Noi, partigiani al confine slavo al tempo delle foibe


UDINE. Il commissario della divisione d'assalto Garibaldi Natisone, che operava sul versante orientale del Friuli Venezia Giulia, abita a Cormons. Sul prato ci sono nani da giardino, in casa un uomo di 96 anni che non ha perso l'impeto che occorreva a un comandante dell'esercito di liberazione sessant'anni fa. Giovanni Padoan, il partigiano Vanni, è un po' stanco di lasciare che siano "gli altri" a dover raccontare la guerra che ha combattuto lui. Comunista tutta la vita, dice di non aver nulla da nascondere:
«L'idea di giustificare le foibe con gli eccidi e le crudeltà precedenti dei fascisti mi ha convinto fino al 1959. Era una specie di grande bilanciamento. Ma era una truffa: un eccidio non fa mai il pari con un altro. Negli anni Sessanta ne presi coscienza e nel '66 scrissi un primo libro dove raccontavo quello che sapevo e che, naturalmente, tutti noi sapevamo...». Padoan su questo punto insiste. «Anche il PCI prima e i Ds poi ammisero le stragi jugoslave, ma mancarono di fare ammenda per il loro silenzio. Le nostre mani di partigiani comunisti non sono sporche di quel sangue, ma ciò non può bastare. Sapevamo, tacemmo».

La versione di Vanni, sia sulle foibe che sul terribile episodio di Porzûs - dove partigiani garibaldini uccisero altri partigiani non comunisti, a cominciare dal comandante della Osoppo, "Bolla", Francesco De Gregori (zio del cantante) - ha un unico denominatore.

«Le foibe hanno due fasi. La prima nel settembre '43 riguarda 5-600 persone assassinate per reazione, vendette magari ignobili, poco ideologiche. Ma la fase più vasta, quella del '45, è tutta un'altra cosa. Intanto colpisce 4-5 mila persone, secondo le fonti più serie. Ma, soprattutto, non è più un orrore spontaneo, popolare. È un disegno jugoslavo gestito dai servizi segreti, l'Ozna, e vuole colpire tutti coloro che si oppongono alla volontà espansionistica di Tito, alla creazione della Settima Repubblica jugoslava, la Giulia. Nella stessa logica è l'eccidio di Porzûs, operato da un gruppo di partigiani italiani, ma commissionato dalla Jugoslavia. Quei partigiani uccisi, anticomunisti e con le bandiere tricolori, erano nemici per Tito».

Padoan ricorda la liberazione di Trieste come un incubo. «Fummo mandati a Sud, in Istria. E a Trieste entrarono i titini. Quando vidi la città, era notte. Non la riconobbi: scritte in jugoslavo sui muri, l'aria di una città conquistata, non liberata. Ci avevano mandati via per prendersela loro». Padoan fu accusato di alto tradimento per essere stato mandante di Porzûs - come moltissimi comandanti e commissari politici garibaldini - e dovette riparare all'estero. "Al processo di Lucca io ero pronto a testimoniare, ma furono i miei a non volerlo. Avrei detto la verità: che Porzûs fu il frutto della volontà di due comunisti di Udine, segretario e vicesegretario del partito, che obbedivano alla Jugoslavia e non all'organizzazione partigiana italiana. Responsabilità loro, non certo di tutto il PCI né, tanto meno, della resistenza garibaldina». Sostiene di aver raccolto un'ammissione dal commissario del 9 corpo dell'esercito jugoslavo, Rudi Victor Aubeli. «Mi disse: fummo noi a dare l'ordine». Non può confermare, è morto. «Ed io credo» riflette Vanni «che volle abbreviare lui stesso i suoi giorni. Perché aveva capito, come molti di noi, che quella guerra, gran parte della nostra vita, non era servita a niente».

I partigiani delle formazioni Garibaldi e quelli della Osoppo, hanno tutti più di ottant'anni. I loro volti, tuttavia, esprimono qualcosa di infantile. Tutti, garibaldini o osovani, trasmettono rimpianto. La solidarietà di chi stava nelle brigate Garibaldi per i compagni combattenti jugoslavi, non solo è una verità, è persino un'ovvietà. Racconta Sergio Cocetta, il partigiano Cid:
«Di là c'era il socialismo che si realizzava, di qua quelli che già tentavano di ristabilire le barriere di classe. Che avremmo dovuto pensare?».
Cid è un partigiano speciale, circondato da un curioso alone di mistero. Una vita strana, la fuga in Cecoslovacchia quando l'Italia di Scelba cominciò a volersi vendicare dei "banditi", la fatica in una fabbrica siderurgica, mille mestieri. Un corso di istruzione personale che ne ha fatto un uomo colto e silenzioso, mai aggressivo, ma risoluto e complicato. Quel socialismo realizzato di cui parla, lo sa bene, li tradì. Loro per primi. «Noi credevamo nell'internazionalismo, non potevamo che stare dalla parte del popolo, che fosse italiano o no». Tito fu cinico, come accade a chi sta al potere: internazionalisti gli altri, gli italiani. Ma lui si mostrò improvvisamente nazionalista, voleva prendersi la sua parte di bottino di guerra. Il Cid racconta la resistenza come un momento di crescita personale e collettiva. «Chi arrivava prendeva il nome di battaglia. Spesso non capivano. Un altro nome? Dicevamo: fai presto, sennò te lo diamo noi. Il nuovo nome, poi, diventava una nascita, in un mondo giusto di uomini uguali». Ma perché scelse Cid? «Perché era breve».

