BREVE STORIA D'ITALIA

 

STABILITÀ E FINE DELLA PRIMA REPUBBLICA

Il 1978 fu uno degli anni più intensi del decennio. Il discusso Presidente della Repubblica Giovanni Leone in seguito a vari scandali fu costretto a dimettersi e gli subentrò la splendida figura di Sandro Pertini, che con un insolito equilibrio fra schiettezza umana e acume politico diede un contributo straordinario nel riavvicinare i cittadini, delusi e preoccupati, alle istituzioni.

Appena un mese prima del rapimento di Moro, la CGIL aveva tenuto all’Eur il suo Congresso dove fu sancita la linea proposta da Luciano Lama, chiamata appunto la linea dell’Eur: moderazione salariale nei rinnovi contrattuali, apertura alla mobilità nelle aziende (si tratta del passaggio di un lavoratore da una collocazione all’altra: si dice verticale quella che comporta un salto gerarchico, un cambio di qualifica e di livello retributivo; orizzontale quando avviene nell’ambito dello stesso livello ma tra diversi reparti, o uffici, o stabilimenti, o località. È a quest’ultima che in genere ci si riferisce parlando di mobilità), consapevolezza che anche i lavoratori dovevano compiere sacrifici. Una scelta assai coraggiosa, che sarebbe stata di grande utilità se la famosa solidarietà nazionale avesse funzionato, se cioè per un verso gli imprenditori avessero fatto la propria parte, in termini di investimenti occupazionali e di rispetto degli accordi sulla riconversione industriale (che invece venivano regolarmente disattesi), e per l’altro verso il governo delle larghe intese fosse riuscito a varare le riforme di cui si parlava da anni.
Se continuò a non esserci alcuna misura significativa su vari nodi strutturali (la pubblica amministrazione, il sistema fiscale, la programmazione economica, la scuola - l’introduzione, nel 1973, dei cosiddetti Organi collegiali, attraverso i quali studenti e genitori dovevano poter svolgere un ruolo concreto nella gestione scolastica, non portò a significativi cambiamenti), nel campo sociale si arrivò invece ad alcuni interventi di grande rilievo. La maggior parte degli italiani viveva ancora in abitazioni prese in affitto (oggi invece prevale la casa di proprietà) e non vi era praticamente nessuna normativa che tutelasse gli inquilini: con la legge sull’equo canone si pensò appunto di regolare il mercato di questo bene primario, anche se non mancarono contraccolpi negativi dovuti al fatto che molti proprietari preferirono tenere le case vuote piuttosto che affittarle a prezzi non speculativi. Questo provvedimento s'inseriva in una manovra di più vasto respiro, perché era collegata ad altre due leggi approvate quello stesso anno: il piano decennale per l’edilizia (costruzione in dieci anni di 600.000 case, ma ne vennero realizzate solo 150.000) e la nuova disciplina dei suoli, che avrebbe dovuto stroncare la vera e propria piaga dell’abusivismo edilizio, imponendo che qualsiasi trasformazione del territorio dovesse essere approvata dal Sindaco. Ci pensarono poi la complessiva inefficienza burocratica e l’abnorme sovraffollamento di leggi a diminuire drasticamente l’efficacia di tali interventi.
La medesima considerazione (che resta centrale rispetto a tutte le piccole e grandi trasformazioni della vita pubblica) sull’incapacità reale di gestire le riforme vale anche per le altre importanti leggi approvate in quell’anno in un ambito, quello della salute, che era particolarmente arretrato. La creazione del Servizio Sanitario Nazionale avrebbe dovuto finalmente portare un po’ di ordine nel groviglio inestricabile in cui era imprigionato un sistema di assistenza sanitaria tra i più inefficienti d’Europa: innanzi tutto vennero affiancati al tradizionale aspetto della cura due settori finora del tutto trascurati, la prevenzione (sulla quale i sindacati avevano lottato con forza) e la riabilitazione, e poi si puntò a un sistema basato su un unico organismo territoriale, l’Unità sanitaria locale, in grado di unificare le competenze e coordinare gli interventi: effettivamente le Usl contribuirono a ridisegnare un panorama che era dir poco caotico, ma, proprio per il loro ruolo di notevole importanza, si trasformarono subito in un nuovo centro di potere attraverso la lottizzazione politica (nel 1985 i presidenti delle Usl erano per il 60% democristiani e per il 25% socialisti), e ci vorranno ancora quindici anni per riuscire ad escludere i politici da questo tipo di gestioni.
Dannati della terra: questo erano sempre stati i malati di mente, abbandonati in condizioni inumane, sottoposti a “cure” degne di un lager, disprezzati e privati di qualsiasi dignità: i manicomi italiani erano una vergogna di cui si può davvero rendere conto solo chi abbia avuto l’occasione, tristissima, di visitarne uno. Per lunghi anni un gruppo di psichiatri guidati da Franco Basaglia si era battuto per la chiusura dei manicomi e l’attivazione di una rete di servizi in grado di affrontare in modo civile il problema del disagio mentale, riportando il malato alla propria condizione di essere umano e aiutandone le famiglie: la legge 180 creava questa possibilità, che tuttavia restò in larga misura priva di organica applicazione e quindi in numerosi casi il problema addirittura si aggravò.


