BREVE STORIA D'ITALIA
LA NUOVA ITALIA
La
battaglia repubblicana era vinta, e si trattò di un’importantissima
vittoria del vento del Nord: e nient’affatto scontata, come
già si accennava, perché era sempre più chiaro
che in Italia lo scontro era ormai fra sinistra e moderati, e
che, essendo entrambi gli schieramenti piuttosto agguerriti, la
partita era ancora tutta da giocare.
Ma se il conflitto politico non tardò a manifestarsi, e
anche con particolare asprezza, ciò non impedì che,
almeno nel breve termine, su alcuni temi di fondo che investivano
l’insieme della vita italiana (nella fattispecie l’assetto
costituzionale) i vari schieramenti riuscissero a far prevalere
l’esigenza di unità nazionale rispetto
agli interesse di parte: e anche questo fu sicuramente il frutto
del grande sforzo unitario (patriottico si potrebbe senz’altro
dire, se il termine non rischiasse di apparire retorico) compiuto
durante la Resistenza.
Nell’arco
di pochissimi anni, cioè tra il 1946 e il 1948, si concentrarono
sull’Italia problemi enormi: il ripristino della legalità
dopo il ventennio di dittatura, la scelta fra monarchia e repubblica,
l’avvio della ricostruzione morale e materiale dopo le devastazioni e la vergogna della guerra, la definizione
del futuro politico di un paese al confine fra i due blocchi,
il riassetto di un’economia disastrata.
È evidente che tali questioni (così come quelle
che si porranno in seguito) sono intimamente connesse tra loro,
ma qui sarebbe impossibile seguire nel dettaglio le complesse
interazioni nell’attività delle forze politiche e
sociali, e quindi sarà inevitabile un certo schematismo
nel trattarle separatamente.
E allora, prima di arrivare al furibondo scontro in occasione
delle elezioni politiche del 1948, preceduto
dalla rottura fra i partiti della coalizione antifascista, è
indispensabile mettere a fuoco, almeno per grandi linee, la situazione
economica generale dell’Italia.
Il primo dato, naturalmente, non può che riguardare i danni
provocati dagli eventi bellici, che ammontarono a 7.000 miliardi
di lire (al valore attuale corrispondono a circa 500.000 miliardi),
concentrati prevalentemente nelle città del Nord, con la
pesante eccezione di Napoli: la cifra è colossale, ma avrebbe
potuto assumere una consistenza immensamente superiore se la maggior
parte degli stabilimenti industriali non fosse uscita quasi indenne,
e spesso, come si è ricordato, per l’intervento diretto
degli operai armati che si erano opposti alle rappresaglie e alle
requisizioni dei tedeschi. Se l’apparato produttivo è
salvo, ma assai arretrato rispetto a quello degli altri paesi
europei, è gravemente compromesso il sistema dei trasporti,
con una marina mercantile praticamente distrutta e una rete ferroviaria
letteralmente a pezzi. L’agricoltura, che è ancora
il settore principale dell’economia, è anch’essa
in crisi, per il livello molto basso di meccanizzazione,
per la dissennata politica di supersfruttamento dei terreni che
fu alla base dell’autarchia (dal greco autòs,
da sé, da solo, e archìa, governo: autosufficienza,
quindi. Fu il tentativo di Mussolini di rendere autosufficiente,
appunto, l’economia italiana rispetto alle sanzioni internazionali - divieti di vendere merci all’Italia - attuate
intorno a metà degli anni ‘30 per ritorsione verso
la politica di espansione coloniale italiana in Africa) fascista,
e soprattutto per l’estrema arretratezza delle campagne,
con sterminate quantità di terra lasciate incolte e rapporti
addirittura medievali fra padroni e braccianti, ovvero fra proprietari
e contadini in affitto.
