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              BREVE STORIA D'ITALIA 
              
                
                
                
                   
                 
               
altro :
        cronologia - immagini -   cinema - espresso -  micromega - millennium - cercando il '68 - appunto 
                
               Qualcuno ebbe a dire che il celebre maggio francese era in verità 
                cominciato a Trento, parecchi mesi prima, nell’autunno
                del  1967 (per una ricostruzione della sequenza degli avvenimenti, v. la cronologia)
                  proprio nei giorni in cui Ernesto Che Guevara stava combattendo la sua ultima battaglia prima di essere catturato
                 e ucciso dall’esercito boliviano (col supporto della CIA).  
                Naturalmente non ha molta importanza attribuire certificati di 
    paternità: in realtà in Italia, in Francia, in Germania, 
                in altri paesi europei, fra i giovani si respirava già 
                da tempo un’aria nuova. La contestazione degli hippies di San Francisco, nei primi anni ‘60, verso la guerra in Vietnam aveva coinvolto parti significative dell’avanguardia 
                intellettuale americana ma gli echi della beat 
                generation di Jack Kerouac (il suo On 
                the road, Sulla strada, rimase per anni forse il libro più 
                amato dai giovani, così come le canzoni di Bob Dylan e 
                Joan Baez; in realtà lo spirito anarchico di Kerouac era 
                in contrasto con le sue posizioni strettamente politiche, decisamente 
                più conservatrici di quanto i suoi lettori pensassero) 
                e di Allen Ginsberg erano giunti in Europa affievoliti, 
                deformati da un clima culturale completamente diverso: qui nella 
                prima metà del decennio si guardava piuttosto ai Beatles 
                e ai Rolling Stones, si portavano i capelli lunghi o i pantaloni 
                scampanati, con un certo disappunto da parte dei benpensanti e 
                tuttavia senza turbare la sostanza dell’ordine costituito; 
                questo vago, e tutto sommato innocuo (schegge di televisione ci 
                fanno ancora vedere certe trasmissioni RAI affollate da giocondi 
                “capelloni” impegnati a seguire ritmi musicali più 
                o meno plausibili) anticonformismo, lentamente in vari settori 
                del mondo giovanile si trasformò in un disagio sempre più 
                marcato nei confronti di società che venivano viste come 
                dominate da valori vecchi, e nell’università ciò 
                prese la forma di un discorso tutto politico. 
                 
                In alcune Facoltà spuntarono - accanto
                ai classici del marxismo               - testi
               di studiosi finora conosciuti solo da pochi addetti ai lavori,
               Herbert Marcuse,
               Theodor W. Adorno,  Wilhelm Reich, Frantz  Fanon, Jean-Paul Sartre, Roland Barthes, Paul Sweezy, Eric
               Fromm, e altri ancora. 
               
                
                
               
              È certamente significativo che molti degli studenti che 
                avviarono questa riflessione fossero di estrazione cattolica (del 
                resto era del tutto atipico non esserlo in un paese fino allora 
                dominato dalla cultura cattolica. “Non possiamo non 
                dirci cristiani” scrisse Benedetto Croce. Ma grande 
                eco anche tra i non credenti ebbe il libro Lettera a una professoressa nato dall’esperienza di pedagogia antiautoritaria condotta 
                da don Milani ), 
                ma la chiave per comprendere come mai soprattutto in Italia e 
                in Francia la protesta giovanile fu così politicizzata 
                e prese determinati indirizzi, sta nel fatto che proprio in questi 
                due paesi la sinistra non solo era particolarmente forte ma aveva 
                come riferimento maggioritario i partiti comunisti, a differenza 
                del Nord Europa e della Gran Bretagna dove prevalevano le formazioni 
                di tipo socialdemocratico.  
              Su questa solida e diffusa tradizione 
              marxista, dunque, si innestò la protesta studentesca: da Trento, Pisa e Milano si diffuse a Torino, a 
                Roma e poi praticamente in tutti gli Atenei, ed ebbe il suo momento 
                di svolta il 1° marzo 1968, quando gli studenti 
                romani che volevano occupare di nuovo la facoltà di Architettura, 
                appena sgombrata dalla Questura, per la prima volta risposero 
                alle cariche della polizia e ingaggiarono, a Valle Giulia, 
                una vera e propria battaglia di piazza. 
                  
