BREVE STORIA D'ITALIA
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Qualcuno ebbe a dire che il celebre maggio francese era in verità
cominciato a Trento, parecchi mesi prima, nell’autunno
del 1967 (per una ricostruzione della sequenza degli avvenimenti, v. la cronologia)
proprio nei giorni in cui Ernesto Che Guevara stava combattendo la sua ultima battaglia prima di essere catturato
e ucciso dall’esercito boliviano (col supporto della CIA).
Naturalmente non ha molta importanza attribuire certificati di
paternità: in realtà in Italia, in Francia, in Germania,
in altri paesi europei, fra i giovani si respirava già
da tempo un’aria nuova. La contestazione degli hippies di San Francisco, nei primi anni ‘60, verso la guerra in Vietnam aveva coinvolto parti significative dell’avanguardia
intellettuale americana ma gli echi della beat
generation di Jack Kerouac (il suo On
the road, Sulla strada, rimase per anni forse il libro più
amato dai giovani, così come le canzoni di Bob Dylan e
Joan Baez; in realtà lo spirito anarchico di Kerouac era
in contrasto con le sue posizioni strettamente politiche, decisamente
più conservatrici di quanto i suoi lettori pensassero)
e di Allen Ginsberg erano giunti in Europa affievoliti,
deformati da un clima culturale completamente diverso: qui nella
prima metà del decennio si guardava piuttosto ai Beatles
e ai Rolling Stones, si portavano i capelli lunghi o i pantaloni
scampanati, con un certo disappunto da parte dei benpensanti e
tuttavia senza turbare la sostanza dell’ordine costituito;
questo vago, e tutto sommato innocuo (schegge di televisione ci
fanno ancora vedere certe trasmissioni RAI affollate da giocondi
“capelloni” impegnati a seguire ritmi musicali più
o meno plausibili) anticonformismo, lentamente in vari settori
del mondo giovanile si trasformò in un disagio sempre più
marcato nei confronti di società che venivano viste come
dominate da valori vecchi, e nell’università ciò
prese la forma di un discorso tutto politico.
In alcune Facoltà spuntarono - accanto
ai classici del marxismo - testi
di studiosi finora conosciuti solo da pochi addetti ai lavori,
Herbert Marcuse,
Theodor W. Adorno, Wilhelm Reich, Frantz Fanon, Jean-Paul Sartre, Roland Barthes, Paul Sweezy, Eric
Fromm, e altri ancora.
È certamente significativo che molti degli studenti che
avviarono questa riflessione fossero di estrazione cattolica (del
resto era del tutto atipico non esserlo in un paese fino allora
dominato dalla cultura cattolica. “Non possiamo non
dirci cristiani” scrisse Benedetto Croce. Ma grande
eco anche tra i non credenti ebbe il libro Lettera a una professoressa nato dall’esperienza di pedagogia antiautoritaria condotta
da don Milani ),
ma la chiave per comprendere come mai soprattutto in Italia e
in Francia la protesta giovanile fu così politicizzata
e prese determinati indirizzi, sta nel fatto che proprio in questi
due paesi la sinistra non solo era particolarmente forte ma aveva
come riferimento maggioritario i partiti comunisti, a differenza
del Nord Europa e della Gran Bretagna dove prevalevano le formazioni
di tipo socialdemocratico.
Su questa solida e diffusa tradizione
marxista, dunque, si innestò la protesta studentesca: da Trento, Pisa e Milano si diffuse a Torino, a
Roma e poi praticamente in tutti gli Atenei, ed ebbe il suo momento
di svolta il 1° marzo 1968, quando gli studenti
romani che volevano occupare di nuovo la facoltà di Architettura,
appena sgombrata dalla Questura, per la prima volta risposero
alle cariche della polizia e ingaggiarono, a Valle Giulia,
una vera e propria battaglia di piazza.
“
Vi
odio cari studenti ...Quando ieri a Valle Giulia avete fatto a
botte coi poliziotti, io simpatizzavo coi poliziotti. Perché
i poliziotti sono figli di poveri, vengono da periferie, contadine o urbane che siano...”
Così scrisse Pier Paolo Pasolini sull’Espresso (n. 24, 16.6.68), in uno dei suoi
tanti e bellissimi scritti corsari, consapevolmente contraddittori,
segnati da un bruciante desiderio di capire e al tempo stesso
di non farsi intrappolare dalla pigrizia degli schemi.