Una riforma che andava ben al di là del campo sanitario fu quella relativa all’interruzione volontaria della gravidanza: da anni il movimento femminista e il partito radicale si battevano contro la diffusissima pratica dell’aborto clandestino e per l’autodeterminazione della donna, ma la fortissima resistenza della DC e le esitazioni della sinistra a intervenire su un tema così delicato avevano periodicamente rinviato ogni decisione; il movimento di Pannella raccolse le firme per indire un referendum (finora in Italia si sono svolti una trentina di referendum e da molte parti si è proposto di rivedere le norme che regolano questa consultazione, che secondo la Costituzione si limita ad abrogare una legge e quindi non ha una funzione specificamente propositiva, per evitarne un uso eccessivo e non effettivamente partecipato) che abrogasse le vecchie norme in materia, ma in Parlamento prevalse l’orientamento a produrre una legge che evitasse di andare a uno scontro nel paese e dopo lunghe trattative venne raggiunto un compromesso che sostanzialmente riconosceva alla donna il diritto di decidere autonomamente, pur dovendo consultarsi con un medico e un assistente sociale. La Chiesa e i radicali, per ragioni ovviamente opposte, attaccarono violentemente questa soluzione, che tuttavia non distrusse le famiglie (così com’era stato previsto già ai tempi del divorzio) né impedì alle donne di esercitare liberamente la propria scelta. Il Movimento per la vita, che si collegava agli ambienti clericali più arretrati e alla destra democristiana, non rinunciò però alle proprie posizioni oltranziste, e qualche anno più tardi (1981) propose a sua volta un referendum abrogativo della legge 194: l’abolizione fu respinta addirittura dal 68% degli italiani.
Non fu dunque del tutto negativo il breve periodo della solidarietà nazionale, ma il PCI, che alle elezioni politiche anticipate del ‘79 aveva perso 4 punti, si rese conto che la collaborazione non avrebbe prodotto molti altri risultati e alla fine dell’anno ruppe l’accordo, cambiando radicalmente strategia: Berlinguer formulò la proposta dell’alternativa democratica, basata sull’alleanza di sinistra per spezzare il sistema di potere della DC, ma fu ben presto evidente che i socialisti di Craxi non erano minimamente disponibili a una prospettiva del genere. La svolta del PCI si presentava come un’iniziativa di attacco ma in realtà assomigliava assai di più a un abile modo per mascherare una posizione sostanzialmente difensiva: gli equilibri politici non miglioravano come previsto dopo i successi del ‘76, anzi per vari aspetti arretravano, troppo elevato era il rischio di restare impantanati in una maggioranza che non dava segni netti verso il cambiamento, e il “popolo di sinistra” era disorientato, logorato da un impegno politico che in quegli anni aveva dovuto soprattutto indirizzarsi contro il terrorismo piuttosto che verso le riforme.
Questo malessere sociale, orientato più verso la stanchezza che verso la rabbia, fu colto con grande acutezza dal padronato, il quale da tempo attendeva l’occasione per recuperare il terreno perduto nel corso dei rinnovi contrattuali successivi al ‘68. Alla fine del ‘79 la Fiat licenziò 61 operai accusandoli di aver commesso atti di violenza e di intimidazione dentro la fabbrica e nell’autunno dell’80 annunciò la cassa integrazione (si tratta di un complesso meccanismo, più volte modificato e che si applica con modalità differenti a seconda dei settori, volto a garantire un certo reddito, per un periodo determinato, ai lavoratori sospesi dalla produzione per una crisi di quel settore: lo Stato, in altre parole, interviene direttamente per pagare i lavoratori, che, non gravando sui costi aziendali, non vengono licenziati) per quasi 24.000 lavoratori, metà dei quali dopo un anno sarebbero stati licenziati: vi erano sicuramente grossi problemi di esportazione delle auto sui mercati internazionali, ma una decisione di quella portata aveva anche motivi squisitamente politici, legati appunto al proposito di ripristinare l’ordine, e infatti tra i circa 12.000 che sarebbero stati definitivamente espulsi dalla produzione vi erano praticamente tutti i quadri sindacali e comunque i lavoratori sindacalmente più attivi. Il sindacato rispose con lo sciopero a oltranza e lo stesso Berlinguer andò davanti ai cancelli di Mirafiori a portare la solidarietà del PCI. Che la Fiat puntasse più a una resa dei conti che alla soluzione di problemi produttivi divenne esplicito quando la direzione aziendale annunciò la sospensione dei licenziamenti e la riduzione del periodo di cassa integrazione: dopo quasi un mese di sciopero c’era stanchezza fra i lavoratori e soprattutto paura per il futuro, e molti premevano per sospendere la lotta e cercare qualche compromesso con l’azienda; il colpo decisivo arrivò con la marcia dei 40.000: a metà ottobre un imponente corteo di capireparto, impiegati, dirigenti, insieme alle loro famiglie, sfilò per le strade di Torino chiedendo di poter tornare a lavorare e accusando i sindacati di portare alla rovina l’economia. Non si era mai visto niente del genere, era il segnale di una violenta spaccatura fra operai politicizzati e lavoratori intermedi, e, soprattutto, di una generale perdita di consenso da parte del sindacato: che infatti il giorno dopo firmò un accordo che era un inevitabile atto di resa. Qualcuno giustamente notò come in questo modo si fosse finalmente arrivati a un modello stabile di relazioni industriali, quello sognato da Agnelli.