   
                       
                
                    
                    
                      “
                  Vi 
                odio cari studenti ...Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a 
                botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché 
    i poliziotti sono figli di poveri, vengono da periferie, contadine o urbane che siano...”  
                 
              Così scrisse Pier Paolo Pasolini sull’Espresso (n. 24, 16.6.68), in uno dei suoi 
                tanti e bellissimi scritti corsari, consapevolmente contraddittori, 
                segnati da un bruciante desiderio di capire e al tempo stesso 
        di non farsi intrappolare dalla pigrizia degli schemi. 
                Tutto il sistema formativo italiano era basato su un ordine culturale 
                e legislativo costruito a fine ‘800 e in epoca fascista, 
                e conteneva in sé tutti gli elementi più deteriori 
                dell’Italietta: norme arcaiche e confuse, totale mancanza 
                di democrazia e trasparenza, disorganizzazione, inadeguatezza 
                delle strutture, carenza nei servizi primari (a cominciare dalle 
                aule), metodi e percorsi di studio sorpassati, libri di testo 
                ottocenteschi, carenza della ricerca scientifica. Può essere 
                indicativo lo scarso numero di premi Nobel ottenuti da italiani: 
                Golgi (1906), Marconi (1909), Fermi (1938), Segrè (1959), 
                Natta (1963), Luria (1969), Dulbecco (1975) - Segrè, Luria 
                e Dulbecco erano però diventati cittadini statunitensi 
                - Rubbia (1984), Levi Montalcini (1986). Altri Nobel, per la letteratura: 
                Carducci (1906), Deledda (1926), Pirandello (1934), Quasimodo 
                (1959), Montale (1965), Fo (1997). 
               
                Anche nell’università (dove oltre a tutto i professori 
                erano spesso latitanti), come in genere nei vari servizi pubblici, 
                gli utenti principali, cioè gli studenti, erano insomma 
                considerati poco più che un inevitabile fastidio, ma la 
                protesta andò immediatamente oltre questi aspetti, diciamo 
                così, organizzativi e divenne dissenso radicale verso il 
                ruolo stesso esercitato dalla scuola: questa, in estrema sintesi, 
                veniva considerata un vero e proprio mezzo di manipolazione ideologica, 
                attraverso il quale le classi dominanti formavano generazioni 
                pronte a inserirsi disciplinatamente nel sistema capitalistico; 
                l’università, in particolare, aveva la funzione di 
                preparare i quadri dirigenti della collettività e in quanto 
                tale era criticata ancora più pesantemente. 
Ma, proprio 
                per tale intima connessione fra istruzione e società, gli 
                studenti dovevano trovare “un corretto rapporto fra 
                lotta sulle strutture universitarie e tensione non estremistica 
                a porsi anche all’esterno come forza attiva [...perché] 
                il solco tra movimento studentesco e movimento operaio non va 
                approfondito ma criticamente scavalcato se si vuole che la funzione 
                critica del movimento studentesco non operi nel vuoto”. 
                (Alberto Asor Rosa, Lotte studentesche e movimento operaio, 
                in Problemi del Socialismo, n. 28-29, marzo-aprile 1968) 
                “Noi nelle metropoli combattiamo contro il complesso 
                delle istituzioni che ci dominano, in cui gli uomini debbono essere 
                giorno e notte condizionati per garantire la conservazione dell’ordine 
                costituito. Ognuno deve restare integrato, deve essere oggetto 
                degli oggetti dominanti: altrimenti tutto il sistema ne viene 
                rivoluzionato.” (Rudi Dutschke, Teoria e pratica 
                in situazioni specifiche, Feltrinelli, 1968, p. 32. Dutschke 
                era il principale leader degli studenti tedeschi: durante una 
                manifestazione gli spararono alla testa e il giornale conservatore 
                Der Spiegel ironizzò finemente sul fatto che egli, 
              agonizzante, invocasse la madre) 
                