La storica inefficienza dello Stato italiano nel riscuotere le
tasse e l’assoluta necessità di impegnare ingenti
risorse pubbliche per finanziare la ricostruzione, portarono il debito pubblico (per debito pubblico s’intende
l’ammontare dei prestiti chiesti dallo Stato - alle banche
o direttamente ai cittadini mediante la vendita dei titoli di
stato come i Bot - per far fronte al deficit di bilancio, cioè
al saldo sfavorevole fra entrate - tasse - e uscite - spese per
i servizi e la pubblica amministrazione, interessi sui prestiti
chiesti da pagare alle banche e ai cittadini) a cifre astronomiche
(nel ‘46 era quasi dieci volte superiore a quello del ‘39);
a questo si aggiunse un’inflazione (cioè
un aumento costante dei prezzi a cui non corrisponde un adeguato
aumento dei salari e più in generale del potere d’acquisto
del denaro) via via sempre accentuata: tra il 1938 e il 1946 il
costo della vita era cresciuto di circa 23 volte, mentre l’aumento
dei salari era stato inferiore alla metà; il fenomeno era
ulteriormente aggravato dal mercato nero.
“Il salario non bastava mai, era sempre una gabbia stretta.
Se oggi si comprava con dieci, domani erano dodici, quindici.
Per avere appena un po’ di respiro bisognava muoversi: gli
scioperi si accendevano facilmente [...] Ma era già
una fortuna lavorare. I disoccupati arrivavano da tutte le parti,
c’erano manifestazioni ogni giorno davanti alle fabbriche.
Un esercito che voleva entrare ma i cancelli erano stretti”
(Giorgio Manzini, Una vita operaia, Einaudi, 1976, pp.
57-58).
L’incremento demografico italiano è
stato elevatissimo (dai 36 ml di abitanti del 1920 si è
passati ai 46 ml del 1948), ma le risorse del paese non sono sufficienti
per tutti, tanto che riprende massicciamente l’emigrazione nelle Americhe, in Germania, Francia, in Svizzera, in Belgio (oltre
7 milioni tra il 1946 e il 1972, con un rientro di circa 3.800.000),
che dopo l’esplosione di inizio secolo si era gradatamente
ridotta (Storia d’Italia, op. cit., p. 2682).
La disoccupazione non solo era molto estesa (1.700.000
senza lavoro nel 1947) ma era anche causa di una guerra fra poveri
che coinvolgeva anche i membri di una stessa famiglia: numerose
donne, infatti, avevano rimpiazzato nei servizi pubblici e nelle
officine gli uomini che erano al fronte o in prigionia, ma il
loro ritorno spesso provocò drammatici contraccolpi. Il
più delle volte, comunque, la solidarietà di classe
riuscì a prevalere sull’egoismo sociale: la partecipazione
di molti lavoratori alla Resistenza (e abbiamo già ricordato
i grandi scioperi antifascisti del ‘43 e del ‘44)
aveva contribuito notevolmente alla diffusione di una nuova coscienza
sindacale e politica, e ciò rese relativamente agevole
per il sindacato radicarsi in fabbrica, in particolare nelle grandi
aziende del triangolo industriale Genova-Torino-Milano.
La CGL (Confederazione Generale del Lavoro), nata nel 1906 e sciolta
dal fascismo nel 1927, aveva proseguito faticosamente la propria
attività clandestina, fino a ricostituirsi ufficialmente
con il nome di Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL)
nel giugno del 1944 con il cosiddetto Patto
di Roma fra le tre grandi componenti del movimento
operaio italiano, i comunisti, i socialisti, i cattolici. Firmatari
del Patto furono Giuseppe Di
Vittorio per il PCI, Achille Grandi per la DC e Emilio
Canevari per il PSI. Uno dei principali artefici di questo accordo
era stato il socialista Bruno Buozzi che però
proprio in quei giorni fu arrestato dalle SS e fucilato.Questa
unità della classe lavoratrice era destinata a incrinarsi
fortemente a causa dei contrasti che a livello politico stavano
maturando, ma per alcuni anni segnò una stagione fondamentale
nella vita del sindacalismo democratico.
