Tolmezzo, 9 dicembre 2003
Sono
nato a Tolmezzo il 26 gennaio 1913, avrò novantun’anni tra
un mese. Sono figlio di un ispettore scolastico, Sardo Marchetti (si chiamava
Sardo molto probabilmente perché era nipote di un garibaldino,
in onore del regno di Sardegna). Come scuole ho fatto una parte della
prima elementare a Bagnacavallo, (1)
da profugo, (2) e l’ho
finita a Maiaso d’Enemonzo. Il resto delle elementari e le medie
le ho fatte a Tolmezzo, mentre il liceo scientifico a Udine dal 1927 al
1931 e in seguito la facoltà di agraria a Firenze dal 1931 al 1935.
Nell’ultimo anno dell’Università frequentai anche un
corso per iscritti al “fascio”, anche se non ero proprio innamorato
del regime. Il fatto è che solo in quel modo potevo guadagnare
tempo per il servizio militare; infatti, subito dopo feci il corso ufficiali
a Bassano del Grappa, tornai a Tolmezzo per svolgere il servizio di prima
nomina fino a diventare tenente degli alpini.
Successivamente al servizio militare, ritornai a Firenze, dove presi la
specializzazione in agricoltura tropicale, che mi permise, dal 1937 al
1939, di andare in Africa. Fu lì che per la prima volta mi scontrai
con la realtà politica di quel drammatico momento storico.
Erano gli anni dell’Asse Roma-Berlino e delle leggi razziali.
Appunto. Ricordo che nel 1938, quando furono promulgate le leggi antisemite,
un mio caro amico triestino, Vittorio Curiel, ebreo, subì le prime
discriminazioni. Anche lui si era specializzato in agricoltura tropicale.
Feci una raccolta di denaro affinché potesse rientrare in Italia
e lui, per ricambiare, volle regalarmi la sua pistola. Naturalmente rifiutai.
“Tienila tu - gli dissi - ti servirà!”.
Ricordo anche che fu perseguitato, sempre per ragioni razziali, Pino Cantù,
un pittore milanese che si trovava con me in Africa. Era innamorato di
una somala. Amava la bellezza e questa era proprio una ragazza molto carina.
Lo presero, lo fecero imbarcare e lo rispedirono in Italia. Gli telefonai
numerose volte a Milano. Dev’essere morto sotto un bombardamento,
non lo vidi più.
Come viveva, nel concreto, il rapporto con il fascismo?
Odiavo quasi istintivamente il regime fascista, a causa di un fatto che
accadde quand’ero ancora ragazzino, avrò avuto una decina
d’anni. Era ospite da noi, a Tolmezzo, un nipote di mio padre, si
chiamava anche lui Sardo, seppure fosse mezzo austriaco. Stava frequentando
un corso di avviamento al lavoro. Una sera, verso le otto, tornavamo insieme
dopo essere stati a comperare Il Corriere della Sera, che veniva
distribuito in piazza a quell’ora (mio padre era un appasionato
lettore di quel giornale). Al ritorno, di fronte alla casa Candoni, questo
nipote di mio padre si mise a cantare Bandiera rossa. Immediatamente
uscì dalla casa il padrone, lo afferrò e lo prese a sberle
e voleva fare altrettanto con me. Da allora mi rimase un forte odio nei
confronti del fascismo.
Tuttavia, se c’erano delle convenienze, mi adeguavo anch’io.
La moralità rinacque in me al tempo della Resistenza. Poi magari
è morta di nuovo, ma la vera moralità, ripeto, ricomparve
quando mi feci partigiano.
In un articolo di qualche anno fa, lo scrittore Claudio Magris scrisse
di averla conosciuta e di aver avuto da lei alcune notizie interessanti
sui rapporti tra suo padre e Benito Mussolini quando venne qui a Tolmezzo,
prima della sua ascesa al potere.
Mio padre era un tipo particolare, era innamorato della poesia, della
pittura, dell’arte in genere. Faceva funzioni di direttore didattico
nelle scuole elementari di Tolmezzo, anche se non sono certo che avesse
sostenuto tutti gli esami per poter svolgere quel ruolo. Nel 1906 Benito
Mussolini ebbe un incarico di maestro nella scuola di mio padre. Probabilmente
era stata la madre, anch’essa insegnante, a convincerlo a rientrare
nei ranghi, a trovarsi un lavoro normale, dopo le scorribande da sindacalista
anarchico in Svizzera. Fu così che mio padre e Mussolini si conobbero
e si frequentarono per un po’. Nei primi tempi furono anche amici,
mio padre ammirava l’intelligenza, la prestanza mentale di quest’uomo.
