla testa Toni perde per qualche istante la coscienza. Poi striscia via e con il "doppio" inizia un fuoco accelerato sulla chiesetta. I fedeli, pertanto, scivolano via uno alla volta. Non resta che onorare... le patate).
«Questo presumo, ma forse sbaglio. Dovrei immaginare invece la grotta dentro altre grotte, come allora e l'urgere del sentimento-istinto in essa... onorare la propria parola; onorare la propria personalità con il dare a Dio da pari a pari, quello che Iddio - dice la voce del popolo - chiedeva in cambio dei tanti favori concessi; quelli per cui aveva potuto comprare tutta la terra intorno alle case con l'opposizione sempre più dura e sospettosa dei contermini nemici; tutta la terra compresa fra il fiume, il bosco e la roccia; la terra buona e dolce sotto il suo solo piede calza di legno; finché tutta sua fosse la terra, che la forte voce era in grado di valicare in una giornata di nebbia; la voce che ripete il richiamo alle capre: da tutti i Iati; solo il rovinoso mugghio del torrente vicino; solo agli uragani d'agosto, solo alla tramontana dei Morti poteva esser concesso cimento con sua propria voce.»
«Onorarlo anche per avergli suggerito la somma astuzia, per cui venne a capo dell'acquisto della terra più ambita: quella che si inoltrava come spina nel suo possesso più bello fin sotto alla casa. Quell'espediente per cui, caduta ogni possibilità di accordo mediante moneta, risultate sterili le lunghe sere di affari e di amori con l’anziana vicina; risultato inutile anche l'averla fatta madre tre volte a testimonianza dei continui trasporti di vero amore, se sposata, contro un preliminare dì compravendita e garanzia di perfezionamento; se l’era sposata violentando l'ardore del proprio cuore per la defunta indimenticabile ed ecco forse, anche, perché più tardi la croce dell'altare sommersa dai tuberi.»
Egli ora guarda con un immane distacco quel vecchio e contraddittorio Orso di Pani colmo di esteriore gioventù, pieno di volontà, di volontà sola e potente; volontà che dà gioia, che dà tanta gioia; la sua barba rossa non pure matura, la sua rossa capigliatura e lo sguardo metallico da una rossa matrice; l’ORSO che, un ritorno di fiamma, castiga l'Iddio, riempiendogli di patate la casa.
Già da qualche istante la faccia dell’amico che analizza raccontando il caso si è andata sformando; a lui d’intorno, in una sfatta e putrida ebbrezza morti e vivi cantano confondendo, negli abbracci, le proprie singole sostanze.

