BREVE STORIA D'ITALIA

 

LA NUOVA ITALIA

La battaglia repubblicana era vinta, e si trattò di un’importantissima vittoria del vento del Nord: e nient’affatto scontata, come già si accennava, perché era sempre più chiaro che in Italia lo scontro era ormai fra sinistra e moderati, e che, essendo entrambi gli schieramenti piuttosto agguerriti, la partita era ancora tutta da giocare.
Ma se il conflitto politico non tardò a manifestarsi, e anche con particolare asprezza, ciò non impedì che, almeno nel breve termine, su alcuni temi di fondo che investivano l’insieme della vita italiana (nella fattispecie l’assetto costituzionale) i vari schieramenti riuscissero a far prevalere l’esigenza di unità nazionale rispetto agli interesse di parte: e anche questo fu sicuramente il frutto del grande sforzo unitario (patriottico si potrebbe senz’altro dire, se il termine non rischiasse di apparire retorico) compiuto durante la Resistenza.

Nell’arco di pochissimi anni, cioè tra il 1946 e il 1948, si concentrarono sull’Italia problemi enormi: il ripristino della legalità dopo il ventennio di dittatura, la scelta fra monarchia e repubblica, l’avvio della ricostruzione morale e materiale dopo le devastazioni e la vergogna della guerra, la definizione del futuro politico di un paese al confine fra i due blocchi, il riassetto di un’economia disastrata.
È evidente che tali questioni (così come quelle che si porranno in seguito) sono intimamente connesse tra loro, ma qui sarebbe impossibile seguire nel dettaglio le complesse interazioni nell’attività delle forze politiche e sociali, e quindi sarà inevitabile un certo schematismo nel trattarle separatamente.
E allora, prima di arrivare al furibondo scontro in occasione delle elezioni politiche del 1948, preceduto dalla rottura fra i partiti della coalizione antifascista, è indispensabile mettere a fuoco, almeno per grandi linee, la situazione economica generale dell’Italia.