Una delle conseguenze fu che quando qualche anno più tardi (1985) si andò al referendum per l’abolizione della scala mobile (in realtà si tratta di una consultazione proposta dal PCI per abrogare il disegno di legge del governo Craxi che aveva di fatto eliminato la scala mobile): quasi il 55% degli italiani votò per la soppressione di questo meccanismo.
Il fatto è che il peso politico della classe operaia non era diminuito a causa di ragioni, per così dire, interne, cioè legate al venir meno della spinta rivendicativa o alle difficoltà incontrate dal processo di unità sindacale (che peraltro sulla scala mobile toccò il punto più basso), bensì in virtù di una modificazione complessiva della struttura sociale: per un verso si era fortemente accentuata la tendenza al decentramento produttivo, nel senso che numerose produzioni si erano spostate su stabilimenti di dimensioni inferiori e che contemporaneamente si erano moltiplicate le industrie piccole e medie, spesso ad alta specializzazione; per altro verso avevano assunto un’importanza via via crescente, fino a raggiungere poi una funzione strategica, le aziende (il cosiddetto terziario avanzato) che fornivano servizi, sempre più sofisticati, ai cittadini e ad altre imprese, dove quindi prevalevano le mansioni impiegatizie, tecniche o dirigenziali, cioè figure professionali naturalmente diffidenti verso la cultura di cui era portatrice la sinistra e, viceversa, decisamente ricettive rispetto ai modelli competitivi e carrieristici che andavano emergendo con vigore e che sarebbero poi esplosi in quei “ruggenti” anni ‘80 straripanti di status symbol, ok, business, must, target, look, performance, drink, audience, fitness. Oh yes.

L’economia nel suo insieme, poi, ritrovò una notevole capacità di rilancio (purtroppo anche grazie all’incremento di settori come quello delle armi, di cui l’Italia diviene il maggior commerciante nella CEE), portando l’Italia al quinto posto fra i paesi più industrializzati, anche per un nuovo dinamismo impresso all’industria pubblica da tecnici di valore come Prodi (IRI) e Reviglio (ENI), e per l’emergere in quella privata di figure nuove ed energiche come Benetton, Berlusconi, De Benedetti, Gardini.
Sul versante strettamente politico gli anni ‘80 furono di grande stabilità, ma al tempo stesso produssero una sorta di blocco a un sistema che invece doveva assolutamente rinnovarsi, e ciò produsse il vero e proprio collasso della prima Repubblica.
Ma alla solidità del quadro politico si accompagnò un riacutizzarsi di altri pericolosi fenomeni di tensione. Le B.R. sferrano gli ultimi drammatici colpi di coda: uccidono il Vicepresidente del Consiglio Superiore della Magistratura, Bachelet, e l’economista Ezio Tarantelli; rapiscono il giudice D’Urso, l’assessore campano Cirillo e infine il generale americano Dozier; proprio il sequestro Dozier, terminato felicemente con una clamorosa operazione di polizia, segnò la sconfitta definitiva del terrorismo. Nel 1980 avvengono poi due fra le stragi più cruente, quella di Ustica (esplode un aereo di linea, probabilmente colpito da un missile NATO) e quella della stazione di Bologna, cui seguirà, nel natale dell’84, l’attentato al treno Napoli-Milano. Nello stesso periodo il “riformato” servizio segreto mette in piedi il “Super S”, una struttura che si occupa di traffici di capitali e altre attività non propriamente legate alla sicurezza nazionale; in seguito l’ex capo piduista del SISMI verrà arrestato. Scoppia anche lo scandalo della P2, della cui attività si trovano tracce nelle vicende più oscure degli ultimi anni: dal depistaggio nelle indagini sugli attentati ai traffici d’armi, dal riciclaggio alle strutture parallele dei servizi .
E su tutto l'ombra dei servizi americani.

Dopo anni di offensiva mafiosa per riaffermare il pieno controllo illegale del territorio (uccisioni di poliziotti, magistrati, uomini politici, oltre ai morti nella guerra fra cosche rivali), vi è finalmente un inizio di reazione da parte dello Stato: prefetto di Palermo viene nominato il generale Carlo Alberto Dalla Chiesa, ben noto per i successi ottenuti nella lotta al terrorismo.
Dalla Chiesa si impegna con grande risolutezza sia nel coordinare le attività investigative sia nel riattivare quel rapporto coi cittadini la cui carenza aveva enormemente favorito la cultura mafiosa; in un incontro con i lavoratori dei cantieri navali di Palermo per spiegare il tipo di lavoro che stava cercando di compiere, tra il prefetto e un operaio si svolse questo dialogo: “Generale, ma voi volete fare la rivoluzione!” “Ma no, io voglio solo che lo Stato funzioni.” “Appunto.” Dalla Chiesa domandò più volte che vi fosse uno sforzo straordinario delle istituzioni, in termini di riforma civile oltre che di sforzo repressivo, ma non riuscì a vedere questa svolta: nel settembre dell’82 fu assassinato insieme alla moglie.