Tutto il sistema formativo italiano era basato su un ordine culturale
e legislativo costruito a fine ‘800 e in epoca fascista,
e conteneva in sé tutti gli elementi più deteriori
dell’Italietta: norme arcaiche e confuse, totale mancanza
di democrazia e trasparenza, disorganizzazione, inadeguatezza
delle strutture, carenza nei servizi primari (a cominciare dalle
aule), metodi e percorsi di studio sorpassati, libri di testo
ottocenteschi, carenza della ricerca scientifica. Può essere
indicativo lo scarso numero di premi Nobel ottenuti da italiani:
Golgi (1906), Marconi (1909), Fermi (1938), Segrè (1959),
Natta (1963), Luria (1969), Dulbecco (1975) - Segrè, Luria
e Dulbecco erano però diventati cittadini statunitensi
- Rubbia (1984), Levi Montalcini (1986). Altri Nobel, per la letteratura:
Carducci (1906), Deledda (1926), Pirandello (1934), Quasimodo
(1959), Montale (1965), Fo (1997).
Anche nell’università (dove oltre a tutto i professori
erano spesso latitanti), come in genere nei vari servizi pubblici,
gli utenti principali, cioè gli studenti, erano insomma
considerati poco più che un inevitabile fastidio, ma la
protesta andò immediatamente oltre questi aspetti, diciamo
così, organizzativi e divenne dissenso radicale verso il
ruolo stesso esercitato dalla scuola: questa, in estrema sintesi,
veniva considerata un vero e proprio mezzo di manipolazione ideologica,
attraverso il quale le classi dominanti formavano generazioni
pronte a inserirsi disciplinatamente nel sistema capitalistico;
l’università, in particolare, aveva la funzione di
preparare i quadri dirigenti della collettività e in quanto
tale era criticata ancora più pesantemente.
Ma, proprio
per tale intima connessione fra istruzione e società, gli
studenti dovevano trovare “un corretto rapporto fra
lotta sulle strutture universitarie e tensione non estremistica
a porsi anche all’esterno come forza attiva [...perché]
il solco tra movimento studentesco e movimento operaio non va
approfondito ma criticamente scavalcato se si vuole che la funzione
critica del movimento studentesco non operi nel vuoto”.
(Alberto Asor Rosa, Lotte studentesche e movimento operaio,
in Problemi del Socialismo, n. 28-29, marzo-aprile 1968)
“Noi nelle metropoli combattiamo contro il complesso
delle istituzioni che ci dominano, in cui gli uomini debbono essere
giorno e notte condizionati per garantire la conservazione dell’ordine
costituito. Ognuno deve restare integrato, deve essere oggetto
degli oggetti dominanti: altrimenti tutto il sistema ne viene
rivoluzionato.” (Rudi Dutschke, Teoria e pratica
in situazioni specifiche, Feltrinelli, 1968, p. 32. Dutschke
era il principale leader degli studenti tedeschi: durante una
manifestazione gli spararono alla testa e il giornale conservatore
Der Spiegel ironizzò finemente sul fatto che egli,
agonizzante, invocasse la madre)
La critica degli studenti coinvolse apertamente le stesse forze
di sinistra, accusate di essere ormai subalterne alle regole del
capitalismo e di aver perso ogni connotazione rivoluzionaria:
il Segretario del PCI, Luigi Longo (Togliatti
era morto nel 1964), intuì l’importanza del movimento
e cercò più volte di stabilire un confronto, ma
la maggioranza degli studenti politicizzati rifiutò decisamente
il dialogo e anzi fece del PCI uno dei propri bersagli preferiti.
Occorre dire, comunque, che se in pratica tutte le scuole e le
Facoltà vennero prepotentemente coinvolte nelle lotte,
non tutti gli studenti erano sulle posizioni dell’estrema
sinistra: i più restavano in qualche modo ai margini, una
certa parte si schierò con i fascisti e una piccola ma
significativa minoranza scelse di continuare a militare nei partiti
della sinistra storica.