Il primo dato, naturalmente, non può che riguardare i danni provocati dagli eventi bellici, che ammontarono a 7.000 miliardi di lire (al valore attuale corrispondono a circa 500.000 miliardi), concentrati prevalentemente nelle città del Nord, con la pesante eccezione di Napoli: la cifra è colossale, ma avrebbe potuto assumere una consistenza immensamente superiore se la maggior parte degli stabilimenti industriali non fosse uscita quasi indenne, e spesso, come si è ricordato, per l’intervento diretto degli operai armati che si erano opposti alle rappresaglie e alle requisizioni dei tedeschi. Se l’apparato produttivo è salvo, ma assai arretrato rispetto a quello degli altri paesi europei, è gravemente compromesso il sistema dei trasporti, con una marina mercantile praticamente distrutta e una rete ferroviaria letteralmente a pezzi. L’agricoltura, che è ancora il settore principale dell’economia, è anch’essa in crisi, per il livello molto basso di meccanizzazione, per la dissennata politica di supersfruttamento dei terreni che fu alla base dell’autarchia (dal greco autòs, da sé, da solo, e archìa, governo: autosufficienza, quindi. Fu il tentativo di Mussolini di rendere autosufficiente, appunto, l’economia italiana rispetto alle sanzioni internazionali - divieti di vendere merci all’Italia - attuate intorno a metà degli anni ‘30 per ritorsione verso la politica di espansione coloniale italiana in Africa) fascista, e soprattutto per l’estrema arretratezza delle campagne, con sterminate quantità di terra lasciate incolte e rapporti addirittura medievali fra padroni e braccianti, ovvero fra proprietari e contadini in affitto.
La storica inefficienza dello Stato italiano nel riscuotere le tasse e l’assoluta necessità di impegnare ingenti risorse pubbliche per finanziare la ricostruzione, portarono il debito pubblico (per debito pubblico s’intende l’ammontare dei prestiti chiesti dallo Stato - alle banche o direttamente ai cittadini mediante la vendita dei titoli di stato come i Bot - per far fronte al deficit di bilancio, cioè al saldo sfavorevole fra entrate - tasse - e uscite - spese per i servizi e la pubblica amministrazione, interessi sui prestiti chiesti da pagare alle banche e ai cittadini) a cifre astronomiche (nel ‘46 era quasi dieci volte superiore a quello del ‘39); a questo si aggiunse un’inflazione (cioè un aumento costante dei prezzi a cui non corrisponde un adeguato aumento dei salari e più in generale del potere d’acquisto del denaro) via via sempre accentuata: tra il 1938 e il 1946 il costo della vita era cresciuto di circa 23 volte, mentre l’aumento dei salari era stato inferiore alla metà; il fenomeno era ulteriormente aggravato dal mercato nero.
Il salario non bastava mai, era sempre una gabbia stretta. Se oggi si comprava con dieci, domani erano dodici, quindici. Per avere appena un po’ di respiro bisognava muoversi: gli scioperi si accendevano facilmente [...] Ma era già una fortuna lavorare. I disoccupati arrivavano da tutte le parti, c’erano manifestazioni ogni giorno davanti alle fabbriche. Un esercito che voleva entrare ma i cancelli erano stretti” (Giorgio Manzini, Una vita operaia, Einaudi, 1976, pp. 57-58).
L’incremento demografico italiano è stato elevatissimo (dai 36 ml di abitanti del 1920 si è passati ai 46 ml del 1948), ma le risorse del paese non sono sufficienti per tutti, tanto che riprende massicciamente l’emigrazione nelle Americhe, in Germania, Francia, in Svizzera, in Belgio (oltre 7 milioni tra il 1946 e il 1972, con un rientro di circa 3.800.000), che dopo l’esplosione di inizio secolo si era gradatamente ridotta (Storia d’Italia, op. cit., p. 2682).
La disoccupazione non solo era molto estesa (1.700.000 senza lavoro nel 1947) ma era anche causa di una guerra fra poveri che coinvolgeva anche i membri di una stessa famiglia: numerose donne, infatti, avevano rimpiazzato nei servizi pubblici e nelle officine gli uomini che erano al fronte o in prigionia, ma il loro ritorno spesso provocò drammatici contraccolpi. Il più delle volte, comunque, la solidarietà di classe riuscì a prevalere sull’egoismo sociale: la partecipazione di molti lavoratori alla Resistenza (e abbiamo già ricordato i grandi scioperi antifascisti del ‘43 e del ‘44) aveva contribuito notevolmente alla diffusione di una nuova coscienza sindacale e politica, e ciò rese relativamente agevole per il sindacato radicarsi in fabbrica, in particolare nelle grandi aziende del triangolo industriale Genova-Torino-Milano.


La CGL (Confederazione Generale del Lavoro), nata nel 1906 e sciolta dal fascismo nel 1927, aveva proseguito faticosamente la propria attività clandestina, fino a ricostituirsi ufficialmente con il nome di Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL) nel giugno del 1944 con il cosiddetto Patto di Roma fra le tre grandi componenti del movimento operaio italiano, i comunisti, i socialisti, i cattolici. Firmatari del Patto furono Giuseppe Di Vittorio per il PCI, Achille Grandi per la DC e Emilio Canevari per il PSI. Uno dei principali artefici di questo accordo era stato il socialista Bruno Buozzi che però proprio in quei giorni fu arrestato dalle SS e fucilato.Questa unità della classe lavoratrice era destinata a incrinarsi fortemente a causa dei contrasti che a livello politico stavano maturando, ma per alcuni anni segnò una stagione fondamentale nella vita del sindacalismo democratico.
Nel giugno 1947 si tenne il primo e ultimo Congresso unitario della CGIL, che eleggerà Giuseppe Di Vittorio Segretario Generale. La CGIL conta 5.735.000 iscritti, di cui il 56% ha votato a favore della corrente comunista, il 23% di quella socialista, il 13 di quella cristiana, il 2 di quella socialdemocratica e il 2 di quella repubblicana. Percentuali minori a favore di azionisti, anarchici e indipendenti. Il Congresso si svolge all’indomani dell’estromissione delle sinistre dal governo (maggio 1947) e sul dibattito pesano fortemente le tensioni e le divergenze fra la componente socialcomunista e quella cattolica. La discussione ruota attorno all’art. 9 dello Statuto che riguarda gli indirizzi politici del sindacato e le azioni di lotta: i rappresentanti DC, in parte sostenuti dagli stessi socialisti orientati a ridimensionare l'egemonia del PCI nel sindacato, ne chiedono la modifica per evitare che il sindacato si trasformi in uno strumento di lotta contro il governo. Nel tentativo di salvare l’unità l’articolo sarà riformato e, con il voto contrario della componente cristiana, passa la proposta di Fernando Santi (PSI) che fissa la maggioranza di tre quarti per le decisione politiche e la proclamazione degli scioperi politici. Unitaria, invece, la mozione conclusiva che chiede il risanamento monetario, l’azione contro il carovita e la disoccupazione, l’adozione di un minimo salariale, l’estensione a tutti i lavoratori della scala mobile su salari e stipendi, la riforma agraria e industriale. Il direttivo eletto dal Congresso sarà composto da 38 comunisti, 20 socialisti, 11 democristiani e 6 di correnti minori. La vita unitaria sarà brevissima, perchè dopo le elezioni politiche del 1948 la scissione sarà inevitabile.