III

La giostra si fa frenetica, dal petto dei vivi escono esseri strani, serpenti, rettili, mostri paurosi; appena usciti si gonfiano e si armano per ogni dove; si rivoltano all'uomo che li ha prodotti; lo insultano rinfacciandogli non si sa che, lo assaltano, lo piegano, lo calpestano; si sbellicano dal ridere i defunti e guardano bramosi che secerna terrore, rosso terrore pieno di buio, mentre annaspa come disperato, come cerchi di guadagnare la superficie dell'acqua; affollando all'inverosimile lo spazio esseri germinati da pulviscolo invisibile, che ridono trattenendo la pancia che non sconfini; che non tutto invada; che non affoghi il porticato, il nero portale del campanile ed il loculo vuoto, il cortile, la cassa, tutti i presenti; la silenziosa orripilante risata che fa impazzire tarantole, serpenti, rospi di strane fogge e dà allo spazio il senso del fatale.
Non si sa dove, comincia la sarabanda; tutti seguono in torma qualcuno che va; qualcuno che porta come un'insegna; che porta qualcosa che ha tolto a qualcuno: il lavoro d'un altro.
Strepitano dall'infimo cielo del tetto che assiste, streghe, gazze, cornacchie, pipistrelli; e lo strepito ha un ritmo; ed il ritmo si fa accelerato ed accelera il cerchio che gira; vorticosamente come un'impossibile passione nella realtà; come la disperazione nell’abisso della tragedia; in un'ira frenetica che sgorga da ogni cavità oculare, le narici, le bocche di strani esseri similunari. Il vecchio sulla cassa tace; tace diritto e colla barba ficcata in avanti, la rossa barba variegata di lana, immobile sta come giudicando; ma non si sa che.
«Ecco che ricordo, Toni... Orso di Pani... sì, Orso di Pani, ecco, ricordo: tu pesavi il formaggio che Anna ti porgeva; Anna stupita e stranita dietro di te (in due almeno, se uomini, bisognava essere, ed uno di questi doveva tanto bene conoscerti da trattarti col tu! E se donne?: se donne non potevasi assistere alla cerimonia del peso salvo che, tramite un'altra donna della famiglia). Tu pesavi la misura, la giusta misura nel freddo vestibolo della casera mentre fuori il caldo sole di settembre illuminava con gli ultimi raggi - per cui si aveva tal fretta - la meravigliosa valle del Tagliamento ottenebrata dall'apprensione dei giorni a venire.
Tagliavi e pesavi sul grande tavolo, amministrando con il sudore rappreso la tua giustizia, pleistocenico sacerdote, oppure ed ancora capobranco: e chi ti guardava, senza sapere come e perché, sapeva che tu stavi onorando il tuo Dio, distribuendo con non prodiga e non avara ma giusta giustizia.
Così io ti vidi e capii, quando fui testimone casuale ed attore di un tuo sacro commercio di cacio con una donna che continuava a far udire la sua voce da dentro il chiuso della casera; mi faceva udire la voce ed io trasalivo, temendo per lei, perché mi pareva notare del querulo nel timbro e temevo la sua certa disgrazia, se tu I'avessi registrato. Io testimone, elemento importante e non accessorio del quadro, so che allora bisognava venire da te e parlare e raccontare e non mai pregare; me lo avevano giurato all'osteria dell'Amicizia di mio “santolo" Vigj in Maiaso; doveva risultare da tutto il racconto che a petto del mondo, del cielo, s'aveva diritto a qualcosa che poi risultava essere il formaggio. Guai, quindi a "pregare"; si sarebbe dissolta la sacra atmosfera che fa uomo l'uomo e lo abilita al commercio con il divino; guai poi a pietire; ti avrebbero visto, orso, furente; furente anche al ricordo del grave prezzo dovuto pagare per il coronamento di tutti gli acquisti di terra; il prezzo di dover sposare la donna non abile a produrre figlioli di tempra felina e tempra divina.
Così, ora soltanto è possibile capire, perché tu non chiedessi il prezzo che tutti gli altri pretendevano. Capisco perché tu non volessi mai regalare; perché tu vendessi al prezzo infamante di ammasso; tu non facevi commercio vecchio mio Orso: tu amministravi la Vita che stava di sfondo dietro la tua Giustizia con una consapevolezza istintiva che ora mi "fulmina" (ma se solo facessi il gesto di volerti abbracciare - tu, sulla cassa - con un piccolissimo gesto della sinistra mi fermeresti).
No, non capivo la panoramicità del tuo sguardo, del tuo sguardo educato dal Padre capraio e, come te, sacerdote. Quello che nella città, (al Contarena di Udine) siccome si stava ridendo della polenta che stava mettendo nella tazza di caffè nero, chiamato il cameriere lo illuminava a mezzo un glorioso zecchino invitandolo a chiedere ad ognuno degli altri una mancia di pari valore, pena il suo sovrano eterno disprezzo per la razza dei perdigiorno e degli sfruttatori; parassiti del suo sudore, tramite i rivoli di imposizioni che dalle baite sperdute sui monti i pubblicani adducono così come avviene alle rapaci casse delle feudatarie città a capo delle Province ed altre vassalle dell'Urbe.
Ecco il perché del tuo orgoglio d'essere il primo contribuente del piccolissimo comune di Raveo, della valli del Tagliamento e forse di tutta la Carnia; il contributo tuo di pastore, il contributo più alto! Con molte riserve però; dicevi anche: ed ai ladroni delle tasse (Stato, Provincia, Comuni) buttare i soldi come alla cagna famelica la polenta; ma... almeno quella serve a qualcosa. E mi guardava sottecchi; che ce l'avesse anche con me? In una società che tutti davano per ormai sfasciata, in una tregenda dolorosa, in uno sbandamento che aveva preso tutti senza eccezione, pontificava nel settembre 1943 la tua alta Giustizia, datrice di vita e saggezza in un mondo imbarbarito.