Nel 1981 il compito di formare il governo fu affidato al leader repubblicano Giovanni Spadolini: dopo Ferruccio Parri, nel 1945, questa carica era stata sempre appannaggio della DC e aver infranto questa tradizione, che pareva ormai regola immutabile, è un altro dei meriti di Pertini. La DC era in grave difficoltà e il Segretario De Mita non riuscì a impedire che il suo partito alle elezioni politiche del 1983 raggiungesse il minimo storico, con appena il 33% (calò anche il PCI, 30%). Ancora una volta Pertini ritenne di non affidare l’incarico a un democristiano e così Bettino Craxi fu il primo socialista nella storia d’Italia a ricoprire la funzione di capo del governo.

 

Durante la campagna elettorale per il rinnovo del Parlamento europeo (1984: il PCI, col 33,3%, sorpassò la DC, 33%) muore Enrico Berlinguer: ai suoi funerali partecipò oltre un milione di persone, la più grande manifestazione mai avvenuta in Italia.

Uno dei primi atti del nuovo Presidente del Consiglio fu quello di firmare (febbraio 1984) il nuovo Concordato fra Stato italiano e Chiesa cattolica, e in ciò Craxi rivelò quella che forse fu la sua più notevole capacità: un grande senso di sicurezza, la massima attenzione verso quell’immagine di autorevolezza che riteneva indispensabile per tenere sempre sotto controllo la situazione. Si potrebbe dire, in gergo televisivo, che egli bucava il video, a differenza dei partner e degli avversari: un De Mita incerto, ambiguo, un Andreotti inossidabile ma inconcludente, un Natta (nuovo Segretario del PCI) serio ma pedante e senza grinta. Se però si volesse fare un paragone tra gli oltre quaranta governi precedenti, che, come si è già notato, hanno avuto come durata media un anno, e il più lungo governo finora mai avuto, quello di Craxi, appunto, non si potrebbe proprio dire che quest’ultimo abbia valorizzato appieno questa sua qualità, nel senso di impostare una strategia riformatrice di un certo respiro. Il tentativo di riforma fiscale voluto dal ministro Visentini, repubblicano, naufragò sull’onda delle proteste dei commercianti, e la legge Galasso sulla difesa del patrimonio naturale si perse nei meandri di commissioni, uffici, ispettorati, direzioni. Le uniche vere innovazioni furono l’abolizione della scala mobile (1984) e il decreto che nel 1986 autorizzò i network privati a trasmettere i telegiornali. Craxi poté sicuramente governare lo Stato, perché in tre anni riuscì a collocare i propri uomini in tutti i centri nevralgici del potere: di qui una conflittualità permanente con la DC, che vedeva insidiata la propria posizione di forza, con la conseguenza che, anche per la latitanza dell’opposizione, quel periodo si risolse in un sostanziale immobilismo.
In contrasto con questo quadro di staticità, svolse un ruolo particolarmente attivo il Presidente della Repubblica, Francesco Cossiga, che in molteplici occasioni attaccò duramente il sistema dei partiti e si rese assai popolare per le sue esternazioni, che egli stesso ebbe a definire “picconate”: la sinistra, e in particolare il PCI, giudicarono questi suoi comportamenti assai poco consoni alla carica istituzionale che egli ricopriva, e arrivarono, nell’ultima fase del suo incarico, a chiederne la messa in stato di accusa.
Alle elezioni politiche anticipate del 1987 il PCI registrò un ulteriore arretramento, mentre DC e PSI andarono piuttosto bene, e ciò favorì il perdurare dello status quo. Il soporifero clima politico subì uno scossone con lo scoppio del caso Gladio: nell’autunno il Presidente del Consiglio Andreotti trasmise alla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle stragi (l’Italia, unico paese al mondo, ha addirittura un’apposita Commissione parlamentare che indaga sulle stragi!) un documento in cui si confermava l’esistenza, che invece era sempre stata negata, di “una struttura clandestina denominata ‘Gladio’ dipendente direttamente dal servizio segreto militare, illegittima sotto ogni punto di vista, che ha tratto origine [nei primi anni ‘50] da un accordo tra il Servizio Segreto militare italiano (SIFAR) e quello statunitense (CIA) e che [aveva come finalità] per i casi di invasione del territorio nazionale, attività informativa, di controguerriglia, di sabotaggio e di antisabotaggio, oltre che nei confronti del nemico esterno, anche nei confronti del nemico interno”: un’organizzazione segreta che aveva lo scopo di predisporre forme di resistenza armata nel caso di un’invasione sovietica, ma anche di provvedere alla neutralizzazione della sinistra italiana" (dalla sentenza con cui il giudice Felice Casson ha rinviato a giudizio i capi di Gladio. In: Cipriani-De Lutiis, op. cit., pp. 70-79).