Se, dunque, nelle fabbriche del Nord il sindacato poté in buona misura raccogliere i frutti del lungo e difficile lavoro politico svolto soprattutto negli ultimi anni del regime fascista e nella fase della lotta armata, la situazione nelle campagne meridionali era ancora in larga parte contrassegnata dallo strapotere degli agrari, che preferivano di gran lunga continuare a conservare i vecchi rapporti di tipo semifeudale e le posizioni di rendita, piuttosto che impegnarsi (come invece stavano tentando diversi industriali del Nord) a rinnovare le strutture aziendali e i modi di produzione.
Lo Stato unitario aveva completamente trascurato la “questione meridionale”, che tutti gli uomini di punta del pensiero progressista, da Labriola a Salvemini a Gramsci, avevano già da tempo indicato come il banco di prova decisivo per misurare la capacità del nuovo Stato di far avanzare o meno l’Italia verso uno sviluppo armonico ed equo.
Il filosofo Antonio Labriola (1843-1904) contribuì in modo determinante a diffondere in Italia le idee e le analisi di Marx. Gaetano Salvemini (1873-1957), storico e politico di area liberal-socialista, dedicò una speciale attenzione ai problemi del meridione; nel 1925 fondò il periodico antifascista Non Mollare e l’anno dopo fu costretto all’esilio, aderendo a Giustizia e libertà. Antonio Gramsci (1891-1937) diresse il settimanale socialista Ordine Nuovo e fu uno dei principali dirigenti dei Consigli di fabbrica; battute le posizioni estremistiche di Bordiga, divenne Segretario del Partito Comunista nel 1924, anno in cui fondò il quotidiano l’Unità; venne arrestato nel 1926 (“Per vent’anni dobbiamo impedire a questo cervello di funzionare” disse il Presidente del Tribunale speciale) e dieci anni dopo uscì dal carcere solo perché ormai ammalato in modo irrimediabile: morì poco tempo dopo. È considerato forse il più originale pensatore marxista (tanto che oggi è uno degli italiani più tradotti e letti all’estero) e nei suoi celebri Quaderni del carcere analizzò con estrema acutezza la realtà italiana, con particolare attenzione alla formazione dello Stato, alla questione meridionale, al ruolo degli intellettuali, alla funzione dei partiti politici.
È opportuno ricordare che spesso il termine contadino viene usato impropriamente: questi è infatti è l’agricoltore che da solo o coi familiari lavora direttamente l’appezzamento di terra di cui è proprietario, o che ha preso in affitto (in questo caso viene definito fittavolo); il bracciante, invece, è un lavoratore dipendente a tutti gli effetti, cioè un operaio salariato da un’azienda agricola; il mezzadro o colono (figura ormai scomparsa, ma un tempo diffusissima) era per così dire in una posizione intermedia: in genere era un piccolo coltivatore diretto che lavorava un terreno appartenente ad altri e che divideva col proprietario del fondo gli utili o i prodotti.
Progresso, giustizia sociale, cultura, coscienza civile: l’Italia non portò nulla di tutto questo ai contadini meridionali, bensì nuovi soprusi, emigrazione, arruolamenti, tasse: “Che cosa avevano essi a che fare con il Governo, con il Potere, con lo stato? Lo Stato, qualunque sia, sono ‘quelli di Roma’, e quelli di Roma, si sa, non vogliono che noi si viva da cristiani. C’è la grandine, le frane, la siccità, la malaria, e c’è lo Stato. Sono dei mali inevitabili, ci sono sempre stati e ci saranno sempre. Ci fanno ammazzare le capre, ci portano via i mobili di casa, e adesso ci manderanno a fare la guerra. Pazienza!” (Carlo Levi, Cristo si è fermato a Eboli, Einaudi, 1945, p. 67).
“Nella mia terra i canti popolari sono tutti nenie dolenti, non c’è un solo canto popolare che abbia un senso di letiz
ia.” (In: Ginsborg, op. cit., pp. 37-38). Così scriveva il comunista calabrese Fausto Gullo, un profondo conoscitore del Mezzogiorno, divenuto ministro dell’Agricoltura nel 1944: il PCI aveva richiesto con particolare forza che questo incarico venisse affidato a un proprio dirigente, proprio perché aveva ben chiaro quanto fosse essenziale intervenire drasticamente e con coraggio in quella realtà meridionale che era una grande questione nazionale, il nodo fondamentale dello sviluppo italiano.
I vecchi patti agrari, cioè le varie forme contrattuali che regolavano i rapporti fra il proprietario della terra e chi effettivamente la lavorava, erano fra gli ostacoli principali a uno sviluppo moderno dell’agricoltura, e l’iniziativa legislativa di Gullo puntò innanzi tutto a modificare le norme che li disciplinavano, stabilendo che al contadino andasse almeno il 50% della produzione che doveva essere divisa e che fossero prolungati i periodi di durata dei contratti; un’altra direttiva fondamentale fu quella che promuoveva la cooperazione fra contadini, dando la possibilità a queste forme associative (e quindi promuovendo la collaborazione attiva fra persone storicamente abituate all’individualismo) di coltivare le terre abbandonate, e soprattutto quelle del latifondo, vale a dire le grandi proprietà, sovente malcoltivate. Si trattava di misure ancora parziali, ma in realtà ebbero un effetto dirompente (e infatti furono ampiamente disattese dai successivi governi) e introdussero formidabili elementi di dinamicità in realtà sociali dominate da un secolare immobilismo.
Anche sotto l’impulso dell’azione innovatrice di Gullo (e quando mai i lavoratori avevano avuto dalla loro parte un Ministro?!) anche la CGIL concentrò la propria iniziativa al Sud, cercando di introdurre un minimo di regole nei rapporti fra salariati e datori di lavoro: in primo luogo chiedendo l’obbligatorietà delle liste di disoccupazione, in alternativa ai caporali che venivano inviati dai padroni a reclutare la manodopera col medievale sistema (tuttora usato in molte zone, comunque) di riunire ogni mattina in piazza tutti i braccianti disponibili e di scegliere tra loro; le leghe, cioè le organizzazioni territoriali del sindacato, si battevano anche per introdurre il cosiddetto imponibile di manodopera, cioè una norma che imponesse all’azienda di assumere un numero di salariati proporzionale all’estensione della proprietà.