              
                 
                
              La critica degli studenti coinvolse apertamente le stesse forze 
                di sinistra, accusate di essere ormai subalterne alle regole del 
                capitalismo e di aver perso ogni connotazione rivoluzionaria: 
                il Segretario del PCI, Luigi Longo (Togliatti 
                era morto nel 1964), intuì l’importanza del movimento 
                e cercò più volte di stabilire un confronto, ma 
                la maggioranza degli studenti politicizzati rifiutò decisamente 
                il dialogo e anzi fece del PCI uno dei propri bersagli preferiti. 
                Occorre dire, comunque, che se in pratica tutte le scuole e le 
                Facoltà vennero prepotentemente coinvolte nelle lotte, 
                non tutti gli studenti erano sulle posizioni dell’estrema 
                sinistra: i più restavano in qualche modo ai margini, una 
                certa parte si schierò con i fascisti e una piccola ma 
                significativa minoranza scelse di continuare a militare nei partiti 
  della sinistra storica. 
                Dopo circa un anno dalle prime occupazioni (in cui si chiedeva 
                innanzi tutto il diritto di assemblea) il movimento studentesco 
                non esisteva praticamente più in quanto corpo omogeneo: 
                lo spiccato carattere ideologico assunto dal dibattito aveva portato 
                alla frammentazione in vari gruppi, genericamente detti della 
                “sinistra extraparlamentare”: è 
                molto difficile dar conto di questa realtà variegata (per una panoramica v.  nelvento), sia 
                perché in tutte le formazioni vi furono ripetutamente spaccature, 
                ricomposizioni, fusioni, sia perché la loro evoluzione 
                fu estremamente rapida, e segnata da una fortissima competitività 
                reciproca. In ogni modo questi gruppi sono riconducibili principalmente 
                a due filoni del pensiero marxista: quello comunista e quello 
                più legato all’elaborazione antileninista di Rosa Luxemburg, 
                e, in Italia, all’esperienza maturata nella sinistra socialista 
                e in riviste come Quaderni Rossi, di Raniero Panzieri. 
     
                Nel primo 
               caso il riferimento ideologico era la Cina, e in particolare la 
                Rivoluzione culturale promossa da Mao nel 1966: i comunisti cinesi avevano rotto con Mosca nel 1964, 
                accusando i sovietici di revisionismo, cioè di aver tradito 
                i princìpi del marxismo-leninismo rivedendone i punti centrali 
                e criticando Stalin; a metà degli anni ‘60 in Europa 
                si erano staccati dai partiti comunisti piccoli nuclei che nel 
                nome stesso intesero ribadire la loro fedeltà al marxismo-leninismo 
                di Mao e Stalin, ma restarono sostanzialmente insignificanti: 
                da noi il PCd’I m-l (Partito Comunista 
                d’Italia marxista-leninista) era una realtà microscopica, 
                che addirittura si spaccò in due partitini concorrenti, 
                ciascuno impegnato più a farsi “riconoscere” 
                da Pechino o da Tirana (!) che a fare politica; tra gli studenti 
                ebbe invece una notevole fortuna l’Unione dei comunisti 
                m-l (più conosciuta col nome del suo giornale Servire 
                il popolo), con la sua grande rigidità dottrinaria, 
                i cortei all’insegna del libretto rosso di Mao e del più 
                ridicolo realismo socialista (per realismo socialista s’intende più specificamente la concezione - nata 
                nell’URSS degli anni ‘30 e diffusasi poi nei regimi 
                cosiddetti socialisti - dell’arte come rappresentazione 
                esclusiva della “realtà”, in cui naturalmente 
                predominavano muscolosi operai e coraggiose donne che celebravano 
              entusiasticamente le vittorie proletarie).
  