È però il panorama delle forze politiche che sta rapidamente avviandosi a un mutamento drastico. Nell’autunno del 1989 il Segretario del PCI Achille Occhetto, subentrato a Natta l’anno prima, pose con forza il problema di una radicale trasformazione del partito comunista, che, in quanto tale, aveva esaurito il proprio ruolo e doveva ridisegnare completamente fisionomia, patrimonio teorico, riferimenti internazionali, chiudendo quindi l’esperienza legata alla tradizione comunista e integrandosi con le forze della socialdemocrazia europea. Solo pochi mesi dopo un terremoto di proporzioni epocali distrusse quello che sembrava ancora un edificio solidissimo: si sgretolano uno dopo l’altro i regimi retti dai partiti comunisti dell’Est europeo, e l’abbattimento del muro di Berlino e la fucilazione del dittatore rumeno Ceausescu ne sono i due eventi-simbolo; sopravviverà ancora sino alla fine del ‘91 il cuore dell’impero, ma il tentato golpe di Mosca, nell’agosto, porrà termine irreversibilmente al coraggioso tentativo avviato da Gorbacëv di riformare il sistema. La riflessione di Occhetto trovò dunque anche in questi avvenimenti un forte riscontro, e il PCI fu impegnato per più di un anno in un dibattito che coinvolse centinaia di migliaia di militanti: il congresso del gennaio 1991 sancì a larga maggioranza la nascita del Partito Democratico della Sinistra, mentre il gruppo guidato da Cossutta e Garavini diede vita al Partito della Rifondazione Comunista.Era frattanto comparso prepotentemente sulla scena politica un nuovo protagonista: nelle elezioni amministrative del maggio 1990 e in quelle del novembre ‘91 la Lega Lombarda (poi Lega Nord e ancora Lega Nord per l’indipendenza della Padania) di Umberto Bossi ottenne uno strepitoso successo, sia raccogliendo il forte malcontento degli elettori moderati, che non ne potevano più di governi accentratori e di burocrazie inefficienti, sia intercettando molti voti tradizionalmente indirizzati a sinistra ma che ora cercavano strade più efficaci rispetto a un’opposizione divenuta abbastanza inconcludente. Da piccolo fenomeno provinciale, spesso caratterizzato da accenti razzisti e da un folklore un po’ volgare, il cosiddetto celodurismo, il movimento leghista divenne nel giro di un paio d’anni la forza politica più consistente del Nord Italia, conquistando fra l’altro la guida delle principali amministrazioni settentrionali. Bossi aveva capito che la gente era arrivata al limite massimo di sopportazione verso un sistema politico che pareva immobile, indifferente ai bisogni quotidiani dei cittadini, ed ebbe l’intuizione geniale di convogliare questa frustrazione in alcune parole d’ordine semplici ed efficaci: Roma ladrona, partiti tutti uguali, solo il Nord lavora, le tasse si devono pagare dove si produce ricchezza, il lavoro prima di tutto agli italiani (al di là delle posizioni apertamente razziste, occorre riconoscere che in molte città del Nord il fenomeno dell’immigrazione - in quegli anni erano già più di 600.000 gli arrivi da paesi esterni alla CEE - aveva provocato seri problemi sociali, ad esempio perché gli extracomunitari pur di trovare un lavoro accettavano paghe molto basse ed erano quindi degli oggettivi concorrenti “sleali” rispetto agli italiani, oppure perché, in mancanza di occupazione, s'indirizzavano verso attività illegali - prostituzione, spaccio, racket - che concentravano in determinati quartieri, come accaduto in particolare a Genova, Torino, Milano); una versione aggiornata del populismo dell’Uomo Qualunque, ma innestata in una situazione di reale e diffuso malessere sociale e politico.
Che esplose nel corso del 1992. A febbraio il Presidente di un ente assistenziale di Milano, il socialista Mario Chiesa, venne arrestato mentre intascava una tangente: sembrò uno dei soliti episodi di malaffare ma fu invece l’inizio dell’operazione “Mani pulite”, un’inchiesta a largo raggio avviata dalla Procura della Repubblica milanese che nel giro di pochi mesi porterà alla luce una colossale trama di corruzione. Decine e decine gli uomini politici (soprattutto socialisti e democristiani, e in misura minore anche repubblicani, socialdemocratici e liberali; furono coinvolti anche alcuni esponenti comunisti ma il loro ruolo fu marginale. Per corruzione s’intende il pagamento di denaro a un pubblico ufficiale per ottenerne dei favori, mentre la concussione si verifica quando un pubblico ufficiale, approfittando della propria posizione, pretende del denaro in cambio di un comportamento favorevole: assegnare un appalto, insabbiare una pratica, allentare certi controlli, ecc.) e gli imprenditori, molti dei quali di primissimo piano, arrestati con l’accusa di aver creato e gestito un vero e proprio sistema - ormai universalmente conosciuto come Tangentopoli - in base al quale parlamentari e amministratori orientavano determinate operazioni (appalti, piani regolatori, transazioni finanziarie) a favore di un’azienda, che ricambiava con tangenti talvolta astronomiche, destinate a finanziare il partito o il singolo esponente