Ma ad un certo punto dovette rompere l’amicizia e allontanarlo dalla
scuola e dall’insegnamento, perché si era messo a bere, ad
andare a donne, a provocare la gente di qui.
Posso ricordare anche un episodio che mi fu raccontato da Gerolamo Moro,
sindaco di Tolmezzo dopo la guerra. Un giorno gli capitò di incontrare
di fronte al duomo Mussolini, il quale gli disse: “Tu credi
in Dio? Ora ti dimostro che non esiste!”. Subito pronunciò
una grande bestemmia e poi gridò: “Che mi fulmini entro
il minuto!”. Trascorso un minuto, con tutta tranquillità
sentenziò: “Hai visto? Non mi ha fulminato. Quindi non
esiste.” Mussolini, tra le altre cose, era anche un buffone.
Sempre Gerolamo Moro mi raccontò che un’altra volta lo incontrò
per strada, disteso a terra con le braccia allargate che diceva: “Ti
abbraccio, grande madre terra!”. Era ubriaco.
Altre testimonianze di questo tenore me le raccontò un certo Ciani,
anche lui ex sindaco di Tolmezzo, un liberale. In particolare mi descrisse
- ma qui evito di riportarla! - una sua avventura con Mussolini a Pontafel, (3) dove esistevano delle
case di tolleranza.
Insomma, era un tipo molto spregiudicato. Quand’era ancora amico
di mio padre, e mia madre era incinta della prima figlia, gli disse che
l’avrebbe tenuta lui a battesimo, e lo disse come una provocazione
considerato che era palesemente ateo e anticlericale.
Visto il suo comportamento mio padre dovette allontanarlo dalla scuola.
Gli fece un rapporto negativo nell’agosto del 1907. Va però
detto che Mussolini non se la prese, forse perché nel rapporto
mio padre scrisse una frase del genere: “Peccato non usi la
notevole intelligenza per l’insegnamento ai ragazzi”.
A dimostrazione che mantenne una buona considerazione della nostra famiglia
cito un fatto accaduto alcuni anni dopo. Non esistendo ancora assicurazioni
sociali, mio padre dovette indebitarsi tremendamente per far curare all’ospedale
di Udine mia sorella, ammalata di tisi e morta a soli diciott’anni.
Mussolini, già al potere da diverso tempo, si impegnò ad
aiutarlo e nel 1926-27 gli fece assegnare un incarico a Montevideo come
direttore delle scuole italiane.
Venendo alla sua esperienza successiva, come visse le prime fasi
della seconda guerra mondiale?
Allo scoppio della guerra, quando la Germania invase la Polonia, mi trovavo
in Africa e dunque ero lontano dagli avvenimenti europei. Solo quando
tornai in Italia, alla fine del ’39, capii chiaramente ciò
che stava succedendo. Prima dell’entrata dell’Italia nel conflitto,
lavorai per un periodo a Tarvisio; avevo il compito di valutare i beni
degli allogeni, degli austriaci che vivevano nella zona e che sarebbero
dovuti andarsene dall’Italia (circa i 2/3 della popolazione). Vi
erano infatti stati degli accordi tra Hitler e Mussolini per promuovere
il rimpatrio - se così si può chiamare - degli austriaci
in seno alla ‘Grande Germania’ formatasi dopo l’annessione
tedesca dell’Austria nel 1938. Quasi tutti optarono per lasciare
l’Italia, anche perché girava voce che altrimenti sarebbero
stati trasferiti in Meridione.
Nel giugno del ’40, quando Mussolini decise di entrare in guerra,
fui richiamato in servizio e mandato a seguire un corso a Belluno per
imparare ad usare le nuove armi in dotazione all’esercito. Poi tornai
a Tarvisio, e solo nel marzo del ’41 mi spedirono in Albania e in
Grecia, dove i tedeschi, venuti in aiuto degli italiani, stavano avanzando.
Lì caddi spesso ammalato, in Africa avevo contratto la malaria
che mi causava fortissimi attacchi di febbre. Fu un continuo andirivieni
tra il battaglione e l’ospedale militare (dove fui anche derubato
da alcuni soldati italiani). La mia condizione fisica si aggravò
a tal punto che un giorno svenni e furono costretti a farmi delle pesanti
iniezioni di adrenalina nei polpacci, tanto che mi si aprì una
lunga ferita che porto ancora addosso. Fui quindi costretto a tornare
a casa in convalescenza. Passai così qualche mese, poi, nell’agosto
del ’42, mi sposai. Subito dopo fui richiamato e mandato a Udine
tra i sedentari, dove conobbi Nino Del Bianco, del quale divenni amico
e con cui più avanti avrei collaborato per la costruzione della
rete dei partigiani in Carnia.