Dopo circa un anno dalle prime occupazioni (in cui si chiedeva
innanzi tutto il diritto di assemblea) il movimento studentesco
non esisteva praticamente più in quanto corpo omogeneo:
lo spiccato carattere ideologico assunto dal dibattito aveva portato
alla frammentazione in vari gruppi, genericamente detti della
“sinistra extraparlamentare”: è
molto difficile dar conto di questa realtà variegata (per una panoramica v. nelvento), sia
perché in tutte le formazioni vi furono ripetutamente spaccature,
ricomposizioni, fusioni, sia perché la loro evoluzione
fu estremamente rapida, e segnata da una fortissima competitività
reciproca. In ogni modo questi gruppi sono riconducibili principalmente
a due filoni del pensiero marxista: quello comunista e quello
più legato all’elaborazione antileninista di Rosa Luxemburg,
e, in Italia, all’esperienza maturata nella sinistra socialista
e in riviste come Quaderni Rossi, di Raniero Panzieri.
Nel primo
caso il riferimento ideologico era la Cina, e in particolare la
Rivoluzione culturale promossa da Mao nel 1966: i comunisti cinesi avevano rotto con Mosca nel 1964,
accusando i sovietici di revisionismo, cioè di aver tradito
i princìpi del marxismo-leninismo rivedendone i punti centrali
e criticando Stalin; a metà degli anni ‘60 in Europa
si erano staccati dai partiti comunisti piccoli nuclei che nel
nome stesso intesero ribadire la loro fedeltà al marxismo-leninismo
di Mao e Stalin, ma restarono sostanzialmente insignificanti:
da noi il PCd’I m-l (Partito Comunista
d’Italia marxista-leninista) era una realtà microscopica,
che addirittura si spaccò in due partitini concorrenti,
ciascuno impegnato più a farsi “riconoscere”
da Pechino o da Tirana (!) che a fare politica; tra gli studenti
ebbe invece una notevole fortuna l’Unione dei comunisti
m-l (più conosciuta col nome del suo giornale Servire
il popolo), con la sua grande rigidità dottrinaria,
i cortei all’insegna del libretto rosso di Mao e del più
ridicolo realismo socialista (per realismo socialista s’intende più specificamente la concezione - nata
nell’URSS degli anni ‘30 e diffusasi poi nei regimi
cosiddetti socialisti - dell’arte come rappresentazione
esclusiva della “realtà”, in cui naturalmente
predominavano muscolosi operai e coraggiose donne che celebravano
entusiasticamente le vittorie proletarie).
Con analoghe simpatie per Mao, ma con minor folklore e con seria
attenzione verso il PCI (che comunque mantenne viva la propria
presenza, ancorché minoritaria rispetto ai gruppi, sia
nelle scuole che nelle università), il gruppo guidato a
Milano da Mario Capanna, e che mantenne il nome
di Movimento Studentesco. Con posizioni di forte
radicalità, in cui pesavano anche elementi delle teorie
trotskiste, Avanguardia Operaia. Tutt’altro
che vicino al dogmatismo m-l, ma con dichiarate simpatie
verso la rivoluzione culturale, il Manifesto,
creato da dirigenti del PCI (Pintor,
Rossanda, Magri, Castellina) radiati all’inizio
del ‘69 per le loro aspre critiche al funzionamento del
partito e ai suoi ritardi nell’elaborazione teorica; nel
‘71 fondarono l’omonimo quotidiano, che rimase in
vita (a differenza di quelli creati da Lotta Continua
e Avanguardia Operaia) anche dopo la scomparsa del gruppo.
Più vivaci sul piano dell’iniziativa e politicamente
più articolate (proprio perché assai meno incardinate
a rigidi presupposti ideologici) le formazioni che non si rifacevano
direttamente alla tradizione del movimento operaio: con una struttura
per certi versi simile ai gruppi m-l, ma senza alcun richiamo
alla matrice stalinista, Potere Operaio, l’organizzazione
costituita da Toni Negri e Oreste Scalzone (maScalzone lo chiamavamo).