politico: la “madre di tutte le tangenti”, così chiamata per il suo importo di diversi miliardi, fu quella pagata per il tentativo di fusione fra ENI e Montedison. Il magistrato che fu il motore dell’inchiesta, Antonio Di Pietro, divenne forse il personaggio più popolare dell’Italia contemporanea, l’uomo simbolo della giustizia che faceva pulizia dei corrotti. Molte polemiche vi furono sul lavoro dei magistrati: si criticò l’uso della carcerazione preventiva (alcuni accusati, tra cui il presidente dell’ENI, Cagliari, e quello della Ferruzzi, Gardini, si suicidarono), venne espresso il timore che la magistratura volesse in qualche modo sostituirsi alle istituzioni politiche, ma soprattutto vi fu il disperato tentativo della vecchia classe dirigente di difendere il proprio potere, di bloccare un meccanismo che rischiava di spazzarla via. Cosa che invece puntualmente si verificò.
Craxi, raggiunto da un avviso di garanzia in cui gli si contestavano quaranta capi d’imputazione (Tra gli altri per tangenti relative a: ricostruzione della Valtellina, ENEL - Az. elettrica milanese, CARIPLO, Intemetro di Roma, aiuti al terzo mondo; nel dicembre 93, dopo aver deposto a un processo e scaricato tutte le responsabilità su Balsamo, l’amministratore del PSI nel frattempo morto, si rifugia ad Hammamet. Insieme a Martelli, Di Donna, ex presidente ENI, e Licio Gelli, verrà condannato a 8 anni e 6 mesi per il conto Protezione, c/c di Lugano dove sono transitati 7 milioni di dollari di tangenti. Il 12.11.96 94 sarà condannato definitivamente a 5 anni e 6 mesi, e interdizione perpetua dai pubblici uffici, per le tangenti ENI-SAI, insieme all’ex amministratore DC, Citaristi e al finanziere Cusani), si dimise da Segretario del PSI agli inizi del ‘93, ma il partito, retto nei mesi successivi prima da Benvenuto e poi da Del Turco, non gli sopravvisse, disperdendosi in una mezza dozzina di raggruppamenti minori.
Tra il ‘93 e il ‘94 si sciolsero anche PSDI, PLI e DC
: quest’ultima cercò di rigenerarsi trasformandosi in Partito Popolare Italiano, con Segretario Rocco Buttiglione, ma non resse alle tensioni fra la sua anima più conservatrice e quella progressista e si spaccò in tre tronconi, il PPI guidato prima da Martinazzoli e poi da Bianco, il CDU di Buttiglione e il CCD di Casini e Mastella. Il MSI non era stato coinvolto in Tangentopoli, ma si pose comunque il problema di presentarsi con un’immagine nuova, che in qualche modo non fosse più direttamente collegata alla matrice fascista, e il 12 dicembre 1993 diede vita a una nuova formazione politica sotto la guida di Gianfranco Fini, Alleanza Nazionale; ad essa non aderì l’ala estrema del partito, guidata da Pino Rauti, che diede vita al Movimento Sociale Fiamma Tricolore.
Il 1992 fu però anche l’anno di un formidabile colpo di coda della mafia (ma pochi mesi dopo fu arrestato il capo dei capi, Totò Riina): in marzo viene ucciso l’europarlamentare democristiano Salvo Lima, già sindaco di Palermo e da molti indicato come il referente politico di Cosa Nostra, che presumibilmente non lo riteneva più del tutto affidabile; in maggio una bomba fa esplodere l’automobile in cui viaggiavano Giovanni Falcone, sua moglie e la scorta: Falcone era l’uomo di punta del gruppo di magistrati che in Sicilia, per tutti gli anni ‘80, aveva inferto durissimi colpi alla mafia, e anch’egli, come a suo tempo Dalla Chiesa, espresse più di una volta la preoccupazione per lo scarso impegno dello Stato nella lotta alla mafia; stessa sorte toccò due mesi dopo all’altro magistrato simbolo, Paolo Borsellino, e nell’attentato persero la vita anche cinque uomini della scorta.
Il neoeletto Presidente della Repubblica, Oscar Luigi Scalfaro, affidò l’incarico di formare il governo al socialista Giuliano Amato, che impostò (1992) una Legge finanziaria (è il fondamentale adempimento con cui ogni anno le Camere stabiliscono le disposizioni legislative che regoleranno il bilancio dello Stato e ne indicheranno gli obiettivi di entrata e di spesa; col crescere a dismisura del debito pubblico, la finanziaria è diventata ancora più importante, in quanto è la manovra principale per cercare di sanare i conti pubblici) tra le più energiche degli ultimi anni (30.000 miliardi) e varò il decreto che avviava il processo di privatizzazione dei principali enti a partecipazione statale (ENI, IRI, ENEL, INA). Nella primavera dello stesso anno vennero introdotti due importanti cambiamenti nel funzionamento delle istituzioni: fu approvata la legge che stabilisce l’elezione diretta dei Sindaci, ed ebbe un larghissimo consenso (83%) la proposta referendaria che introduceva il sistema maggioritario per l’elezione del Senato; l’anno successivo venne approvata un altro essenziale provvedimento (che tuttavia è assai criticato per la sua eccessiva complessità) di modifica del sistema elettorale: l’introduzione del turno unico con due schede, una per eleggere col maggioritario il 75% dei deputati e l’altra per eleggere col proporzionale il restante 25%; è inoltre previsto lo sbarramento per le liste che non abbiano raggiunto il 4% con la quota proporzionale.