IV

Un giorno, trovato un biglietto sotto lo stuoino della casa ormai deserta dopo la morte di mia madre, non stentai a capire chi vi aveva scritto: “Ven su."
Salii a Pani. Seduto al sole, lasciavo che il sudore e la stanchezza asciugassero sotto la giacca; mentre seduto sul ceppo sul davanti della casera reggevo, ancora piena, la ciotola di latte che Maria mi aveva munto e dato; mentre guardavo finire quasi ai miei piedi l'inusitatamente ampio pianoro, che costituiva la polpa del suo strano Regno, polpa messa di sbiego fra la terra e il cielo ridente del sole di maggio; ridente sul regno dell'Orso.
Egli stava salendo dalla sua complessa vicinia. Non era più il caso che mi stupissi di come agile e leggero si muovesse, con le dalmine anziché le alucce ai piedi, come m'era sembrato la prima volta; saliva un uomo curvo e lento, stavolta conscio che la sua solitudine era ben lungi dall’essere un Regno; lento di una lentezza cerebrale, chè le dalmine non risultavano più leggere per le ginocchia ed i piedi. Ed era proprio un sorriso come per tregua ad un dolore insistente, quello con cui mi riconobbe e salutò; quello con cui - senza scoprirsi e diminuirsi - mi trattenne a lungo a farmi dire di agricoltura parole, cui egli non credeva nemmeno per ipotesi; quello, persino, con cui accompagnò l'ira sincera che gli scioglieva ed acre la lingua contro gli ufficiali artiglieri che ogni anno gli sforacchiavano i prati, sicchè egli, al ricordo, si grattava tutto: le ascelle, la pancia, il culo. Ha uno strano sorriso: gli necessita, assolutamente, un risarcimento del fastidio datogli dai cannoni dei "signori Ufficiali": siccome avevo risposto negativamente alla domanda, se potevo far qualcosa presso essi, guardandomi dall’estremo confine dell’occhio sinistro chiede: «Eristu encie tu ufficiaal...?»
Poi mi pilotò ad ammirare l’enorme danno che il Sçhiarsò infuriato aveva prodotto e la minaccia del Titano a tutto il suo Potere. Guardava il precipite torrente, ora tranquillo, quasi con affetto paterno ed insieme, così come la bestiola guarda il serpente che la affascina: «...non può far niente... lo Stato?» «No!» Dovevo riconoscere che Toni non era più l’Orso di Pani e nemmeno molti anni mi separavano da quel tempo; dovevo riconoscere che le voci attorno agli amori proibiti e non (attorno all'ernia che gli avrebbe tolto il piacere e lo scopo di vivere) erano un'inintelligente trovata per giustificare con molta volgarità un comportamento che invece derivava da una ferita ben vasta e profonda, sebbene sepolta nell’intimo e nell'inconscio. In Toni era finita la lunga millenaria ascesa; il serpente aveva gettata la vecchia pelle prima che la primavera fosse giunta e nessuno era più in grado di capire e conoscere Toni che era ormai, effettivamente, altra persona.
Da allora mi pare che egli stesse attendendo con assiduità ma senza impazienze che il suo eroico destino fosse riscattato con l'ultimo sangue; perché non avrebbe potuto e dovuto, l'Iddio, trattare Toni con dignità di una linea soltanto inferiore al suo merito; e Maria era lì soltanto perché le riusciva comodo essere portata attraverso la sua propria prova (nell'ipotesi che l’altrui infingardaggine, radice al bisogno di maldicenza e di soddisfazione tavernicola, etilica, abbia ed avesse colto nel vero); portata attraverso una prova, secondo i ben pensanti dell'era storica, tremenda ed inevitabile; le riusciva comodo essere protetta dalla pesante nuvola di affetto che l'enorme carattere del padre continuamente le dava di scorta. Non la meravigliosa impudicizia panica, quindi, può essere indicata, ma qualcosa che invece ricorda le fiabe, le Saghe; gli stregoni e i druidi, ove non si scordi di velare il tutto, verso la fine, d'una leggerissima alba cristiana.