  
               Con analoghe simpatie per Mao, ma con minor folklore e con seria 
                attenzione verso il PCI (che comunque mantenne viva la propria 
                presenza, ancorché minoritaria rispetto ai gruppi, sia 
                nelle scuole che nelle università), il gruppo guidato a 
                Milano da Mario Capanna, e che mantenne il nome 
                di Movimento Studentesco. Con posizioni di forte 
                radicalità, in cui pesavano anche elementi delle teorie 
                trotskiste, Avanguardia Operaia. Tutt’altro 
                che vicino al dogmatismo m-l, ma con dichiarate simpatie 
                verso la rivoluzione culturale, il Manifesto, 
                creato da dirigenti del PCI (Pintor, 
                Rossanda, Magri, Castellina) radiati all’inizio 
                del ‘69 per le loro aspre critiche al funzionamento del 
                partito e ai suoi ritardi nell’elaborazione teorica; nel 
                ‘71 fondarono l’omonimo quotidiano, che rimase in 
                vita (a differenza di quelli creati da Lotta Continua 
                e Avanguardia Operaia) anche dopo la scomparsa del gruppo. 
                Più vivaci sul piano dell’iniziativa e politicamente 
                più articolate (proprio perché assai meno incardinate 
                a rigidi presupposti ideologici) le formazioni che non si rifacevano 
                direttamente alla tradizione del movimento operaio: con una struttura 
                per certi versi simile ai gruppi m-l, ma senza alcun richiamo 
                alla matrice stalinista, Potere Operaio, l’organizzazione 
                costituita da Toni Negri e Oreste Scalzone (maScalzone lo chiamavamo). 
                Lotta Continua fu una delle formazioni che ebbe maggior seguito, 
                e oltre i confini scolastici, anche perché meno di altre 
                ebbe la preoccupazione di darsi un forte assetto ideologico e 
                organizzativo (ricordo ancora la perentoria affermazione di un 
                dirigente di Lotta Continua, durante una delle innumerevoli assemblee 
                universitarie in cui noi comunisti venivamo regolarmente battuti 
                dai gruppi: “Il marxismo non si studia, si applica!”) 
                e puntò invece a calarsi in tutte le aree di più 
                acuta conflittualità e marginalità sociale, dal 
                movimento di occupazione delle case ai fermenti di protesta nelle 
                carceri e nelle caserme, fino ad appoggiare la stessa rivolta 
                di Reggio Calabria. In seguito all’assegnazione a Catanzaro 
                del ruolo di Capoluogo di Regione (1970), si creò un violento 
                movimento di protesta che per più di un anno agitò 
                la vita di Reggio C. Furono alcuni gruppi di potere locale e il 
                MSI ad alimentare quella che in talune occasioni assunse le caratteristiche 
                di ribellione sociale: fu proprio su questo aspetto che LC tentò, 
                inutilmente, di innestare elementi politici in grado di trasformare 
                una generica lotta localistica in rivolta popolare. 
                Al di là delle notevoli differenze fra i vari gruppi (intorno 
                ai principali ne proliferò una miriade di minor consistenza), 
                si può sommariamente rilevare che l’impianto estremista 
                delle loro analisi e proposte si fondava su una visione del tutto 
                semplicistica sia della composizione di classe della società 
                italiana, assai più complessa della mera contrapposizione 
                borghesia-proletariato, sia dei rapporti di forza fra le parti 
                in conflitto, che andavano ben al di là della rispettiva 
                consistenza “militare”. Tant’è che già 
                nei primi anni ‘70 la maggior parte di queste formazioni 
                non esisteva più o si era disarticolata prendendo le strade 
                più varie: i marxisti-leninisti semplicemente scomparvero; 
                una parte di LC e di Potere Operaio confluì nella cosiddetta 
                area dell’Autonomia, a sua volta poi frantumatasi, un’altra, 
                minoritaria, andò ad alimentare le file del terrorismo; 
                il movimento di Capanna tentò di riorganizzarsi oltre l’ambito 
                universitario e in seguito fu una delle componenti di Democrazia 
                Proletaria; il Manifesto si unì a una parte del disciolto 
                PSIUP, costituendo il PdUP, mentre il quotidiano 
                rimase come entità autonoma; molti militanti entrarono 
                in ordine sparso nel PCI, altri, più proficuamente dal 
                punto di vista economico, nel PSI o direttamente in qualche grande 
                azienda. 
                 