La situazione era di estrema gravità, perché a tutti era evidente come il sistema politico - istituzionale fosse ormai logoro, ma l’esigenza di una svolta profonda per un verso si scontrava con le potenti resistenze dei vecchi centri di potere e per altro verso non aveva di fronte uno sbocco chiaro. Occorreva un governo che svolgesse una funzione di garanzia rispetto allo scontro in atto e che portasse senza traumi a nuove elezioni politiche, cosa che il governo Amato non poteva assicurare. Si pensò quindi a un gabinetto costituito prevalentemente da tecnici e a presiederlo fu chiamato (maggio ‘93) un economista fra i più autorevoli, già Governatore della Banca d’Italia, Carlo Azeglio Ciampi, il primo non parlamentare a diventare Presidente del Consiglio: il suo governo, composto da tecnici di grande valore, fu considerato anche dagli osservatori stranieri come uno dei migliori che l’Italia avesse mai avuto, e riuscì ad esercitare un decisivo ruolo di mediazione fra Confindustria e sindacati, che nel luglio firmarono un importante accordo sul costo del lavoro.
In novembre, alle elezioni amministrative, la Lega si presentava come la grande novità del panorama politico, e i considerevoli consensi che aveva già ottenuto (Milano aveva votato in giugno e aveva eletto un sindaco leghista) facevano prevedere un clamoroso successo: a sorpresa, invece, nelle principali città vinsero i candidati progressisti, tra i quali Rutelli (contro il quale si era presentato Fini) a Roma, Cacciari a Venezia, Bassolino a Napoli. Le forze di sinistra guardarono quindi con discreto ottimismo all’ imminente scadenza elettorale, ma nell’arco di poche settimane un altro sconvolgimento mutò nuovamente, in modo tanto inaspettato quanto radicale, lo scenario politico. Uno dei più importanti imprenditori italiani (con aziende in settori strategici come le telecomunicazioni - l’ormai solidissima Fininvest - la pubblicità, i prodotti finanziari, la grande distribuzione, l’edilizia, l’editoria), Silvio Berlusconi, decise di “scendere in campo” per contrastare risolutamente l’andata delle sinistre al governo: egli ben comprese che il dissolvimento dei tradizionali partiti moderati lasciava un gigantesco vuoto politico, che il populismo della Lega poteva colmare solo in parte, e pianificò con maestria, degna del lancio in grande stile di un nuovo miracoloso prodotto, la sua guerra lampo. Utilizzando la rete capillare della sua società di promozione pubblicitaria come struttura organizzativa, diede vita al movimento di Forza Italia e con un bombardamento a tappeto tramite le sue tre reti televisive ridicolizzò le arcaiche forme comunicative e di propaganda della sinistra. Berlusconi seppe coniugare l’aggressività politica di un Craxi (del quale era stato grande amico e sostenitore) con l’abilità tattica di scuola democristiana e mise in piedi una coalizione elettorale che si rivelò, almeno nel breve termine, un capolavoro di diplomazia: al Nord si alleò con la Lega e nel Sud con Alleanza Nazionale, dando vita al Polo delle libertà e del buongoverno, comprensivo del CDU, del CCD, del movimento di Pannella e di alcune formazioni minori, che vinse trionfalmente le elezioni politiche del marzo 1994. Occhetto, leader del maggior partito della coalizione sconfitta (che si era presentata con il nome di Progressisti), si dimise da Segretario del PDS e al suo posto fu eletto Massimo D’Alema.
Al Senato, tuttavia, il Polo non disponeva della maggioranza e ciò fin dall’inizio della legislatura mise in difficoltà il governo. Inoltre in pochi mesi i conflitti interni alla coalizione, in particolare fra Bossi e Berlusconi, minarono complessivamente la solidità della maggioranza, che non fu più tale quando la Lega se ne distaccò. Il sistema maggioritario aveva contribuito a semplificare molto il panorama politico, costringendo le varie forze ad allearsi, e tuttavia il meccanismo elettorale non aveva prodotto, né poteva farlo visto il modo farraginoso con il quale era concepito, un risultato di stabilità, con due schieramenti contrapposti nettamente e senza possibilità di “ribaltoni”.
Ma fu proprio il ribaltone che si verificò e fu inevitabile andare nuovamente alle urne. I popolari, che nel ‘94 si erano presentati da soli con la sigla Patto per l’Italia ottenendo un modestissimo risultato, si accordarono con le forze di sinistra (PDS, Socialisti Italiani, Laburisti, Comunisti Unitari, Cristiano-Sociali), con i Verdi e con Alleanza Democratica (un piccolo raggruppamento laico-liberale), e insieme diedero vita alla coalizione dell’Ulivo (cui all’ultimo momento si aggregò provvidenzialmente il gruppo di Rinnovamento Italiano creato da Lamberto Dini) scegliendo come leader il professor Romano Prodi e il numero due del PDS, Walter Veltroni. Rifondazione Comunista, di cui era diventato Segretario Fausto Bertinotti, non condividendo parti sostanziali del programma dell’Ulivo non entrò a far parte della coalizione ma si accordò su una piattaforma elettorale.