V

Riemergiamo al convento. Tace. Chissà cosa pensa. L’uno accanto all'altro possiamo tranquillamente tacere. Egli mastica del tabacco: è un passatempo che ogni tanto egli si concede, ma è un lusso; si arrabbierebbe, se tu gli facessi un’osservazione; ma tu non sei un barbaro.
Ed intanto, in mezzo ad una moltitudine di visi o di semplici espressioni alitanti, esposti in cerchie sempre più alte, seduto sulla cassa come se fosse sul mulo per avallare dopo lunga stagione di stenti; sta immobilmente. Guarda tutti lungo l'intero orizzonte delle ciglia, con il capo abbassato al suo solito modo; il sorriso... può anche essere nella barba e negli angoli degli occhi l'ira; può anche essere negli occhi e nella bocca sepolta. Sebbene un po' invadente e con un residuo di rettorica alpina, la corale voce di APE con l’immane forza trogloditica, polarizza l'attenzione: «...vi sembra, amici, che sia atteggiamento da Orso-defunto?» e cita un po’ di Majakosky con quella voce che nemmeno nel sussurro riesce a non mettere in evidenza i forti pilastri del collo e a non far uscire dai letti le palle degli occhi; cita il blasfemo Maja così da accendere la dura-straziata ilarità col suo: «Che! Che! Tu non sei l’orso. Tuo padre sì! Sbranato nel ripido bosco dai due muli imbizziti a ciascuno dei quali aveva legato una gamba; un ruscello di sangue e di vino ne uscì, io credo: ma lo vide soltanto una famiglia di gufi e civette voltatisi all'urlo; e... il topo, invece, fu salvo.» E ride, calcando di proposito sui toni sguaiati. La sua voce rimbomba nel cavo del portico riempito di luna e larve appartenenti alla generazione dei forti che si voltano spettrali e s’inchinano con un fremito di terrore; dietro, gli abeti compatti svettano più neri.
«Come una comunicanda di 7 anni; la Gran Luce nel soffio della tempesta: il fiore vivo di sangue dalla tempia; il candido letto di neve che cresce e che nessuno sospetterebbe giaciglio nemmeno d'un ramo del sovrastante annoso ed enorme pero.
Solo gli occhi, in Toni, diventano più attenti e la barba si affonda ancora di un po' nella apertura villosa del petto «...si era messo dietro la catasta delle fascine, quel cane, ma ti ha fatto l'onore d'usare la “campagnola”; quella buona per cervi e camosci...»
La figura di Marco s'è fatta più attenta e piccina, confusa fra tutti: solo la fronte e le guance, spiccano; Arturo, accanto, domina il suo gruppo; ma i suoi occhi hanno tradito l'interesse professionale. La rossa Barba di Sernio e quella di Caribaldi - il recente suicida d'amore - brillano perché simpatizzate dai bagliori degli occhi di Lupo; arriva da una miniera del Belgio la bruciante barba di Lampo e si affianca; in un vuoto intenso di aspettativa passa veloce e molesto il riso squittente di Barba Livio - il massacrato dell’ultimo giorno in una cantina, dalle scimitarre cosacche - assieme a venti compagni - come se fossero mele da pilare per il mosto; si sente Ia predica di Gracco cucinato nel fieno della casa incendiata dai mongoli; si sente il tacere di Aso l'anarchico, morto appunto con la palla in fronte; di Nembo struggente nella propria buona voce sotto gli occhi ribelli; compare cupo Prospero viandante transoceanico, pellegrino in fuga continua; fuggente innanzi ai propri ricordi ed al proprio fato cattivo che lo costrinse ad amministrare l'estrema Giustizia ed a dilaniarsi l'anima; in disperazione profonda, perché ancora ravvolta di brume: la stessa con cui, digiuno e senza parola, per tre giorni, attese dormendo sugli scali dell'ambasciata di Roma, il visto Venezuelano.
Si riforma la scena di fronte alla casa madre dell’Ors, quando, in un allentamento della pressione cosacco-tedesca che pure continuavano l’assedio, stava spaccando il cranio al (creduto) traditore Leo con il calcio della pistola che aveva rifiutato la palla; e Tredici, petulante nella sua crudelissima civiltà rialtina, alternando l'occhiata al binocolo a quella per la scena tragica, irridendo al mio e di Bruno intervento, dice: «... lassali far... i xe giovani... i ga morbin
Zampilla una agilissima vena di sangue dal sommo del cranio: Leo mugola il proprio terrore. Ma dal pulpito del proprio pietroso cortile, un po’ più in alto, Toni fa di no con il capo; ed il no è molto meno rivolto a Prospero - l'essere della fedeltà e del dovere fino all'estremo - che per qualcun'altro: ecco perché non è più integralmente l’Ors: il quarto comandamento ha in lui una granitica presenza, come di masso erratico eguaIe a quelli sui suoi vasti pascoli.