                Alle elezioni del 1972 il PSIUP ottenne un risultato fallimentare, 
                non riuscendo a eleggere nessun parlamentare: la maggioranza decise 
                di sciogliere il partito e confluire nel PCI, la minoranza formò 
                il PdUP (Partito di Unità Proletaria); l’alleanza 
                elettorale (1975-6) fra PdUP, Avanguardia Operaia e Movimento 
                Lavoratori per il Socialismo (il gruppo di Capanna), prese il 
                nome di Nuova Sinistra Unita e successivamente (1978) si costituì 
                in partito (senza però il gruppo dirigente del PdUP, che 
                entrò nel PCI): Democrazia Proletaria si è poi sciolta nel 1991, con alcuni suoi dirigenti, fra 
                cui Capanna, entrati nel movimento ambientalista, mentre la maggioranza 
                ha aderito a Rifondazione Comunista.  
                Parentesi: ma che fine hanno fatto tanti "rivoluzionari" che quotidianamente ricoprivano di merda il PCI?  
                 
                
  
    
                Ma il 68, per fortuna, non è certo riconducibile unicamente 
                alla vita spericolata dei gruppi e rappresentò nel suo 
                insieme un grande momento di rinnovamento della società 
                italiana: moltissimi giovani scoprirono la politica, nuovi modi 
                di stare insieme, culture diverse, comportamenti più aperti 
                e innovativi nella sfera familiare e sessuale; la partecipazione 
                di numerose ragazze ai movimenti di lotta contribuì a far 
                emergere le distorsioni di una società storicamente fondata 
                secondo bisogni e criteri soltanto maschili, e alle passate lotte per l’emancipazione sul lavoro delle mondine o delle operaie 
                si aggiunse quel concetto più ampio di liberazione della 
                donna che è alla base del femminismo; 
                il mondo della cultura fu investito con forza da una carica contestativa 
                che ne metteva in discussione la separatezza e i privilegi rispetto 
                al mondo del lavoro, e se per numerosi intellettuali l’adesione 
                alla protesta fu superficiale, snobistica, per molti altri rappresentò 
                un’occasione seria per tentare di ridefinire il rapporto 
                fra sapere e struttura sociale; la forte critica alla logica esasperata 
                dei consumi e al conformismo produsse da una parte forme di nuova 
                consapevolezza del legame uomo-ambiente e dall’altra l’acquisizione 
                di una maggiore autonomia rispetto a regole morali e condotte 
                individuali che parevano immutabili: di qui, in primo luogo, il 
                diffondersi di una laicità finora soffocata dalla tradizione 
                cattolica e di una modernizzazione dei costumi che avrà 
                come punto di svolta l’introduzione del divorzio (1970) e della legge sull’interruzione della gravidanza 
            (1978).              
            
               Oltre a cinema, teatro, letteratura, musica, di cui si parlerà 
                più avanti, è significativo come settori importanti 
                del mondo scientifico furono portati a interrogarsi sul proprio 
                ruolo: medici, psichiatri, magistrati, proprio in quegli anni 
        diedero vita a forme associative di netto orientamento progressista.  
                Rossana Rossanda definì il 68 l’anno degli 
                studenti, ed in parte è senz’altro vero, 
                ma questa espressione fu coniata durante le giornate più 
                calde del maggio studentesco e non poteva raccogliere l’altra 
                novità di enorme importanza che si stava delineando, cioè 
                l’energico rilancio della combattività operaia. 
                 