Altro tipo d'uomo è Silvano Bacicchi, partigiano garibaldino, funzionario del PCI per una vita, senatore dal '72 all'83. Siede e mette carte e documenti sul tavolo dell'Anpi di Monfalcone. Non s'infiamma, ma è seccato:
«Questo modo di rivedere la storia mi lascia perplesso» dice. È turbato per la fiction televisiva sulle foibe. «E non certo perché voglia negare quegli eccidi, ma per questa semplificazione, approssimazione. L'Istria in tv sembrava persino una regione montuosa, aveva perso il mare». Poi precisa:
«I numeri non sono giustificazione di niente. Ma gli storici seri sanno che i morti delle foibe e dei campi di prigionia furono 5-6 mila, non 20 o 50 mila. E, soprattutto, che non fu un eccidio etnico. Nelle foibe, in prigionia, fucilati, finirono non gli italiani, ma coloro che venivano considerati reazionari. Concetto definito dai servizi jugoslavi, molto soggettivo. Morirono uomini del Cln, persone innocenti. Fu un orrore di cui è giusto parlare. Ma di cui, almeno qui, parliamo da sempre. Come parliamo del fatto che le foibe come luogo di morte le avevano inventate i fascisti e i primi a finirci furono partigiani. Ed anche – perché la storia non si può raccontare a pezzi – che sloveni e croati erano perseguitati, definiti razza inferiore, che i loro bambini erano uccisi, le case incendiate».

Ma è pur vero che, per lungo tempo, quei "tutti" che sapevano la verità preferirono tacere. O per solidarietà politica o perché la Jugoslavia aveva vinto la guerra ed era un vicino da tener buono, una coltre cadde su quegli eccidi. E anche per questo, dice Stelio Spadaro, membro della segreteria Ds di Trieste, «il nostro Paese non ha mai percepito la tragedia istriana come una perdita del territorio italiano, ma piuttosto come una confusa storia di confine». E non è stato accettato il principio semplice di zone plurali, dove hanno convissuto popolazioni diverse. «Non aiutano certo le rappresentazioni semplificate che di recente sono state date, e che finiscono per ribadire l'idea di due popoli in lotta per un territorio. E non quella di un'italianità aperta, democratica, riscattata da partigiani di diversa ideologia, che dovremmo chiamare tutti patrioti senza aver paura delle parole».

In Carnia, regione dura e montuosa, per un mese visse una repubblica partigiana definita dagli storici la più perfetta e democratica fra tutte. Tra i fondatori, Romano Marchetti, il partigiano Rino da Monte, oggi 93 anni, comandante della Osoppo poi allontanato («perché volevo l'unità di tutti i combattenti», come ricorda oggi). Unità e divisioni sono il cuore di tenebra di questa storia d'Italia. «Da noi, in Carnia» dice Marchetti «mostrammo, dal settembre all'ottobre del '44, come si poteva essere uniti. Fummo i primi a dare il voto alle donne, a organizzare una piccola democrazia perfetta». Durò poco, cosacchi e nazisti travolsero quel sogno. Marchetti era un uomo in anticipo sotto molti punti di vista. Europeista da subito, chiamò suo figlio Euro nel '45 (oggi ha sessant'anni). Laico e progressista, combatté accanto ai cattolici e ai comunisti. Nel solco di una tradizione di gran parte delle brigate Osoppo, a cominciare dal "cervello" cattolico di quei partigiani, don Aldo Moretti (Don Lino), «che volle un istituto storico comune a osovari e garibaldini», come ricorda lo studioso Tito Maniacco. Della nuova ondata di informazione sulle foibe, Marchetti dice che «è una ripugnante speculazione». Ma non è tenero con il PCI e i suoi silenzi. Adesso è soprattutto stanco. Perché nulla di quello che aveva sognato si è realizzato: «Questa Europa? È uno schifo». E sembra indispettirsi per i sogni che gli sono stati sottratti.

grazie a: Repubblica, 18.03.2005