L’ultimo periodo, prima della caduta del regime, venni trasferito
a Prestrane, a circa 3-4 chilometri da Postumia. Mi mandarono lì
a dirigere un gruppo di soldati che avevano il compito di svolgere lavori
in agricoltura. Essendo io laureato in agraria, mi avevano fatto direttore
di un’azienda per la coltivazione delle patate. Con me c’erano
soldati siciliani, lombardi, piemontesi. E tutti eravamo impegnati in
questo lavoro.
Quando si rese conto che la guerra sarebbe finita con la sconfitta dell’Italia?
Ricordo che un giorno, sarà stato forse il gennaio 1943, ero insieme
a Nino Del Bianco e dissi esplicitamente questa frase: “La guerra
è perduta! Chissà cosa si può fare per l’Italia?”.
Lui non rispose, ma il giorno dopo mi portò degli opuscoli. Era
già in contatto con Fermo Solari (4)
di Pesariis, un cjargnel delle alti valli, il fondatore della
famosa fabbrica di orologi. Solari faceva già parte del Partito
D’Azione, di cui fu anche uno dei fondatori. Del Bianco, insieme
a Alberto Cosattini (figlio di Giovanni, il primo sindaco di Udine del
dopoguerra), aveva contatti con lui e mi portò un opuscolo (5)
che aveva scritto firmandolo con uno pseudonimo ottenuto alternando le
sillabe del suo nome. Adesso non ricordo esattamente i contenuti di quel
testo.
Quindi, il 25 luglio del ’43, quando cadde il governo Mussolini,
eravate già preparati?
Da un certo punto di vista sì. Tuttavia io non sapevo ancora come
comportarmi e tutta la faccenda si sviluppò al di sopra della mia
volontà. Come ho già detto, mi trovavo a Prestrane, con
un gruppo di soldati molto eterogeneo. Fino all’8 settembre rimasi
lì, continuando a lavorare e trascorrendo i fine settimana con
mia moglie a Udine.
Solo quando seppi dell’armistizio le cose cambiarono per me in modo
decisivo. Ricordo che quel giorno arrivò un gruppo, forse un reggimento,
di Ussari di Pomerania insieme con un gruppo di anti-paracadutisti italiano;
io ero in una baracca vicino al castello. Accanto a me, a circa un chilometro,
c’era anche un gruppo di bersaglieri, comandati da un capitano milanese
e da un giovane di Fiume, col quale cominciai a parlare della fine della
guerra. Ricordo che mi disse: “Tu perdi la guerra, ma io perdo
la patria!”. Appena avuta la notizia della caduta di Mussolini,
gli Ussari mi invitarono ad andare ad accogliere i tedeschi, che intanto
si stavano muovendo per invadere il Nord Italia. Ovviamente non lo feci
e rimasi per due giorni fermo lì. E in quel frangente presi la
mia decisione. Raccolsi gli uomini e gli dissi: “Io ho già
deciso, vado in mezzo agli slavi sul monte Re; voi fate quello che credete,
cercate di raggiunger casa, e vada come vuole!”.
Abbandonare i soldati per unirsi ai partigiani sloveni era una scelta
rischiosa, si trattava di tradimento.
A dire il vero un po’ di paura l’ho avuta, ma nessuno mi sparò.
Ricordo che accettò di unirsi a me un sergente maggiore di Vicenza,
un certo Guerra, che poi non rividi più. Andammo sul Monte Re, (6) ma non trovammo nessun
partigiano. Scendemmo allora a Vipacco presso una caserma dove c’erano
dei soldati che protestavano contro il loro capitano poiché non
voleva lasciarli andare. Ovviamente chiesi al capitano il motivo di tale
scelta, opposta a quella che avevo appena preso io. Mi rispose se mi rendevo
conto del rischio che correva nello smobilitare la truppa senza un ordine
dall’alto e mi chiese, con tono provocatorio, se mi fossi assunto
io una così grave responsabilità. “Sì,
come no”, risposi. Firmai con un nome fasullo un’autorizzazione
e feci uscire i soldati dalla caserma.
Ci dirigemmo allora verso Gorizia, il campanile suonava a festa. Ricordo
che vidi un carro tirato da due bei cavalli con sopra una ventina di ragazze
slovene, tutte colorate, che cantavano, mentre noi, italiani e occupanti,
ce ne tornavamo a casa. In quel momento fui contento, ero un occupante
che se ne andava. Avevo imparato la lezione.