Gli agrari si opposero tenacemente a queste ipotesi riformatrici e fu la mafia fornire ai grandi proprietari i mezzi “tecnici” per rispondere alle rivendicazioni sindacali. A questo proposito vale la pena notare come più volte sia stato detto che almeno il fascismo ebbe il merito di aver debellato la mafia; è vero che durante il ventennio il fenomeno mafioso sembrò essere scomparso, ma la ragione è che la dittatura era di per sé sufficiente a garantire i privilegi e dunque non c’era bisogno della mafia. La democrazia, garantendo la libertà di parola e di organizzazione, permise appunto il riemergere della dialettica sociale e quindi ridiede alla mafia la sua funzione di drastico strumento regolatore dei conflitti. E più avanti si vedrà l’evoluzione che ebbe Cosa Nostra rispetto ai mutamenti della società. (Schematicamente: con questo termine vengono definite le organizzazioni criminali operanti in Sicilia, mentre quelle di altre zone meridionali, come la Calabria, la Puglia e la Campania, sono la ‘ndrangheta, la Sacra Corona Unita e la camorra.)
Ecco, fra gli innumerevoli che si potrebbero ricordare, due episodi emblematici: Girolamo Li Causi era uno dei dirigenti comunisti più autorevoli e popolari della Sicilia e un giorno si recò insieme all’esponente socialista Michele Pantaleone (che fra l’altro è l’autore di Mafia e politica, Einaudi, 1962, uno dei più bei libri sull’argomento) a tenere un discorso a Villalba, una cittadina della Sicilia centrale, feudo del capomafia don Calò Vizzini; costui aveva mobilitato i “picciotti” affinché scoraggiassero in tutti i modi la partecipazione di braccianti e contadini, che però si recarono piuttosto numerosi al comizio. Malgrado il suono delle campane (il parroco era il fratello di Calò) Li Causi riusciva a farsi ascoltare: ma al primo applauso don Calò fece un segnale ai suoi, che cominciarono a sparare.
Il 1° maggio 1947 le leghe e i partiti di sinistra organizzarono una manifestazione a Portella della Ginestra: centinaia di persone erano arrivate da tutti i paesi vicini, c’erano intere famiglie vestite a festa e con le bandiere rosse, e dall’alto di una collina le osservava Salvatore Giuliano, il famoso bandito che mafia e agrari avevano inviato a Portella per ricordare a tutti chi comandava in quelle terre. Appena iniziato il comizio la folla fu presa di mira da una mitragliatrice e undici persone vennero assassinate.
Malgrado tutto, il movimento di lotta nelle campagne meridionali, e anche in Val padana, si allargò e si estese, e grandissima importanza ebbe il vasto movimento per l' occupazione delle terre; come pure di grande significato fu l'esperienza degli scioperi alla rovescia.
Tuttavia non vi erano le condizioni politiche generali perché riuscisse a ottenere un’organica riforma agraria e un vero cambiamento delle classi dirigenti del Mezzogiorno.