Nel giugno 1947 si tenne il primo e ultimo Congresso unitario della CGIL, che eleggerà Giuseppe Di Vittorio Segretario Generale. La CGIL conta 5.735.000 iscritti, di cui il 56% ha votato a favore della corrente comunista, il 23% di quella socialista, il 13 di quella cristiana, il 2 di quella socialdemocratica e il 2 di quella repubblicana. Percentuali minori a favore di azionisti, anarchici e indipendenti. Il Congresso si svolge all’indomani dell’estromissione delle sinistre dal governo (maggio 1947) e sul dibattito pesano fortemente le tensioni e le divergenze fra la componente socialcomunista e quella cattolica. La discussione ruota attorno all’art. 9 dello Statuto che riguarda gli indirizzi politici del sindacato e le azioni di lotta: i rappresentanti DC, in parte sostenuti dagli stessi socialisti orientati a ridimensionare l'egemonia del PCI nel sindacato, ne chiedono la modifica per evitare che il sindacato si trasformi in uno strumento di lotta contro il governo. Nel tentativo di salvare l’unità l’articolo sarà riformato e, con il voto contrario della componente cristiana, passa la proposta di Fernando Santi (PSI) che fissa la maggioranza di tre quarti per le decisione politiche e la proclamazione degli scioperi politici. Unitaria, invece, la mozione conclusiva che chiede il risanamento monetario, l’azione contro il carovita e la disoccupazione, l’adozione di un minimo salariale, l’estensione a tutti i lavoratori della scala mobile su salari e stipendi, la riforma agraria e industriale. Il direttivo eletto dal Congresso sarà composto da 38 comunisti, 20 socialisti, 11 democristiani e 6 di correnti minori. La vita unitaria sarà brevissima, perchè dopo le elezioni politiche del 1948 la scissione sarà inevitabile.
Se, dunque, nelle fabbriche del Nord il sindacato poté
in buona misura raccogliere i frutti del lungo e difficile lavoro
politico svolto soprattutto negli ultimi anni del regime fascista
e nella fase della lotta armata, la situazione nelle campagne
meridionali era ancora in larga parte contrassegnata dallo strapotere
degli agrari, che preferivano di gran lunga continuare a conservare
i vecchi rapporti di tipo semifeudale e le posizioni di rendita,
piuttosto che impegnarsi (come invece stavano tentando diversi
industriali del Nord) a rinnovare le strutture aziendali e i modi
di produzione.
Lo Stato unitario aveva completamente trascurato la “questione
meridionale”, che tutti gli uomini di punta del
pensiero progressista, da Labriola a Salvemini a Gramsci, avevano
già da tempo indicato come il banco di prova decisivo per
misurare la capacità del nuovo Stato di far avanzare o
meno l’Italia verso uno sviluppo armonico ed equo.
Il filosofo Antonio Labriola (1843-1904) contribuì in modo determinante a diffondere
in Italia le idee e le analisi di Marx. Gaetano Salvemini (1873-1957), storico e politico di area liberal-socialista, dedicò
una speciale attenzione ai problemi del meridione; nel 1925 fondò
il periodico antifascista Non Mollare e l’anno
dopo fu costretto all’esilio, aderendo a Giustizia e libertà.
Antonio Gramsci (1891-1937) diresse il settimanale
socialista Ordine Nuovo e fu uno dei principali dirigenti
dei Consigli di fabbrica; battute le posizioni estremistiche di
Bordiga, divenne Segretario del Partito Comunista nel 1924, anno
in cui fondò il quotidiano l’Unità;
venne arrestato nel 1926 (“Per vent’anni dobbiamo
impedire a questo cervello di funzionare” disse il
Presidente del Tribunale speciale) e dieci anni dopo uscì
dal carcere solo perché ormai ammalato in modo irrimediabile:
morì poco tempo dopo. È considerato forse il più
originale pensatore marxista (tanto che oggi è uno degli
italiani più tradotti e letti all’estero) e nei suoi
celebri Quaderni
del carcere analizzò con estrema acutezza
la realtà italiana, con particolare attenzione alla formazione
dello Stato, alla questione meridionale, al ruolo degli intellettuali,
alla funzione dei partiti politici.