VI

Un'ombra dal pesante passo montanaro si avanza «...mi conosci...?» «Guarda, guarda! - dice Toni per nulla sorpreso - ti ha... ti abbiamo... Anna tanto aspettato; ma si vede che stavi bene in Russia.» Lo sguardo ironico ed imperioso; ancora «...congelato o fucilato?».
Le punte degli abeti ondeggiano e cosi le larve e gli uomini ed il riso di tanti; piovono da tutte le parti i morti in guerra, gli assassinati, i cremati vivi da irresponsabili e megalomani; piovono e vengono a ridere ed a scaldarsi con il ridere assieme: le ombre dei pilastri del chiosco ondeggiano, si plasmano, si trasformano variamente: lupi di lunghe bocche da caimano diventano serpenti e macachi e bestie simili come canguri e come topi; con il corpo in basso sfrangiato e che si squinternano nel ridere frammischiati alle larve stabili ed agli uomini.
Piombo in un altro gorgo di ricordi: siamo attorno il fuoco ed i tre giovanissimi partigiani Tolmezzini sono davanti a noi; Toni sempre più si fa sul lato mio; «...l cosacchi... eh; ogni sera e ogni notte, ci sono; ma voi asciugatevi; a quest'ora non vengono.» Essi guardano me; specialmente il rosso che sta al centro, l'altissimo e giovanissimo rosso: quello che si squarterà con il tritolo nel greto del But in una selvaggia notte del 1947. lo taccio un po’ vilmente, perché ho individuato lo scopo della predicante e suadente voce (adopera smodatamente il cenno di barba, stasera. La voce dell'Ors è in caccia di porcellini come nella favola-gioco): «Non c'è da fidarsi; ma voi asciugatevi e poi andate allo stavolo al di là del fiume; ce n’è di altri là; vi sarete certo più sicuri.» (Dopo mi darà di gomito e, vilmente, io sarò soddisfatto di non dover dividere con troppa gente il giaciglio e la stanza).
Parla, e quando non parla, dalla barba lascia cadere ai cani la polenta; qualche pezzo rotola giù nel buco della brace viva; il fumo è a 50 centimetri da terra e tutti noi si sta curvi e lacrimanti.
Da mezza porta, in alto l'altra mezza non c’è per il tiraggio del fumo, un qualcosa un essere, schizza dentro assieme ad uno sbuffo di fiocchi di neve già gocce di pioggia poco prima; corre su quattro zampe... ma è un bimbo! Avrà circa un anno e non ha certo avuto chi gli insegnasse a camminare; si getta prestissimo e deciso a contendere la polenta ai cani non più cuccioli che ringhiano ai gatti che soffiano; barcolla e quasi cade nel buco della brace; ora ride l’Ors e scuote la testa; il cucciolo dell'uomo corre dietro al cane maggiore e lo deruba proprio dalla bocca; con il fiato sospeso osserviamo che la bestia s’inchina alla legge e non morde e si dà da fare da altre parti; non lo morde, non lo uccide!: il culetto nudo riflette il color della brace. Stupefatto mi mostro, che non muoia di freddo e di fame; l'Ors mi dà di gomito: “Astu jodut il fi da l’omp?” dice; e dice che così va bene, che si rinforza e che non morirà. A prenderlo arriva Anna, la giovane madre, che gli urla improperi Che egli sicuramente capisce meno di quanto capirebbe un morso; ma fugge comunque velocissimo su quattro zampe. Il discorso si mette in moto come un vecchio mantice d'organo; l' Ors ora racconta che il padre del piccolo: «Al è là... pas Russias...» Se fosse ritornato... che bel disertore sarebbe! ma sarebbe! Glielo avevo detto... Con tutte queste bestie...
Ora tace. Poi il discorso si rimette in moto. Di nuovo tace e mastica... niente. Riprende: "... e chei dal vencul... vencul... vincul cemut da l’ostie si disial?... Multis pas ciaris encie sul gno! Il Stat... I Comuns... Briganz; acuedoz, stradis, lus, telefonos par cui? Par me no! E cuan ca vegnin a portami vie spongie e formadi cul dopli in man i carabenirs dulà sono?... ti corin daur - eco - Nomo par uere...”; e stupefacentemente corretto, conclude: “Parasìz!”
Ora riprende il discorso che più gli sta a cuore, iniziato nel pomeriggio con noi "Comandanz": «Ma non toccatemi le pecore, mi raccomando; le mucche sì piuttosto; non sono capaci di fuggire e di trovare da mangiare quando c'è la neve...!»