                 
                Già nel 1966, col rinnovo contrattuale degli elettromeccanici, 
                si era capito che le lotte di pochi anni prima non erano state 
                un sussulto isolato e che il paziente lavoro di ricucitura del 
                rapporto fra sindacato e lavoratori cominciava a dare i primi 
                risultati. 
                Ancora una volta furono i giovani operai meridionali a dar fuoco 
                alle polveri. Le trasformazioni nell’organizzazione industriale, 
                in particolare con l’introduzione di nuovi sistemi di controllo 
                della produttività (tra cui le famose tabelle in cui i capireparto segnavano scrupolosamente i tempi e la qualità 
                delle prestazioni dei dipendenti), avevano comportato un notevole 
                appesantimento delle condizioni di lavoro, con ritmi particolarmente 
                faticosi, precarietà in termini di sicurezza e salute, 
                e il continuo ricatto del cottimo, cioè il salario direttamente 
                in proporzione alla quantità di produzione effettuata. 
                In numerose fabbriche del Nord si diffuse un accentuato malcontento 
                fra i lavoratori, ma gli organismi sindacali, le Commissioni Interne, 
                erano molto prudenti e ritenevano che i rapporti di forza col 
                padronato non fossero ancora tali da consentire una ripresa delle 
                lotte.  
                Così il sindacato indirizzò la propria iniziativa 
                su alcuni temi d’interesse generale (la casa, 
                le pensioni), organizzando scioperi e manifestazioni: 
                si trattò certamente di una scelta importante, perché, 
                oltre a portare all’attenzione dei cittadini questioni di 
                rilevante peso sociale, riproponeva un confronto politico sulle 
                grandi riforme, e tuttavia rischiava di riprodurre il vecchio 
                errore degli anni ‘50, quando la strategia elaborata a livello 
                centralizzato aveva perso di vista le realtà specifiche. 
                Quando gruppi di operai organizzarono spontaneamente improvvise 
                fermate del lavoro, cortei interni alle aziende, volantinaggi 
                fuori dai cancelli, i sindacati presero le distanze da queste 
                azioni considerate avventate, oltre a tutto valutando che non 
                avrebbero avuto un gran seguito: invece, soprattutto in alcuni 
                grandi stabilimenti (Pirelli, Fiat Mirafiori, Alfa Romeo, Petrolchimico 
                di Marghera, Siemens, Magneti Marelli), queste lotte spontanee 
                presero piede a tal punto che in molti casi le Commissioni Interne 
                furono completamente tagliate fuori; i gruppi, e in particolare 
                Lotta Continua, cominciarono a intervenire sistematicamente di 
                fronte alle fabbriche e riuscirono in diverse situazioni a creare 
                nuovi organismi, i Comitati Unitari di Base, che per un certo 
                periodo ottennero larghi consensi. 
          
                 
              Ci fu naturalmente chi, a sinistra e a destra, si affrettò 
                a stilare il necrologio del sindacato, ma la tradizione del movimento 
                operaio italiano non era fatta di retorica, bensì di legami 
                profondi di solidarietà e di cultura politica: la ricchezza 
                di tale patrimonio, e l’intelligenza di molti dirigenti 
                sindacali (primo fra tutti Bruno Trentin, allora 
                Segretario della FIOM CGIL), consentì al sindacato di recuperare 
                rapidamente il terreno perduto e di riprendere in mano la direzione 
                del movimento. Gradualmente le vecchie Commissioni Interne vennero 
                sostituite dai Consigli di fabbrica, o più 
                precisamente dei delegati, perché in ogni reparto i lavoratori 
                eleggevano un proprio delegato, indipendentemente dal sindacato 
                di appartenenza, che li avrebbe rappresentati nel Consiglio unitario 
           di azienda. 
                 