Lotta Continua fu una delle formazioni che ebbe maggior seguito,
e oltre i confini scolastici, anche perché meno di altre
ebbe la preoccupazione di darsi un forte assetto ideologico e
organizzativo (ricordo ancora la perentoria affermazione di un
dirigente di Lotta Continua, durante una delle innumerevoli assemblee
universitarie in cui noi comunisti venivamo regolarmente battuti
dai gruppi: “Il marxismo non si studia, si applica!”)
e puntò invece a calarsi in tutte le aree di più
acuta conflittualità e marginalità sociale, dal
movimento di occupazione delle case ai fermenti di protesta nelle
carceri e nelle caserme, fino ad appoggiare la stessa rivolta
di Reggio Calabria. In seguito all’assegnazione a Catanzaro
del ruolo di Capoluogo di Regione (1970), si creò un violento
movimento di protesta che per più di un anno agitò
la vita di Reggio C. Furono alcuni gruppi di potere locale e il
MSI ad alimentare quella che in talune occasioni assunse le caratteristiche
di ribellione sociale: fu proprio su questo aspetto che LC tentò,
inutilmente, di innestare elementi politici in grado di trasformare
una generica lotta localistica in rivolta popolare.
Al di là delle notevoli differenze fra i vari gruppi (intorno
ai principali ne proliferò una miriade di minor consistenza),
si può sommariamente rilevare che l’impianto estremista
delle loro analisi e proposte si fondava su una visione del tutto
semplicistica sia della composizione di classe della società
italiana, assai più complessa della mera contrapposizione
borghesia-proletariato, sia dei rapporti di forza fra le parti
in conflitto, che andavano ben al di là della rispettiva
consistenza “militare”. Tant’è che già
nei primi anni ‘70 la maggior parte di queste formazioni
non esisteva più o si era disarticolata prendendo le strade
più varie: i marxisti-leninisti semplicemente scomparvero;
una parte di LC e di Potere Operaio confluì nella cosiddetta
area dell’Autonomia, a sua volta poi frantumatasi, un’altra,
minoritaria, andò ad alimentare le file del terrorismo;
il movimento di Capanna tentò di riorganizzarsi oltre l’ambito
universitario e in seguito fu una delle componenti di Democrazia
Proletaria; il Manifesto si unì a una parte del disciolto
PSIUP, costituendo il PdUP, mentre il quotidiano
rimase come entità autonoma; molti militanti entrarono
in ordine sparso nel PCI, altri, più proficuamente dal
punto di vista economico, nel PSI o direttamente in qualche grande
azienda.
Alle elezioni del 1972 il PSIUP ottenne un risultato fallimentare,
non riuscendo a eleggere nessun parlamentare: la maggioranza decise
di sciogliere il partito e confluire nel PCI, la minoranza formò
il PdUP (Partito di Unità Proletaria); l’alleanza
elettorale (1975-6) fra PdUP, Avanguardia Operaia e Movimento
Lavoratori per il Socialismo (il gruppo di Capanna), prese il
nome di Nuova Sinistra Unita e successivamente (1978) si costituì
in partito (senza però il gruppo dirigente del PdUP, che
entrò nel PCI): Democrazia Proletaria si è poi sciolta nel 1991, con alcuni suoi dirigenti, fra
cui Capanna, entrati nel movimento ambientalista, mentre la maggioranza
ha aderito a Rifondazione Comunista.
Parentesi: ma che fine hanno fatto tanti "rivoluzionari" che quotidianamente ricoprivano di merda il PCI?
Ma il 68, per fortuna, non è certo riconducibile unicamente
alla vita spericolata dei gruppi e rappresentò nel suo
insieme un grande momento di rinnovamento della società
italiana: moltissimi giovani scoprirono la politica, nuovi modi
di stare insieme, culture diverse, comportamenti più aperti
e innovativi nella sfera familiare e sessuale; la partecipazione
di numerose ragazze ai movimenti di lotta contribuì a far
emergere le distorsioni di una società storicamente fondata
secondo bisogni e criteri soltanto maschili, e alle passate lotte per l’emancipazione sul lavoro delle mondine o delle operaie
si aggiunse quel concetto più ampio di liberazione della
donna che è alla base del femminismo;
il mondo della cultura fu investito con forza da una carica contestativa
che ne metteva in discussione la separatezza e i privilegi rispetto
al mondo del lavoro, e se per numerosi intellettuali l’adesione
alla protesta fu superficiale, snobistica, per molti altri rappresentò
un’occasione seria per tentare di ridefinire il rapporto
fra sapere e struttura sociale; la forte critica alla logica esasperata
dei consumi e al conformismo produsse da una parte forme di nuova
consapevolezza del legame uomo-ambiente e dall’altra l’acquisizione
di una maggiore autonomia rispetto a regole morali e condotte
individuali che parevano immutabili: di qui, in primo luogo, il
diffondersi di una laicità finora soffocata dalla tradizione
cattolica e di una modernizzazione dei costumi che avrà
come punto di svolta l’introduzione del divorzio (1970) e della legge sull’interruzione della gravidanza
(1978).