VII

Ripiombo nella bolgia in mezzo al cimitero del convento isolato sul monte; un pero inselvatichito e con mille spine, suona a un lieve vento; Toni beve fino all'ultima goccia ma rimane con sete; il rosso dei capelli e della barba ormai soffice è già bellissimo; brilla alta la fronte.
Capitava di litigare vigorosamente con lui; così a me successe nel primo incontro del 1943; era lì, sul piazzale innanzi alla casa in mezzo alla famiglia della querula moglie nel sole di ottobre; io, inviperito e stravolto che la comprensiva ospitalità - seppur burbera - concessa, all'ultimo istante si fosse manifestata traditrice per il furto del binocolo dimenticato.
Chissà poi se il binocolo fosse stato preso da lui oppure da Tita l’alpino che lo aiutava; e poi dentro a sé potrebbe aver avuto una perfetta giustificazione per il fatto della nostra silenziosa partenza prima deIl’alba senza un segno ed un ringraziamento; non poteva certo sapere dell’intenzione di assoluta segretezza per la creazione nel bosco del rifugio nascosto di viveri; la lunga fatica mia e di mio fratello nel picconare la terra rocciosa; e poi, dentro a lui la giusta antipatia e diffidenza per quei signorini che fanno i ribelli non poteva che prendere forza al primo segno (quei signorini e quegli ufficiali che lo avevano sberleffato ed offeso tanti anni prima!), lo avevano truffato, lo avevano, nella sua generosità, quei signorini cui s'era persino piegato a raccontare come - disfatto l'esercito nella precedente guerra - aveva rivarcato il Piave ed era rientrato in Pani; qui, in Pani con i gendarmi alla ricerca ogni due giorni ed il fucile che dormiva, persino, come fedele compagno. Sarebbe morto di crepacuore del resto a rimanere in quello sconosciuto piatto paese che è il Veneto.
Ed anche Toni non poteva sapere del mio dolore per il binocolo donato da un prete compagno di viaggio a mio padre, che varcava l'oceano per far fronte alle spese della malattia della figlia (che sarebbe morta di etisia entro l'anno); di quel segno d’un dolore e di una amicizia di tanti anni prima e dell'importanza di esso segno per me; e della forza dell’amarezza per la necessità di trasformare la gratitudine in ira avversa, che andava salendo per tutto il rabbioso pomeriggio di ricerca e di creazione della convinzione che si trattava d'un furto. Così, piano piano, dalla piena soddisfazione d'aver risolto un compito che m'aveva assillato per più settimane, l'ira andò dentro a me salendo l'intero pomeriggio, finché decisamente assecondai l'«andiamo?» del fratello: un po' meno carichi che nel salire, si lasciò lo stavolo vicino al bosco, utile per l’eventuale fuga e si discese a «ringraziare»...
Quando fui poco sotto al cortile nel quale l'intera famiglia di vaccari facevano cerchio, mi fermai bilanciando fermamente lo zaino e gli dissi parole dure «.. viltà... furto... Ospitalità..» e parlavo e parlavo duro e sprezzante. Egli faceva ogni tanto il gesto pesante come chi si decide a correre per staccare il fucile e la moglie a scongiurarlo e trattenerlo ed egli zitto ma incerto. Veloce, sprezzante, offensivo: «Buonasera e... arrivedersi..!» Mio fratello mi seguì, dentro ridendo; il Binocolo era vendicato; eravamo tranquilli. Non ricordo l'istante che ci rincontrammo; eravamo però profondamente amici e l’epopea partigiana entrava nel martirio dell'inverno 1944 dopo la pazza euforia estiva. Io ero un “capo" e ci demmo subito del tu; attorno a noi neve, cosacchi, furti e violenze; e ancora violenze; egli da solo, ci mantenne tutti per mesi.