            
               Alla ripresa dell’attività dopo le ferie del 1969, CGIL, CISL e UIL, che nel frattempo 
                avevano avviato fra loro un intenso dialogo di riavvicinamento, 
                erano pronte a un’offensiva che si rivelò ancora 
                più ampia del previsto: la lotta per il rinnovo del contratto vide la partecipazione di oltre un milione e mezzo di metalmeccanici, 
                a cui si unirono quasi tutti i lavoratori degli altri comparti, 
                consapevoli del significato politico che avrebbe assunto l’esito 
                dello scontro. Questo autunno caldo finì con la conquista 
                di quasi tutte le rivendicazioni (aumenti di salario 
                uguali per tutti, introduzione graduale delle 40 ore 
                settimanali, diritto di assemblea, abolizione 
                delle gabbie salariali, cioè delle differenti 
                retribuzioni fra zone e zone) e spianò la strada ai rinnovi 
                contrattuali che nei mesi successivi videro impegnati, 
                con analogo successo, i chimici, gli edili, i ferrovieri, i tessili, 
            e le categorie del pubblico impiego.                 
                Questo nuovo clima fra l’altro favorì in modo decisivo 
                l’approvazione dello Statuto 
                dei lavoratori: per la prima volta una Legge dello 
                Stato disciplinava rigorosamente i diritti dei lavoratori dipendenti, 
                sancendo alcune libertà e principi fondamentali altrimenti 
                sottoposti al completo arbitrio dei datori di lavoro. Non si può 
                non vedere il nesso tra lotte operaie e studentesche, creatosi 
                anche al di là degli specifici obiettivi di lotta. Si era 
                avviato un processo di liberazione che coinvolgeva nel profondo 
                la società e nell’insieme si può dire che 
                il 68 fu molto di più che una stagione politica: incrinò 
                vecchie regole, mise in discussione mentalità sorpassate, 
                e soprattutto liberò una molteplicità di energie 
                senza le quali la società sarebbe sicuramente meno dinamica 
    e aperta. 
     
                Il 1968, tuttavia, fu un anno cruciale anche a causa dei fatti 
                di Cecoslovacchia: nel partito comunista di quel 
                paese si era andato formando un nuovo gruppo dirigente, che voleva 
                risolutamente avviare una politica di riforme che chiudesse col 
                passato stalinista.     
                
                Questo nuovo corso prese il nome di primavera 
                di Praga, perché fu nei primi mesi del ‘68 
                che il governo promosso da Alexander Dubcek prese 
                importanti provvedimenti di liberalizzazione, subito accolti con 
                entusiasmo dalla stragrande maggioranza della popolazione: un 
                precedente che poteva essere preso ad esempio anche da altri paesi 
                del blocco sovietico e in quanto tale era pericolosamente destabilizzante, 
                al punto che Mosca decise di intervenire con la massima durezza: 
                il 21 agosto le truppe del Patto di Varsavia entrarono a Praga 
                e ancora una volta si spegnevano drammaticamente le speranze di 
                riforma del cosiddetto socialismo reale. Il PCI non esitò 
                ad esprimere il proprio “grave dissenso”, 
                ma non arrivò a una rottura aperta con l’URSS, limitandosi 
                a riprendere la propria autonoma elaborazione e rinviando ancora 
    lo “strappo”. 
                Così si espresse Enrico Berlinguer al XII Congresso del PCI (1969): “Il nostro modo di 
                collocarci di fronte a questa realtà dei paesi socialisti 
                [...] non è più venato di elementi mitici, ma 
              affidato per intero alla capacità critica e al rigore rivoluzionario.”   
                