Da Gorizia poi andai a Udine e alla fine a Maiaso, (7) il paese di mia madre. Lì cominciai a interpellare gli amici di
un tempo, perché avevo l’idea di dovermi opporre in qualche
modo ai tedeschi. La gran parte però era già sposata (come
me del resto) e non voleva mettere a rischio la famiglia. Il primo che
riuscii a convincere fu Biagio Martin. Con lui andammo su in Pani (8) a cercare un posto dove sistemare la mitragliatrice, nel caso fossero
arrivati i tedeschi. Le condizioni di vita non erano facili, si viveva
di polenta e funghi. Tanto che mio padre, che aveva certe conoscenze,
mi trovò un posto di insegnante all’istituto per geometri
Zanon di Udine.
Quindi la sua vita era divisa tra l’attività partigiana
e l’attività civile di insegnante?
Dal lunedì al mercoledì andavo a Udine ad insegnare, e tenevo
i contatti con partigiani quali Moro (9),
Comessatti (10), ‘Verdi’
(11) e altri, mentre nei restanti
giorni tessevo una rete di relazioni in vista della resistenza futura,
e mi incontravo anche con esponenti comunisti e di altri partiti. Giravo
la Carnia a piedi o in bicicletta. I primi capisaldi partigiani li creai
a Forni di Sopra e di Sotto, Enemonzo, Villa Santina, Comeglians, Ovaro,
Paularo. Una delle persone che mi appoggiarono di più in questa
attività fu Aulo Magrini (12)
di Pesariis, al quale consegnavo opuscoli da distribuire nei paesi.
Oltre ai volantini, nei miei giri, portavo sempre con me una copia de
Il giocatore di Dostoevskij, il letterato che più mi ha
convinto, l’ho scelto come fratello maggiore. In un’occasione
mi salvò anche la vita, quando un giorno mi fermarono i cosacchi
e dopo avermi rovistato lo zaino, vedendo che leggevo un autore russo,
mi lasciarono andare stupiti. Ogni tanto portavo con me anche una copia
dei Vangeli, li tenevo in tasca e leggevo soprattutto Giovanni.
Li conservo ancora oggi.
Come mai decise di schierarsi con il Partito d’Azione e non
con altri, il PCI ad esempio?
In verità non ero del Partito d’Azione, ero solo aggregato,
non mi sono mai iscritto. Volevo rimanere autonomo. Avevo imparato la
lezione dell’8 settembre.
Da quanto ricorda, quali furono le motivazioni che la spinsero verso
la scelta di farsi partigiano in quelle circostanze così difficili
e confuse?
Sentimentalmente, nel profondo, ero in un certo modo nemico del fascismo
per vari motivi. Innanzitutto, come ho già ricordato, per quello
che successe a mio cugino Sardo, picchiato a causa di un’innocua
canzonetta. Poi per le esperienze vissute in Africa, dove mi ero reso
conto di tutti gli imbrogli del regime e della degenerazione morale del
sistema fascista.
C’erano anche motivi ideali e culturali. Ad esempio il fatto che
già da studente avevo abbracciato posizioni europeiste. Quando
avevo circa quindici anni, mio padre mi fece leggere un libro su Mazzini
che mi colpì molto e, in seguito, quand’era all’università,
qui a Tolmezzo conobbi un uomo di grande intelligenza, l’avvocato
Paolo Beorchia, che mi aveva instillato i valori dell’Europa e la
critica dei nazionalismi. Inoltre, sebbene mia madre fosse molto cattolica
e cercasse di educare i figli secondo princìpi religiosi, mi ha
sempre molto interessato il darwinismo, tanto che da adolescente diventai
quasi ateo. Credo che da tutto questo insieme di influenze, e da quello
che stavo vivendo, scaturì la decisione di lasciare l’esercito
nel ’43 e andare con i partigiani.
Dopo l’8 settembre, cosa pensò delle decisioni prese
dal governo italiano e dal re?
La mia scelta personale l’avevo ormai già fatta. Rispetto
al re e al governo italiano ricordo che dissi: “Traditori tutti
e due! e finito il discorso!”. In quel momento era nato in
me il sentimento della libertà: “Adesso decido io per
conto mio, faccio solo quello in cui credo!”. Da allora in
poi non mi sono mai lasciato convincere di nulla senza esserne profondamente
convinto.
Quale pseudonimo scelse come partigiano?
“Cino da Monte”. “Cino” risente un po’ dell’amore
che avevo per la letteratura e specie per il Dolce Stilnovo, di cui mi
aveva affascinato la figura di Cino da Pistoia, e “da Monte”
perché vengo dalla montagna. C’era, nella scelta del nome
di battaglia, un rinascere dell’ammirazione che avevo per la migliore
letteratura italiana.
In quel periodo saranno sorti in lei anche i problemi della violenza,
del portare e usare armi, dell’eventualità di dover uccidere.
Come li risolveva dal punto di vista etico?