Oltre a cinema, teatro, letteratura, musica, di cui si parlerà
più avanti, è significativo come settori importanti
del mondo scientifico furono portati a interrogarsi sul proprio
ruolo: medici, psichiatri, magistrati, proprio in quegli anni
diedero vita a forme associative di netto orientamento progressista.
Rossana Rossanda definì il 68 l’anno degli
studenti, ed in parte è senz’altro vero,
ma questa espressione fu coniata durante le giornate più
calde del maggio studentesco e non poteva raccogliere l’altra
novità di enorme importanza che si stava delineando, cioè
l’energico rilancio della combattività operaia.
Già nel 1966, col rinnovo contrattuale degli elettromeccanici,
si era capito che le lotte di pochi anni prima non erano state
un sussulto isolato e che il paziente lavoro di ricucitura del
rapporto fra sindacato e lavoratori cominciava a dare i primi
risultati.
Ancora una volta furono i giovani operai meridionali a dar fuoco
alle polveri. Le trasformazioni nell’organizzazione industriale,
in particolare con l’introduzione di nuovi sistemi di controllo
della produttività (tra cui le famose tabelle in cui i capireparto segnavano scrupolosamente i tempi e la qualità
delle prestazioni dei dipendenti), avevano comportato un notevole
appesantimento delle condizioni di lavoro, con ritmi particolarmente
faticosi, precarietà in termini di sicurezza e salute,
e il continuo ricatto del cottimo, cioè il salario direttamente
in proporzione alla quantità di produzione effettuata.
In numerose fabbriche del Nord si diffuse un accentuato malcontento
fra i lavoratori, ma gli organismi sindacali, le Commissioni Interne,
erano molto prudenti e ritenevano che i rapporti di forza col
padronato non fossero ancora tali da consentire una ripresa delle
lotte.
Così il sindacato indirizzò la propria iniziativa
su alcuni temi d’interesse generale (la casa,
le pensioni), organizzando scioperi e manifestazioni:
si trattò certamente di una scelta importante, perché,
oltre a portare all’attenzione dei cittadini questioni di
rilevante peso sociale, riproponeva un confronto politico sulle
grandi riforme, e tuttavia rischiava di riprodurre il vecchio
errore degli anni ‘50, quando la strategia elaborata a livello
centralizzato aveva perso di vista le realtà specifiche.
Quando gruppi di operai organizzarono spontaneamente improvvise
fermate del lavoro, cortei interni alle aziende, volantinaggi
fuori dai cancelli, i sindacati presero le distanze da queste
azioni considerate avventate, oltre a tutto valutando che non
avrebbero avuto un gran seguito: invece, soprattutto in alcuni
grandi stabilimenti (Pirelli, Fiat Mirafiori, Alfa Romeo, Petrolchimico
di Marghera, Siemens, Magneti Marelli), queste lotte spontanee
presero piede a tal punto che in molti casi le Commissioni Interne
furono completamente tagliate fuori; i gruppi, e in particolare
Lotta Continua, cominciarono a intervenire sistematicamente di
fronte alle fabbriche e riuscirono in diverse situazioni a creare
nuovi organismi, i Comitati Unitari di Base, che per un certo
periodo ottennero larghi consensi.
Ci fu naturalmente chi, a sinistra e a destra, si affrettò
a stilare il necrologio del sindacato, ma la tradizione del movimento
operaio italiano non era fatta di retorica, bensì di legami
profondi di solidarietà e di cultura politica: la ricchezza
di tale patrimonio, e l’intelligenza di molti dirigenti
sindacali (primo fra tutti Bruno Trentin, allora
Segretario della FIOM CGIL), consentì al sindacato di recuperare
rapidamente il terreno perduto e di riprendere in mano la direzione
del movimento. Gradualmente le vecchie Commissioni Interne vennero
sostituite dai Consigli di fabbrica, o più
precisamente dei delegati, perché in ogni reparto i lavoratori
eleggevano un proprio delegato, indipendentemente dal sindacato
di appartenenza, che li avrebbe rappresentati nel Consiglio unitario
di azienda.