VIII

Giù dalle pale di Avedrugno, bucando bosco e poi nebbia, cala un richiamo; il figlio risponde con quell'ooooh lungo, necessario in montagna, e poi parla con la sorella. Il richiamo diventa man mano più distinto, e poi diventa un urlo, ira ed è ancora come un temporale lontano. Il volto del figlio è già tutto piatto e tutto occhi sotto i biondi appiccicati capelli, ed il grosso collo ed il grosso volto hanno moti di commozione; il volto di lei ha qualcosa di maggiormente duro e resistente, ma crudo. Sacramenti, scoppi lunghi di ira; la voce breve staffilante: ormai deve essere prossimo a bucare il tetto di nebbia, che potrei toccare con le mani se mi alzassi. Compare tutt'intero, fremente di rabbia per la pecora (fra le 100) che non si trova; sottile, appare ancora più piccolo di quanto sia, agile e scattante. “Sacrament..."; viene avanti come una furia e la grossa daImina è un fuscello al suo piede; e la barba gli si schiaccia sul petto e un po’ accenna verso la spalla sinistra: la grande barba rossa venata di bianco; ed i capelli, appiccicati alle tempie, sono ora radi riccioli, ora piatte distese e vortici; come accade a chi non abbia mai conosciuto il pettine; impudenti, gli occhi grigi guardano prima in faccia e poi di angolo; la prima cosa è un calcio alla finalmente silenziosa e scodinzolante lupa che da mezz'ora scarica l'impotente ira contro di noi con il rodere la stanga al margine della distesa d'orina nell'ampisima cisterna; una stanga ormai tutta sfilacciata e bavosa. Mi guarda in faccia ostinatamente e non mi dà retta; entra nella stalla a mungere, ché l'ora sacra è stata offesa. Attendo: gli altri con me, dietro a me. Due maiali neri dal lunghissimo muso fastidiosamente come per mangiare sotto i nostri scarponi; scattano qua e là i conigli che una fucilata tra poco arresterà un secondo prima che infilino il buco nel prato.
Penso all’agronomia ed ho un moto d'ìra contro la condanna che è la civiltà, ma poi sorrido di me stesso. Dalla porta esce la voce che comanda e bestemmia, scoppiettando breve, assieme al soffocante tanfo; dominano gli oooh di ammonimento alle vacche; i tonfi sfatti delle defecazioni, lo sgrondar delle orine ed il sottile tessere del latte nel secchio; quasi inavvertito il murmure delle masticazioni. Inconsciamente ho sospirato; accanto a me si accende una scherzosa discussione che piano piano s'impegna sulla sessuaIità: “Sono giovani!”
Nel vuoto d'un silenzio esce ancora un rumore di pacca sui lombi ed uno scrollar violento di catene e l’ira rapida d’un “sta cuiete, sacrament.”
Dove vanno quei tre, schiacciati dagli enormi zaini in equilibrio instabile ad ogni passo sull’erto sentiero? Non lo sanno; nemmeno il più anziano lo sa. Sa soltanto che in loro è nata la libertà quel giorno che, sciolti di diritto dal voto fascista carpito per ingenuità; sciolti di diritto da quello monarchico per risapute ragioni, hanno avvertito dentro di sè l'Essere così cresciuto da poter dire no o sì, anche a chi spianasse un fucile. Confusamente cercano di farsi la tranquilla tana sulla cui bocca magari morire ma con il fucile in pugno; tana che vedrà neve e ghiaccio? Che vedrà neve e ghiaccio di nuovo e di nuovo la neve che tradirà il bandito? Morirà dal freddo oppure come? Quel confuso andare li porta attraverso una notte 'dormita' in una stretta stalla con il continuo rumor di tempesta, che la pesante defecazione delle vacche e lo scrosciar dell'orina rende soffocante e sconcertante; Giulio, quale ufficiale di cavalleria, preferisce il gelo (dopo due giorni ne ha abbastanza e “rimpatria”); fuori, nero vapore, scende la fredda viscida nebbia sul volto; li porta attraverso pasti di sole patate lesse offerte dalla misera mano di povera donna i cui occhi non sai se abbiano più paura o pena (del resto la riserva dello zaino è sacra oramai); li porta ad incaponirsi su di un’erta che non la cede; li porta un’altra notte in un freddissimo stavolo; infine li scodella come sconfitti, proprio lì dove non volevano andare: da “l’Ors di Pani": esattamente come tutti gli altri.
Ma il capo non c’è e non può essere deciso se venga concesso il pernottamento; la figlia e il figlio quasi rifuggono dal parlare con noi e fanno anche cogli occhi come se non ci fossimo; gli zaini al piede, attendiamo, mentre si sta facendo notte; c’è dell'inquietudine, oltre al timore che si sente endemico, sul volto dei figli; parlano della catastrofe d'una pecora che non si trova (fra le 100) e del povero Danilo, un militare toscano disperso e famigliarmente accolto.