È opportuno ricordare che spesso il termine contadino viene usato impropriamente: questi è infatti è l’agricoltore
che da solo o coi familiari lavora direttamente l’appezzamento
di terra di cui è proprietario, o che ha preso in affitto
(in questo caso viene definito fittavolo); il bracciante, invece,
è un lavoratore dipendente a tutti gli effetti, cioè
un operaio salariato da un’azienda agricola; il mezzadro
o colono (figura ormai scomparsa, ma un tempo diffusissima) era
per così dire in una posizione intermedia: in genere era
un piccolo coltivatore diretto che lavorava un terreno appartenente
ad altri e che divideva col proprietario del fondo gli utili o
i prodotti.
Progresso, giustizia sociale, cultura, coscienza civile: l’Italia
non portò nulla di tutto questo ai contadini meridionali,
bensì nuovi soprusi, emigrazione, arruolamenti, tasse:
“Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con
il Potere, con lo stato? Lo Stato, qualunque sia, sono ‘quelli
di Roma’, e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi
si viva da cristiani. C’è la grandine, le frane,
la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono
dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre.
Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa,
e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza!” (Carlo
Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, 1945,
p. 67).
“Nella mia terra i canti popolari sono tutti nenie dolenti,
non c’è un solo canto popolare che abbia un senso
di letizia.” (In: Ginsborg, op. cit., pp. 37-38). Così
scriveva il comunista calabrese Fausto Gullo,
un profondo conoscitore del Mezzogiorno, divenuto ministro dell’Agricoltura
nel 1944: il PCI aveva richiesto con particolare forza che questo
incarico venisse affidato a un proprio dirigente, proprio perché
aveva ben chiaro quanto fosse essenziale intervenire drasticamente
e con coraggio in quella realtà meridionale che era una
grande questione nazionale, il nodo fondamentale dello sviluppo
italiano.
I vecchi patti agrari, cioè le varie forme
contrattuali che regolavano i rapporti fra il proprietario della
terra e chi effettivamente la lavorava, erano fra gli ostacoli
principali a uno sviluppo moderno dell’agricoltura, e l’iniziativa
legislativa di Gullo puntò innanzi tutto a modificare le
norme che li disciplinavano, stabilendo che al contadino andasse
almeno il 50% della produzione che doveva essere divisa e che
fossero prolungati i periodi di durata dei contratti; un’altra
direttiva fondamentale fu quella che promuoveva la cooperazione
fra contadini, dando la possibilità a queste forme associative
(e quindi promuovendo la collaborazione attiva fra persone storicamente
abituate all’individualismo) di coltivare le terre abbandonate,
e soprattutto quelle del latifondo, vale a dire le grandi proprietà,
sovente malcoltivate. Si trattava di misure ancora parziali, ma
in realtà ebbero un effetto dirompente (e infatti furono
ampiamente disattese dai successivi governi) e introdussero formidabili
elementi di dinamicità in realtà sociali dominate
da un secolare immobilismo.
Anche sotto l’impulso dell’azione innovatrice di Gullo
(e quando mai i lavoratori avevano avuto dalla loro parte un Ministro?!)
anche la CGIL concentrò la propria iniziativa al Sud, cercando
di introdurre un minimo di regole nei rapporti fra salariati e
datori di lavoro: in primo luogo chiedendo l’obbligatorietà
delle liste di disoccupazione, in alternativa ai caporali
che venivano inviati dai padroni a reclutare la manodopera col
medievale sistema (tuttora usato in molte zone, comunque) di riunire
ogni mattina in piazza tutti i braccianti disponibili e di scegliere
tra loro; le leghe, cioè le organizzazioni
territoriali del sindacato, si battevano anche per introdurre
il cosiddetto imponibile di manodopera, cioè una norma
che imponesse all’azienda di assumere un numero di salariati
proporzionale all’estensione della proprietà.