Il 26 aprile 1996 l’Ulivo vinse le elezioni. E nel 1998 Bertinotti gli fece mancare la fiducia. E nel 2001 Berlusconi vinse le elezioni.

Ma tutte le successive consultazioni elettorali - regionali, europee, amministrative - hanno visto la destra sconfitta. Nel 2006 il Centrosinistra - raccolto nell'Unione - ha cercato in tutti i modi di perdere le elezioni...

Per mesi si è beato dei sondaggi che davano l'Unione nettamente avanti rispetto alla Casa delle Libertà, senza badare al fatto che quegli stessi sondaggi indicavano in un robusto 30% il settore dgli indecisi: elemento che poi si è rivelato decisivo rispetto al testa a testa dell'11 aprile. Nella campagna elettorale si è fatto battere sonoramente sul piano della strategia comunicativa: invece di imporre il terreno dello scontro - il bilancio di una legislatura - si è trovato a giocare di rimessa, dovendosi addirittura difendere rispetto alla questione tasse che Berlusconi ha saputo mettere al centro del dibattito; alcune maldestre dichiarazioni dello stesso Prodi (ma non era un economista?!) sull'entità delle imposte di successione sono state il tocco finale: l'Italietta egoista, furbetta, cialtrona, che magari non andava a votare perché "è tutto un magna magna e tanto sono tutti uguali", si è detta che forse Silvio, che di soldi se ne intende, aveva ragione: quindi, a scanso di equivoci, meglio votare, stavolta, e per chi non farà brutti scherzi, e, anzi, vuole addirittura abolire l'ICI (la più odiata dagli italiani).
Quando Montanelli (negli ultimi tempi della sua vita terrena osannato dallo snobismo di sinistra, quasi non fosse stato per decenni una delle penne più velenose dell'Italietta criptofascista) sostenne che gli italiani avevano bisogno di cinque anni di Berlusconi, così si vaccinavano, disse una colossale sciocchezza, ripetendo l'errore grossolano di tutti coloro che (come Bordiga, convinto che il fascismo avrebbe inevitabilmente prodotto una scossa rivoluzionaria fra le masse) pensano che le avversità "temprino" chi le subisce.
Ma per fortuna San Mirko fece la grazia: il Ministro per gli Italiani all'estero, il repubblichino Tremaglia, sicuro che quei voti fossero ben orientati a destra, fece approvare una relativa norma elettorale per approvigionare la CdL di quel prezioso bacino; peccato che la maggioranza dei residenti all'estero abbia votato per l'Unione. Unione che, peraltro, la pensava più o meno come Tremaglia, immaginando gli italiani di Broccolino o di San Paolo come le vecchie caricature del nostalgico mussoliniano.
Questo insperato regalo, sommatosi agli altri meccanismi elettorali fortemente voluti dalla destra (in particolare il famigerato premio di maggioranza alla Camera, che dà all'Unione, col 49,8%, 348 seggi, e alla CdL, col 49,7%, 281 deputati), ha consentito all'Unione di prevalere. Come diceva quell'insigne e raffinato politologo: che culo... Poi è inziato lo psicodramma che tutti più o meno ricordiamo: Prodi mette in piedi una compagine governativa elefantiaca e litigiosa, con personaggi come Mastella alla Giustizia e Fioroni all'Istruzione; inevitabile che la paralisi fosse la costante, e infatti si stenta a ricordare qualche provvedimento che abbia davvero inciso: niente sul conflitto d'interessi, niente sulla scuola devastata dalla Moratti, niente sulla ricerca, niente sulla difesa del suolo, quasi niente sulle pensioni e sul lavoro, e via così nel vuoto più desolante.
Rifondaroli e PdCI che crede di essere il PCI si accoltellano quotidianamente, i democristiani sempre democristiani sono, e quel buffone di Uòlter Veltroni pensa solo al suo patetico sogno di fare il Kennedy mediterraneo. Sempre sul filo del rasoio dal punto di vista parlamentare, finalmente le cose si chiariscono: Mastella fa il suo mestiere e butta all'aria tutto, aiutato da qualche imbecille che crede di essere Lenin.
Così nel 2008 il Centrosinistra ha cercato in tutti i modi di perdere le elezioni anticipate...
E c'è riuscito.

Veltroni e soci hanno cercato in tutti i modi di togliere spazio e voti alla sinistra radicale, e la missione è stata più che possibile: per la prima volta nella storia della Repubblica comunisti e socialisti non sono presenti nel Parlamento: un capolavoro assoluto.
Ma occorreva perfezionare il disastro, e alle elezioni europee del 2009 la sinistra (inutile specificare radicale, perché nel frattempo è nato il Partito Democratico, che Uòlter bada bene a definire un partito "non di sinistra") si presenta opportunamente smembrata, così da sparire anche lì.
E visto che D'Alema non dice qualcosa di sinistra da oltre un decennio, ci si mette Fini, già pupillo del fucilatore di partigiani Almirante.

A sinistra ulteriori scissioni (ovviamente in nome dell'unità della sinistra), e Lui che vuole abrogare Parlamento, Presidenza della Repubblica, Corte Costituzionale e magistratura, e già che c'è magari pure la Costituzione, il primo maggio, le ferie, i blue jeans e i dischi di Jannacci.
Ma in una cosa ha ragione: gli italiani lo vogliono perché li rappresenta perfettamente: furbi, ignoranti e puttanieri.

Poi venne Renzi.
Per tre anni, poi andò e un suo fan mandò.