IX

Nel cimitero del convento sul monte l'orgia sta culminando; in quell'onda di passioni, rumori e sentimenti ci si può lasciar andare come quasi sull'acqua; diventa silenziosa acqua portante il frastuono.
Antonio Zanella severamente seduto, sembra un saggio che mediti.
Acceso il suo sguardo. Laggiù in basso, "Cuel” fiammeggia fra le sue rade querce come croci; sembra che dalla “buca dei pagani" gli ultimi sapienti precristiani facciano alla luna le loro cerimonie ed offerte; gli ultimi sacerdoti Gallo-carni in tutta la loro immensa spirituale statura, ripuliscono ogni notte l’ambiente, insozzato di giorno dalla plebe che si è piegata ai tritatutto. Romani attorno ai ruderi dei tempietti (in ogni dove sulla campagna); e chiamano le forze degli Elisi, perché la sostanza di fede che ciascuno ancora possiede non possa far sì che sia abbandonata.
In un rimbombo come d'immensa cascata e di tromba, passano le glaciazioni, rialbeggia il Terziario: quelle querce si sono trasformate in altissime palme annodate in forma di lungo tempio, meraviglioso di forme, colore e bellezza.
È un rilievo appena accennato in mezzo ad un'ampia campagna, quasi di natura callosa e con un'atmosfera liquida che brilla in ogni atomo; Tagliamento e Sçhiarsò non hanno ancora scavato i loro letti, determinando quell'altipiano aereo fra essi. L’Arvenis, cuore della Carnia, è lì dove giunge lievemente salendo l’ampia pianura che - barcollando un po’ per fare il Verzegnis - si butta diretta in un lontano mare. Canti liturgici permanentemente invadono la terra, la campagna, I'atmosfera; e gli esseri vivono dappertutto e non sono di forme stabili e distinte, ma in continua trasmutazione e confusi; gli occhi di Toni Zanella, infinitamente larghi e chiari, ci si sono perduti. "Toni" lo chiamo toccandolo lieve alla spalla "Toni?" e lo rifaccio approdare all'attuale istante di cupe ombre sotto la luna spietata e bellissima nell'odore di resina; nello scrosciare del Sçhiarsò in Cladonda senza nessuna grazia di musica ma tutto forza; nell’impennarsi delle rocce senza nessuna dolcezza che però dichiara ancora amicizia e non ancora durezza. "...Toni?...” dico ed egli si volge a me poi parla: "Che lunga, lunga strada dobbiamo rifare; e tu non hai l’idea di quanto sia lunga per esempio la tua, che è ancora più lunga e disforme” e mi dà la mano e mi guarda con calda amicizia e comprensione. “Fratello Toni - io dico - sai perché soffro; questo popolo di prostituti, di levantini di Friuli e d’Italia; popolo di schiavi al Friuli ed aIl’Europa; in questo popolo, Toni, il seme di libertà senza confini occorre sia deposto come il chicco nella terra d'autunno. Possiamo farlo, Toni, senza impregnare ogni fanciullo di spirito di ribellione, di spirito di diffidenza? La miserabile intelligenza - tu hai visto - di norma li gioca costringendoli a servire soltanto la propria pancia; godendo di tener in tal modo in catene ed abbrutiti degli uomini.
A chi la gioia di parassitizzare: sempre all'intelligenza. Che miserabile piaga, colma di pus, codesta specialissima cosa che è l’intelligenza. Toni, pensa che, per esempio, Udine, con i nostri (i tuoi veramente) soldi ci fa la carità di costruirci tante scuole e tanti pollai...; l’università degli Operai, potremmo costruire nella piana di Cavazzo e così non mondane - serve - prostitute; non schiavi della pala e deI tronco al soldo voglioso di levantini e vampiri, ma liberi uomini creatori di libero lavoro potremmo mandare nel mondo.”
“Esseri portatori di libertà in mezzo ad un'umanità che vi anela pur sotto il giogo di pochi feroci..." Toni, con la parte di se stesso ancora rimasto terrestre, sembra essere convinto e commosso e conseziente, ma... scuote il capo.
“...Ma adesso finiamola - dice Edoardo - e i defunti che i torni al Signor ed i vivi da le parone.” Con il lieve riso i fantasmi si sciolgono sparendo fra i rami degli abeti con una luce d’invidia (?) per noi vivi che ci prepariamo ad andare. Ascolto... ascolto ancora...: non son più, no, gli sbuffi di riso della nostra strana compagnia. No! è il vento caldo sulla neve e fra le rame degli abeti e le testarde foglie della quercia. Ed il rumore del vento s'impasta con quello della cascata della cite di Gladonde, dove un povero Satana decaduto - maledicente il destino - sta defecando ancora qualche zecchino d'oro falso commessogli da vecchie romantiche signore. Laggiù, fra le ombre di Cornêit e Ciamazîns, la bianca chiesa di Maiaso si accoccola nel cimitero come il cuore del fiore, nella corona di mirabile fattura. Talché la venerazione allarga l’anima, sconvolgendo le avverse schiere sinora padrone assolute del campo.

X

Non resta che prender, furtivo (discesa che sia la mulattiera e guadato che sia il quasi secco Sçhiarsò, scivolando sulla neve gelata insidiata da vento) il bosco colmante il lungo vallone che approda alla prima casa di Colza e che, per miracolo, ancora non v’è precipitata dentro.
Mi siederò su quel tronco di noce bene approntato, dal quale - protetto dalle ire del cielo a mezzo della ragnatela di fitti rami - la chiesa vicina rimanda una eco perfetta, che popola la luce di luna; quindi così parlerò:


“Perdonami, Toni, (non hai mai voluto essere chiamato l’orso, nonostante il pizzico di vanità sotto l’ira) se non ho tenuto conto degli altri; lo so; lo so che tu te ne ridi allegramente. Vieni fratello, vieni sotto la luce del sole, stavolta, sottobraccio con me; vieni nella luce della verità più estrema e dammi il coraggio di vivere e dire.”

Legenda

p = partigiano
Cp = comandante partigiano
Acp = alto comandante partigiano
G = Garibaldi Carnia
O = Osoppo Carnia
+ = caduto in guerra

APE = Tranquillo De Caneva Cp/G +
ARTURO = Aulo Magrini Acp/G +
BARBA LIVIO = Romano Zoffo Acp/O
BRUNO = Terenzio Zoffi Acp/O
CARIBALDI = Ergo Giorgessi p/P
LAMPO = Vittorio Della Schiava Cp/O
LUPO = Giovanni Di Mattia Cp/O
MARCO = Ciro Nigris Acp/G
SERNIO = Giacomo Candoni p/O +
TREDICI = Angelo Cucito Acp/G


QUI una tesi di laurea


Cronaca di un delitto