Gli agrari si opposero tenacemente a queste ipotesi riformatrici
e fu la mafia fornire
ai grandi proprietari i mezzi “tecnici” per
rispondere alle rivendicazioni sindacali. A questo proposito vale
la pena notare come più volte sia stato detto che almeno
il fascismo ebbe il merito di aver debellato la mafia; è
vero che durante il ventennio il fenomeno mafioso sembrò
essere scomparso, ma la ragione è che la dittatura era
di per sé sufficiente a garantire i privilegi e dunque
non c’era bisogno della mafia. La democrazia, garantendo
la libertà di parola e di organizzazione, permise appunto
il riemergere della dialettica sociale e quindi ridiede alla mafia
la sua funzione di drastico strumento regolatore dei conflitti.
E più avanti si vedrà l’evoluzione che ebbe
Cosa Nostra rispetto ai mutamenti della società. (Schematicamente:
con questo termine vengono definite le organizzazioni criminali
operanti in Sicilia, mentre quelle di altre zone meridionali,
come la Calabria, la Puglia e la Campania, sono la ‘ndrangheta, la Sacra Corona Unita
e la camorra.)
Ecco, fra gli innumerevoli che si potrebbero ricordare, due episodi
emblematici: Girolamo Li Causi era uno dei dirigenti
comunisti più autorevoli e popolari della Sicilia e un
giorno si recò insieme all’esponente socialista
Michele Pantaleone (che fra l’altro è l’autore
di Mafia e politica, Einaudi, 1962, uno dei più
bei libri sull’argomento) a tenere un discorso a Villalba,
una cittadina della Sicilia centrale, feudo del capomafia don
Calò Vizzini; costui aveva mobilitato i “picciotti”
affinché scoraggiassero in tutti i modi la partecipazione
di braccianti e contadini, che però si recarono piuttosto
numerosi al comizio. Malgrado il suono delle campane (il parroco
era il fratello di Calò) Li Causi riusciva a farsi ascoltare:
ma al primo applauso don Calò fece un segnale ai suoi,
che cominciarono a sparare.
Il 1° maggio 1947 le leghe e i partiti di
sinistra organizzarono una manifestazione a Portella
della Ginestra: centinaia di persone erano arrivate
da tutti i paesi vicini, c’erano intere famiglie vestite
a festa e con le bandiere rosse, e dall’alto di una collina
le osservava Salvatore Giuliano, il famoso bandito
che mafia e agrari avevano inviato a Portella per ricordare a
tutti chi comandava in quelle terre. Appena iniziato il comizio
la folla fu presa di mira da una mitragliatrice e undici persone
vennero assassinate.
Malgrado tutto, il movimento di lotta nelle campagne meridionali, e anche in Val padana,
si allargò e si estese, e grandissima importanza ebbe il vasto movimento per l' occupazione delle terre; come pure di grande significato fu l'esperienza degli scioperi alla rovescia.
Tuttavia
non vi erano le condizioni politiche
generali perché riuscisse a ottenere un’organica
riforma agraria e un vero cambiamento delle classi dirigenti
del Mezzogiorno.
Le
sinistre “incoraggiano il movimento ma, al tempo stesso,
vorrebbero scongiurare una radicalizzazione che possa diventare
elemento di turbamento al difficile equilibrio governativo”
(Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista italiano,
v. 5°, Einaudi, 1975, p. 494).
Come in tutti i momenti della storia in cui alla necessità
vitale di grandi modificazioni non si ac-compagna la forza reale
per gestire tali trasformazioni, anche in quel frangente i partiti
progressisti erano prigionieri di una drammatica contraddizione:
gli operai del Nord e i contadini del Sud difendevano con rabbia
e determinazione i loro diritti, ma le classi medie, la piccola
borghesia, e larghi settori degli stessi ceti popolari, erano
spaventati da rivendicazioni che temevano andassero a compromettere
una situazione economica già precaria.