Erano problemi non del tutto chiari alla mia coscienza, ma certamente
ormai ero conquistato dall’idea che tutto ciò che è
violenza è errore. Accettavo di dover essere violento, ma solo
per difesa, non solo nei confronti dei soldati tedeschi, ma soprattutto
dei valori e delle idee che il nazismo e il fascismo sostenevano, da un
certo modo di pensare.
Il nazismo e il fascismo si reggono sul razzismo e sulla violenza sui
più deboli. L’avevo imparato, quella che mi aveva più
commosso era stata la lezione di Pino Cantù, il pittore, sbattuto
su una nave e rimandato in Italia.
Questo suo modo di intendere la violenza la distingueva da altri suoi
compagni?
Certo, per esempio da molti garibaldini. Ricordo i lunghi discorsi che
feci, anche dopo la guerra, con Mario Lizzero (13),
di cui ero diventato profondamento amico. Ogni volta che veniva su in
Carnia litigavamo. Gli dicevo che la Russia non poteva far parte dell’Europa
finché non avesse cambiato quella mentalità rigida racchiusa
nel motto: “Proletari di tutto il mondo unitevi!”.
Era una mentalità resa palese e coerente soprattutto da Lenin,
il quale, ad un certo momento, disse della rivoluzione comunista: “Il
comunismo è un esercito di cui lo stato maggiore è il partito,
la truppa è formato dagli operai, ha sulla destra i piccoli borghesi
e sulla sinistra i contadini”. Quest’idea del comunismo
inteso come armata è tipica di Lenin, ma veniva assolutamente dall’idea
marxista rappresentata dal motto “Proletari di tutto il mondo
unitevi”. “Unitevi per far cosa?” chiedevo
io a Lizzero, “per far castagne lesse?”. No, per
uccidere! La violenza nella mentalità comunista penso sia figlia
del darwinismo portato alle estreme conseguenze materiali, dell’idea
economica di Adam Smith (14) rovesciata, e, da un punto di vista filosofico, da Hegel, pure lui rovesciato.
In sostanza, Marx sposa Hegel rovesciandolo un po’. L’idea
della collettività che soffoca l’individuo - secondo me -
è figlia non solo del marxismo, ma addirittura della concezione
hegeliana dello stato.
Per questi motivi dicevo a Lizzero che la Russia non poteva assolutamente
far parte dell’Europa, proprio a causa di questo sfondo ideologico
rigido e violento. E per ragioni analoghe, ma in un certo senso opposte,
facevo lo stesso discorso rispetto all’Inghilterra, a mio avviso
troppo filoamericana e sbilanciata verso il Pacifico. In un certo modo
avevo previsto il futuro, perché ancora oggi né la Russia
né l’Inghilterra fanno pienamente parte dell’Unione
Europea.
Ovviamente, queste idee oggi, visti i cambiamenti importanti intervenuti
negli ultimi cinquant’anni, le sostengo solo in parte. Certo, se
la Russia abbandonasse i suoi territori asiatici, sarei d’accordo
nel farla entrare in Europa, perché è chiaro che Dostoevskij
e Tolstoj sono europei e che tutta la grande cultura russa è europea,
figlia, in parte, della letteratura francese e tedesca.
Allora, come si immaginava, in quei momenti così difficili
e confusi, la società futura, come sarebbe risultata dopo il conflitto?
Immaginavo, e immagino ancora, l’Europa intesa come patria, l’esatto
contrario di ciò che sta avvenendo. Si è troppo sostenuta
l’immagine di Roma, della capitale, e questo è un ricadere
nella concezione castrante di una storia incentrata sull’Impero
romano, dimenticando che la nostra civiltà è nata altrove,
in Mesopotamia, in Egitto, in Grecia. L’Impero romano è nato
a seguito di tutti questi apporti culturali. La scuola italiana castra
gli studenti parlando troppo di Roma.
Tutto questo perché non siamo riusciti a creare delle regioni cantonalizzate
come in Svizzera. Io allora pensavo ad una Carnia-cantone, e a tutte le
Carnie del mondo. Invece si mantennero le Provincie, istituzioni napoleoniche,
che dovevano fornire soldati e ufficiali per l’esercito nazionale.
Purtroppo nel dopoguerra si è formata un’Italia in cui le
regioni hanno avuto poco potere legislativo, come noi volevamo, e non
sono nati i cantoni.
Quindi, il mio sogno di allora si infranse quasi subito con l’idea
di De Gaulle di un’Europa delle patrie, non di una patria europea
come volevo io, in cui potevo convivere con il mio fratello slavo, il
mio fratello francese e via dicendo.
Le sue idee europeiste, però, non erano patrimonio comune degli
altri esponenti della lotta partigiana.