                
               
                
              
                - La migliore bibliografia: in appendice all'imponente e bellissimo libro  curato da Giampaolo Borghello, Cercando il '68, Udine, Forum, 2012
 
                    - Bibliografia ragionata (2008)
                  a cura della Biblioteca comunale di Bellinzona
 
               
                
              
                in generale 
                 
                 
                1968 un anno dai mille volti, in l'Europeo, gennaio 2008 
                1968: un anno di confine: i fotografi italiani raccontano, in l'Europeo,  2008                 
                • 1968: dizionario della memoria, il Manifesto libri, 1988, 2008  
                A. Agosti - L. Passerini - N. Tranfaglia (cur.), La 
                cultura e i luoghi del '68, Angeli, 1990 
                Hanna Arendt, Politica e menzogna, Comunità, 1985 
                Raymond Aron, La rivoluzione introvabile, Rubettino, 2 008 
                 • Alberto Asor Rosa, Lotte studentesche e movimento operaio, 
                in Problemi del Socialismo, n. 28-29, marzo-aprile 1968                 
                Nanni Balestrini, Vogliamo tutto, Feltrinelli, 1971  
                Nanni Balestrini - P. Moroni, L’orda d’oro, Sugarco, 
                1988  
                Franco Basaglia - Franca Basaglia Ongaro, La maggioranza deviante, 
                Einaudi, 1971  
                • Simone de Beauvoir, Il secondo sesso, Einaudi, 
                1970                 
                U. Bergmann - R. Dutschke - W. Lefevre, La ribellione degli 
                studenti, Feltrinelli, 1968 
                Riccardo Bertoncelli, Un sogno americano. Storia della musica 
                Pop, Arcana, 1975                 
                Giorgio Boatti, Piazza Fontana. 12 dicembre 1969: il giorno dell'innocenza 
                perduta, Feltrinelli, 1993 
                A. Bolaffi - E. De Luca, Come noi coi fantasmi. Lettere sull'anno 
                sessantottesimo del secolo tra due che erano giovani un tempo, 
                Bompiani, 1998 
                • Giampaolo Borghello (cur.), Cercando il '68 : documenti, cronache, analisi, memorie : antologia, Forum, 2012  
                Anna Bravo, A colpi di cuore, Laterza, 2008 
                Massimo Cacciari, Dopo l'autunno caldo: ristrutturazione e analisi 
                di classe, Marsilio, 1973  
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                1988 
                Mario Capanna, Lettera a mio figlio sul 68, Rizzoli, 1998 
                Toni Capuozzo, 
                Andare per i luoghi del '68, il Mulino, 2018 
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                Guido Viale, Il '68 : contro l'Università e il sessantotto tra rivoluzione e restaurazione, Interno4, 2018                 
                 
                internazionale 
                 
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                Paco I. Taibo II, Senza perdere la tenerezza. Vita e morte di Che 
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scuola 
     
                 
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                Roberto Mazzetti, Lettera a una professoressa e i suoi problemi, 
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                Edgar Morin, Sociologia del presente, Ed. Lavoro, 1987 
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              lotte 
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                Guido Baglioni, Il sindacato dell’autonomia, De Donato, 
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marxismo 
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                Salvatore F. Romano, Le classi sociali in Italia dal Medioevo all'età 
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              cinema 
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•	Jean-Luc Godard, La Cinese, 1967  
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•	Stuart Hagmann, Fragole e sangue, 1970 
•	Ettore Scola, Dramma della gelosia, 1970 
•	Michael Wadleigh, Woodstock - Tre giorni di pace, amore e musica, 1970 
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•	Elio Petri, La classe operaia va in paradiso, 1971 
•	Jean-Luc Godard, Crepa padrone, tutto va bene, 1972 
•	Paolo Pietrangeli, Porci con le ali, 1977 
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•	Bernardo Bertolucci, The Dreamers - I sognatori, 2003 
•	Marco Tullio Giordana, La meglio gioventù, 2003 
•	Philippe Garrel, Les Amants réguliers, 2005 
•	Julie Taymor, Across the Universe, 2007 
•	Michele Placido, Il grande sogno, 2009  
                
 
        
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