Lo stesso Piano del lavoro formulato dalla CGIL
(1949) sarà visto dal mondo imprenditoriale e dalla DC
come un elemento di pericolosa destabilizzazione, e addirittura
definito da taluni come lo strumento per “sovietizzare”
l’economia italiana, tanto che non ebbe riscontri reali
nelle scelte governative. In realtà si trattava di un programma
improntato a notevole realismo e di impianto nettamente riformista,
oltre che il primo esempio di capacità progettuale a lungo
termine espresso dalla politica italiana: l’idea di fondo
era orientare la spesa pubblica in tre grandi settori di interesse
collettivo - nazionalizzazione dell’energia elettrica
e costruzione di nuove centrali, bonifica su larga scala dei terreni,
lavori pubblici e di edilizia popolare - in modo da collegare
lo sforzo per la ricostruzione alla realizzazione di centinaia
di migliaia di posti di lavoro. Oggi il termine riformismo è molto usato, e acquisito da tutta la sinistra, ma non
bisogna dimenticare che per molti anni - quando nella sinistra
assai più contrapposte erano l’anima radicale e quella
moderata - riformista era in secca antitesi a rivoluzionario.
L’unica possibilità di conciliare in qualche modo
queste opposte spinte (rivendicazioni operaie e spirito di conservazione
dei ceti medi) era tentare di mantenere stabile il quadro politico,
cioè di tenere unite al governo le forze che erano riuscite
a guidare di comune accordo la lotta di liberazione. Ma era un
progetto destinato a fallire, malgrado i numerosi compromessi
imposti da De Gasperi a Nenni (socialista dal
1921, direttore dell’Avanti! dal 1923 al 1925,
nel ‘26 fu costretto a fuggire in Francia, dove lavorò
attivamente per arrivare al patto di unità d’azione
coi comunisti (1930). Fu uno dei massimi dirigenti delle Brigate
Internazionali durante la guerra civile spagnola. Segretario del
PSI dal 1949 al 1964, fu Vicepresidente del Consiglio e poi Ministro
degli Esteri nei primi governi De Gasperi. Ancora Vicepresidente
del Consiglio dal ‘63 al ‘68 e poi Ministro degli
Esteri nel ‘68 e ‘69. Senatore a vita, è morto
nel 1980) e Togliatti. Quest’ultimo, ad esempio, in qualità
di Ministro della Giustizia, nel 1946 firmò l’amnistia per i dirigenti fascisti e, soprattutto, non diede alcun seguito
all’epurazione dei funzionari della pubblica amministrazione
particolarmente compromessi col passato regime.
Dei magistrati, prefetti e questori - cioè tutti alti funzionari
- che avevano prestato servizio sotto le direttive fasciste, praticamente
nessuno venne allontanato. Fece molto clamore, anni fa, un episodio
che ebbe come protagonista l’allora Presidente della Camera
Sandro Pertini: giunto in visita a Milano, si rifiutò di
stringere la mano a un certo funzionario, che era stato vicedirettore
di un carcere proprio quando Pertini, nel medesimo carcere, scontava
la condanna inflittagli dal Tribunale Speciale fascista!
In ogni caso sia De Gasperi che Togliatti erano perfettamente
consapevoli che prima dell’inevitabile resa dei conti era
indispensabile portare a compimento il complesso lavoro necessario
per dare alla Repubblica il suo assetto istituzionale, e per diciotto
mesi l’Assemblea Costituente, presieduta da Umberto Terracini,
fu impegnata nella stesura della nuova Costituzione.
Non mancarono, come vedremo, i motivi di contrasto, ma vi fu una
coesione pressoché unanime nel disegnare la forma del nuovo
Stato: partendo dal principio, tipico delle democrazie rappresentative,
dell’equilibrio fra potere legislativo (Parlamento), esecutivo
(governo) e giudiziario (magistratura), venne esclusa qualsiasi
forma di presidenzialismo, vale a dire di sistema in cui (come
negli Stati Uniti) coincidessero la figura del Capo dello Stato,
o Presidente della Repubblica, e quella del Primo Ministro (in
realtà in Italia questa figura di capo del Governo è
indicata come Presidente del Consiglio dei Ministri), o nel quale
(come in Francia) le due figure fossero sì distinte ma
con una netta prevalenza del potere del Presidente, in entrambi
i casi eletto direttamente dal popolo. Al Presidente della Repubblica
italiana, eletto dalle Camere riunite ogni sette anni, vennero
riservati solo alcuni poteri limitati, tra cui quelli di promulgare
le leggi, di nominare il Presidente del Consiglio, di sciogliere
le Camere, di indire le elezioni (Ogni legge votata dal Parlamento,
cioè, per diventare operante deve portare la firma del
Presidente della Repubblica, il quale può anche rifiutarsi
di promulgare un provvedimento se vi sono dei gravi motivi - ad
esempio se il Presidente ritiene che tale legge contrasti con
la Costituzione, o nel caso non vi sia la cosiddetta copertura
finanziaria, se cioè la legge al proprio interno non indica
chiaramente come saranno reperiti i soldi necessari per applicarla:
in tal caso la legge ritorna al Parlamento per essere nuovamente
esaminata).