Certo, la maggior parte dei partigiani dell’Osoppo era tutta quanta
di idee neorisorgimentali. In me forse c’era qualcosa di più,
anche perché ero venuto a contatto, attraverso parenti e conoscenti,
con gli emigranti, i quali avevano una grande esperienza europeista, per
lo meno per il fatto di aver vissuto all’estero e incontrato culture
diverse.
Tornando alle vicende della Resistenza in Carnia, una delle esperienza
più significative, anche dal punto di vista ideale, fu sicuramente
la nascita della Repubblica Libera, (15)
nell’autunno del ’43. Come visse quel momento?
La Repubblica Libera ebbe tutte le caratteristiche per poterla definire
un’anticipazione della futura Repubblica italiana. Il gruppo legislativo
era formato dai rappresentanti del Partito liberale, comunista, democristiano,
del Partito d’Azione e da quello socialista. Cercammo di coniugare
tre ideali: la giustizia, rappresentata dal comunismo, la libertà,
rappresentata da liberali e la socialità, rappresentata dai democristiani
e dai socialisti. Accanto al gruppo legislativo c’era un gruppo
consultivo, di cui facevo parte, il quale era formato dai rappresentanti
dei giovani, delle donne, che allora non potevano votare, degli operai,
dei contadini e delle forze armate. Il rappresentante delle forze armate
comuniste era Mario Lizzero, quello dell’Osoppo ero io.
Mi ricordo di aver partecipato all’organizzazione delle elezioni
del sindaco di Enemonzo. Radunammo tutti i capifamiglia del paese e li
facemmo votare. Poi, i diversi sindaci dei paesi della Zona Libera crearono
a loro volta i CLN di valle, e questi il CLN unitario con sede ad Ampezzo,
il quale è divenuto in seguito la ‘Repubblica partigiana
della Carnia’. Il maggior merito di aver sollecitato la nascita
del governo della Carnia Libera fu, secondo me, del farmacista udinese
Beltrame (16), ma fui io
quello che accettò l’idea con maggiore entusiasmo.
Quelle della Repubblica Libera furono le prime elezioni dopo moltissimi
anni sotto il regime fascista. Tuttavia, decideste di far votare i capifamiglia
maschi, e solo in alcuni casi, quando questo era mancante, le donne. Come
mai questa scelta nonostante il desiderio di democratizzare la società?
Non eravamo abbastanza maturi. Neanch’io lo ero. Eravamo ancora
legati all’idea della donna come regina della casa, che governava
la famiglia e ne curava la religiosità, mentre la vita sociale
era di pertinenza dell’uomo. Tuttavia, tenemmo in grande considerazione
il fatto che tutte le componenti della società fossero rappresentate,
sia le donne, sia i giovani, sia i lavoratori.
Perché, secondo lei, quest’esperienza unica nella storia
della Resistenza italiana, in quanto riusciste a mettere in piedi un governo
civile e non solo militare, non ha avuto grande risalto nella storiografia?
Rispondo raccontando un fatto. Tempo fa ebbi un colloquio con Arrigo Boldrini,
presidente nazionale dell’ANPI, e gli presentai questa peculiarità
dell’esperienza carnica. Giungemmo quasi ad uno scontro, poiché
- a suo parere - noi in Carnia avremmo fatto solo cosette, niente di paragonabile
alle grandi imprese della Resistenza in Emilia Romagna. In qualche modo,
da comunista, è rimasto legato all’idea che la società
vera, la società di eguali si può realizzare soltanto se
il popolo paga con il sangue la sua lotta. E in Emilia Romagna i morti
furono certamente più numerosi che da noi. In Carnia, insomma,
avremmo pagato un minore debito di sangue.
Ciò che lei afferma solleva un ulteriore problema: da una parte
della popolazione, anche qui in Carnia, i partigiani vengono spesso raffigurati
come violenti, privi di scrupoli, come gente che spesso si lasciò
andare ad azione crudeli. Come mai nella memoria collettiva c’è
questa visione che non corrisponde a ciò che lei ci ha finora raccontato?
Forse perché i comunisti, in un primo tempo, hanno ucciso e si
sono dimostrati piuttosto rigidi. Quando però ai garibaldini di
fuori sono subentrati quelli di qui, la situazione è cambiata completamente,
è migliorata, forse perché non erano del tutto comunisti.
Ad esempio, il comandante della Garibaldi, Mario Candotti (detto ‘Barba
Toni’) era probabilmente mezzo repubblicano, e il capo di stato
maggiore era Ciro Nigris, addirittura nipote di un vescovo.
Poi bisogna pensare che nei paesi tanti giovani erano via, per il mondo,
e che qui erano rimasti solo i bambini e le donne, a cui i partigiani
sottraevano del cibo. Erano colpitI nella vita. Quindi si formò
un’antipatia che io comprendo. È naturale che fosse così,
ma non è da considerare un nostro errore, per noi era una necessità.