Alla ripresa dell’attività dopo le ferie del 1969, CGIL, CISL e UIL, che nel frattempo
avevano avviato fra loro un intenso dialogo di riavvicinamento,
erano pronte a un’offensiva che si rivelò ancora
più ampia del previsto: la lotta per il rinnovo del contratto vide la partecipazione di oltre un milione e mezzo di metalmeccanici,
a cui si unirono quasi tutti i lavoratori degli altri comparti,
consapevoli del significato politico che avrebbe assunto l’esito
dello scontro. Questo autunno caldo finì con la conquista
di quasi tutte le rivendicazioni (aumenti di salario
uguali per tutti, introduzione graduale delle 40 ore
settimanali, diritto di assemblea, abolizione
delle gabbie salariali, cioè delle differenti
retribuzioni fra zone e zone) e spianò la strada ai rinnovi
contrattuali che nei mesi successivi videro impegnati,
con analogo successo, i chimici, gli edili, i ferrovieri, i tessili,
e le categorie del pubblico impiego.
Questo nuovo clima fra l’altro favorì in modo decisivo
l’approvazione dello Statuto
dei lavoratori: per la prima volta una Legge dello
Stato disciplinava rigorosamente i diritti dei lavoratori dipendenti,
sancendo alcune libertà e principi fondamentali altrimenti
sottoposti al completo arbitrio dei datori di lavoro. Non si può
non vedere il nesso tra lotte operaie e studentesche, creatosi
anche al di là degli specifici obiettivi di lotta. Si era
avviato un processo di liberazione che coinvolgeva nel profondo
la società e nell’insieme si può dire che
il 68 fu molto di più che una stagione politica: incrinò
vecchie regole, mise in discussione mentalità sorpassate,
e soprattutto liberò una molteplicità di energie
senza le quali la società sarebbe sicuramente meno dinamica
e aperta.
Il 1968, tuttavia, fu un anno cruciale anche a causa dei fatti
di Cecoslovacchia: nel partito comunista di quel
paese si era andato formando un nuovo gruppo dirigente, che voleva
risolutamente avviare una politica di riforme che chiudesse col
passato stalinista.
Questo nuovo corso prese il nome di primavera
di Praga, perché fu nei primi mesi del ‘68
che il governo promosso da Alexander Dubcek prese
importanti provvedimenti di liberalizzazione, subito accolti con
entusiasmo dalla stragrande maggioranza della popolazione: un
precedente che poteva essere preso ad esempio anche da altri paesi
del blocco sovietico e in quanto tale era pericolosamente destabilizzante,
al punto che Mosca decise di intervenire con la massima durezza:
il 21 agosto le truppe del Patto di Varsavia entrarono a Praga
e ancora una volta si spegnevano drammaticamente le speranze di
riforma del cosiddetto socialismo reale. Il PCI non esitò
ad esprimere il proprio “grave dissenso”,
ma non arrivò a una rottura aperta con l’URSS, limitandosi
a riprendere la propria autonoma elaborazione e rinviando ancora
lo “strappo”.
Così si espresse Enrico Berlinguer al XII Congresso del PCI (1969): “Il nostro modo di
collocarci di fronte a questa realtà dei paesi socialisti
[...] non è più venato di elementi mitici, ma
affidato per intero alla capacità critica e al rigore rivoluzionario.”
- La migliore bibliografia: in appendice all'imponente e bellissimo libro curato da Giampaolo Borghello, Cercando il '68, Udine, Forum, 2012
- Bibliografia ragionata (2008)
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• Jean-Luc Godard, Crepa padrone, tutto va bene, 1972
• Paolo Pietrangeli, Porci con le ali, 1977
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• Bernardo Bertolucci, The Dreamers - I sognatori, 2003
• Marco Tullio Giordana, La meglio gioventù, 2003
• Philippe Garrel, Les Amants réguliers, 2005
• Julie Taymor, Across the Universe, 2007
• Michele Placido, Il grande sogno, 2009
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