L’architettura dello Stato doveva basarsi su un regime parlamentare
bicamerale, in cui cioè la formazione e l’attività
del governo fossero rigidamente sottoposti al controllo dei due
rami del Parlamento (Camera dei Deputati, 547 membri, e Senato,
237 membri, che dal 1963 passarono agli attuali 630 e 315). Questi
dovevano essere eletti, ogni cinque anni, secondo un sistema elettorale
di tipo proporzionale “puro”, in cui cioè anche
i più piccoli partiti avrebbero avuto la propria rappresentanza
in Parlamento in esatta proporzione ai voti ottenuti: teoricamente
si tratta di una formula che garantisce la massima equità,
ma col passare degli anni si venne affermando sempre più
la consapevolezza che tale meccanismo produceva un’eccessiva
frammentazione dei consensi, alimentando il proliferare delle
formazioni politiche e rendendo particolarmente complicato il
processo di composizione dei governi. Ciascuno di essi, infatti,
doveva necessariamente costituirsi per mezzo di trattative, sovente
assai difficili, fra i vari partiti, e quindi sulla base di maggioranze
parlamentari il più delle volte molto precarie: tant’è
vero che da quando l’Italia è una Repubblica si sono
avvicendati ben 52 governi, con una durata media
inferiore a un anno, a differenza di tutti gli altri paesi occidentali
(prima dell'infausto record raggiunto da Silvio Berlusconi nel 2004, il governo più lungo era stato quello di Bettino
Craxi, dal 4.8.83 al 27.6.86 (1058 giorni); il più breve:
Giulio Andreotti, febbraio ‘72 (9 giorni).
Alcuni articoli della Costituzione, e in particolare quelli riferiti
ai rapporti economici, furono oggetto di notevoli discussioni,
perché da taluni ritenuti troppo sbilanciati a favore dei
lavoratori, ma è sul famoso articolo 7,
che regolava i rapporti fra Stato e Chiesa cattolica, che vi fu
la battaglia più aspra: il Vaticano fece pressioni enormi
affinché venisse integralmente recepito il Concordato firmato nel 1929 con Mussolini, e che tra l’altro proclamava
il cattolicesimo religione ufficiale dello Stato e rendeva obbligatorio
l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Le
sinistre e i laici ovviamente si opposero con forza, ma alla fine
Togliatti impose al proprio partito di votare a favore, motivando
tale scelta con la necessità di non accentuare la già
pesante spaccatura col mondo cattolico. Ad eccezione di Teresa
Noce, tutti i parlamentari comunisti si adeguarono. Un episodio
sconosciuto ai più, ma di un certo rilievo: l’onorevole
Grilli, senza consultarsi con nessuno, e provocando un notevole
scompiglio nelle file della sinistra, riuscì a far passare
un emendamento che eliminava ogni accenno all’indissolubilità
del matrimonio: ciò che permise, anni dopo, di varare la
legge sul divorzio senza dover ricorrere (cosa che sarebbe stata
politicamente assai difficile) a una modifica costituzionale.
(Cfr.: Ginsborg, op. cit., pp. 132-133)
Il 27 dicembre 1947 il Capo provvisorio dello Stato, Enrico De
Nicola, promulgò la Costituzione,
che entrò in vigore il 1° gennaio 1948,
e che tuttora resta una delle carte costituzionali più
avanzate del mondo.
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