Va riconosciuto che ci sono stati anche dei partigiani lazzaroni e degli
imbroglioni. Ne abbiamo anche uccisi. Uno ad esempio violentò una
donna a Muina. (17) Fu preso,
processato (il difensore era Enzo Moro), e poi fucilato. In situazioni
del genere c’è sempre la presenza di persone che si lasciano
andare alla violenza e ad atti sconsiderati. Questo accadde nella Garibaldi
come nella Osoppo.
A distanza di tanti anni c’è qualche scelta o qualche azione
che si rimprovera?
Se devo fare un bilancio, devo dire che gli elementi positivi superano
quelli negativi. Mi rimprovero ad esempio di non essere intervenuto nella
questione di Ovaro (18) e
di aver permesso che accadesse quello che è accaduto, anche se,
non avendo ufficialmente nessun grado (ero stato sollevato da ogni incarico
l’11 novembre del ’44 perché mi dichiaravo mazziniano
e vicino al pensiero di Cattaneo), non ebbi nessuna responsabilità
diretta. Ora però sento che sarei dovuto in qualche modo intervenire.
La società italiana dopo il 1948 ha trovato la sua ragion d’essere
nella Resistenza e nei valori della Costituzione. Lei oggi ritiene che
le idee portanti che scaturirono dalla lotta partigiana siano diventate
patrimonio comune?
No, non lo sono. Ad esempio nella Costituzione italiana c’è
scritto che tutti gli uomini sono uguali, ma la realtà non è
questa. Non possiamo dire che questa società sia una società
di eguali. Questa friulana, ad esempio, è una società di
élite.
Poi, oggi è venuta fuori l’Europa delle patrie, cosa peggiore
non poteva nascere, ed è venuta fuori perché si è
formata ed ingrandita Roma, puntellata dalle province che hanno messo
in sordina le regioni, le quali, nate molto più tardi, hanno potuto
legiferare molto poco.
Per concludere, quale suggerimento darebbe, guardando alla sua esperienza,
a degli studenti di 18/19 anni che vivono ormai proiettati nel terzo millenio?
Non mi sento di dare suggerimenti a nessuno. Conosco i miei difetti, so
che tutto quello in cui credo non sempre sono stato in grado di realizzarlo.
Al massimo potrei dirvi questo: cercate di essere moralmente a posto nei
limiti che il vostro coraggio vi consente.
NOTE
(1)
paese vicino a Ravenna.
(2) dopo la rotta di Caporetto nel
1917 molti friulani furono costretti a trasferirsi in altre regioni d’Italia.
(3) nome tedesco di Pontebba, allora sotto l’Impero
austroungarico.
(4) Fermo Solari: ‘Somma’ (1900-1989),
originario di Pesariis, nel 1942 fu uno dei fondatori, assieme a Ferruccio
Parri, Emilio Lussu e Ugo La Malfa, del Partito d’Azione (cui avrebbe
voluto dare il nome di Partito Laburista Italiano) e dall’ottobre
1943 responsabile del partito nel CLN del nord-est. Nel secondo dopoguerra
fondò un’azienda elettromeccanica che divenne nota in tutto
il mondo. Fu senatore socialista per Pordenone dal 1958 al 1963.
(5) si riferisce al saggio (48 pagine) che Solari
scrisse nell’inverno del 1942 dal titolo Per una democrazia
socializzata e che firmò con lo pseudonimo, anagramma del
proprio nome, Mario Fresol. L’opera fu pubblicata clandestinamente
dall’editore Gualandi di Vicenza e vide la luce nei primi mesi del
1943.
(6) Monte Re: (Nanos per gli sloveni) montagna sopra
il paese di Vipacco (Vipava) in Slovenia.
(7) frazione di Enemonzo, tra Villa Santina e Ampezzo.
(8) Pani: a nord-ovest di Raveo (altitudine 900 m).
La località è ricordata in Carnia anche perché vi
viveva Antonio Zanella, chiamato l’‘Ors di Pani’, una
sorta di uomo leggenda, noto per le sue stranezze, che trovò una
tragica fine nel 1955, assassinato insieme alla figlia. Sulla sua figura
Marchetti ha scritto un breve libro,
fuori commercio, in cui ricorda l'amico fraterno.
(9) Moro: Antonino Moro ‘Toni II’, aderente
al Partito d’Azione.
(10) Comessatti: Carlo ‘Spartaco’,
anche lui azionista.
(11) ‘Verdi’: pseudonimo del capitano
Candido Grassi, aderente al Partito d’Azione. Iniziò la sua
attività nella Resistenza a Udine, fu uno dei fondatori della Osoppo
e comandante della stessa in Carnia.
(12) Aulo Magrini: ‘Arturo’, schierato
politicamente più a sinistra di Marchetti, Magrini era propugnatore,
rispetto alla lotta resistenziale, dell’autonomia carnica. Sarà
ucciso nel luglio del 1944 durante un’azione contro reparti tedeschi
e, secondo alcuni, in circostanze fino ad oggi non del tutto chiarite.
(13) Mario Lizzero: ‘Andrea’. Lizzero,
nel marzo del 1943 organizzò le prime formazioni partigiane del
Friuli e fondò il Distaccamento Garibaldi. Nel 1944 diventò
commissario politico del Gruppo divisioni ‘Garibaldi Friuli’.
Rilevante fu il contributo che diede alla formazione della Repubblica
partigiana della Carnia. Svolse anche un ruolo di primaria importanza
nei rapporti fra la resistenza italiana e quella jugoslava.
(14) Adam Smith: economista e filosofo sociale scozzese
(1723-1790). Padre del liberismo classico, Smith ritiene che l’uomo
agisca mosso esclusivamente dal suo interesse individuale e che il mercato,
nel gioco di domanda e offerta, sia come una mano invisibile che genera
un continuo e positivo adeguamento, trasformando l’egoismo individuale
in benessere collettivo
(15) a differenza delle altre ‘zone libere’
del nord Italia, quella della Carnia si distinse per il cosiddetto ‘Governo
della Carnia libera’, una giunta civile in cui sedevano insieme
i rappresentanti dei partiti del CLN, delle formazioni Osoppo e Garibaldi,
del Fronte della Gioventù, dei Gruppi di Difesa della Donna, del
Comitato dei Contadini e dell’Organizzazione Operaia. Le formazioni
militari svolgevano unicamente il compito di opposizione al nemico, lasciando
alle componenti politiche antifasciste la funzione di autogoverrno e di
amministrazione. L’esperienza si allargò in tutto il territorio
promuovendo la nascita delle ‘Giunte Popolari Comunali’, organi
eletti con votazione segreta dai capifamiglia maschi o femmine. Il cosiddetto
‘Comitato di Liberazione Nazionale della Zona Libera del Friuli’,
che aveva sede ad Ampezzo, si riunì dal 26 settembre al 10 ottobre
1944.
(16) Gino Beltrame ‘Emilio’ (1902-1973),
rappresentante del Partito Comunista in Carnia. Dal 1948 al 1963 fu deputato
del PCI per Udine.
(17) frazione di Ovaro.
(18) In merito alla cosiddetta battaglia
di Ovaro del 2 maggio 1945 Michele Gortani scrive: “Ben
più tragica fu la rappresaglia dei cosacchi e caucasici ad Ovaro
il giorno 2 maggio. Il Comandante della V Divisione d’assalto ‘Osoppo’
si era portato al Comando caucasico di Chialina per trattare la resa del
reparto. Violando ogni legge internazionale, contro di lui fu lanciata
una bomba a mano, ferendolo alle gambe. In seguito a ciò i patriotti
ruppero ogni trattativa e fecero saltare la caserma - in precedenza minata
- del presidio caucasico. La battaglia si propagò al vicino paese
di Ovaro, dove giunsero rinforzi da Villa Santina e anche da Tolmezzo;
costretti i patriotti a ritirarsi, cosacchi e caucasici, incitati dai
loro comandanti, si slanciarono furiosamente contro i civili, incendiando
otto case, saccheggiando le altre e massacrando senza distinzione quanti
incontravano. Il Parroco don Pietro Cortiula, che si era prestato per
ottenere una tregua, venne ferito all’inguine mentre somministrava
gli ultimi sacramenti a un agonizzante; poi gli rubarono i vasetti d’argento
contenenti l’olio santo e se lo trascinarono dietro a bastonate,
finendolo a rivoltellate alla testa nel centro del paese. Altre 22 persone
vennero uccise, e fra esse un chierico, una donna, un vecchio settantenne.
[...] Finita l’impresa, la soldataglia prese la via della ritirata
passando per Comeglians [...]” (in Il martirio della Carnia,
Stab. Grafico ‘Carnia’, Tolmezzo 1980, II ed., ristampa).
Riguardo alla battaglia di Ovaro vi sono diverse versioni, spesso discordanti
tra di loro. In linea generale, tuttavia, vi è un certo accordo
nel riconoscere gli errori commessi da parte dei componenti della Osoppo
per aver richiesto la resa alle truppe cosacco-caucasiche ormai in ritirata.
Cfr. Angeli G. - Tirelli R., L’Osoppo per la libertà
della Carnia (1943-1945), Associazione Partigiani ‘Osoppo Friuli’,
Udine 2003, pagg. 121-128. |