Le sinistre “incoraggiano il movimento ma, al tempo stesso, vorrebbero scongiurare una radicalizzazione che possa diventare elemento di turbamento al difficile equilibrio governativo” (Paolo Spriano, Storia del Partito Comunista italiano, v. 5°, Einaudi, 1975, p. 494).
Come in tutti i momenti della storia in cui alla necessità vitale di grandi modificazioni non si ac-compagna la forza reale per gestire tali trasformazioni, anche in quel frangente i partiti progressisti erano prigionieri di una drammatica contraddizione: gli operai del Nord e i contadini del Sud difendevano con rabbia e determinazione i loro diritti, ma le classi medie, la piccola borghesia, e larghi settori degli stessi ceti popolari, erano spaventati da rivendicazioni che temevano andassero a compromettere una situazione economica già precaria.
Lo stesso Piano del lavoro formulato dalla CGIL (1949) sarà visto dal mondo imprenditoriale e dalla DC come un elemento di pericolosa destabilizzazione, e addirittura definito da taluni come lo strumento per “sovietizzare” l’economia italiana, tanto che non ebbe riscontri reali nelle scelte governative. In realtà si trattava di un programma improntato a notevole realismo e di impianto nettamente riformista, oltre che il primo esempio di capacità progettuale a lungo termine espresso dalla politica italiana: l’idea di fondo era orientare la spesa pubblica in tre grandi settori di interesse collettivo - nazionalizzazione dell’energia elettrica e costruzione di nuove centrali, bonifica su larga scala dei terreni, lavori pubblici e di edilizia popolare - in modo da collegare lo sforzo per la ricostruzione alla realizzazione di centinaia di migliaia di posti di lavoro. Oggi il termine riformismo è molto usato, e acquisito da tutta la sinistra, ma non bisogna dimenticare che per molti anni - quando nella sinistra assai più contrapposte erano l’anima radicale e quella moderata - riformista era in secca antitesi a rivoluzionario.




L’unica possibilità di conciliare in qualche modo queste opposte spinte (rivendicazioni operaie e spirito di conservazione dei ceti medi) era tentare di mantenere stabile il quadro politico, cioè di tenere unite al governo le forze che erano riuscite a guidare di comune accordo la lotta di liberazione. Ma era un progetto destinato a fallire, malgrado i numerosi compromessi imposti da De Gasperi a Nenni (socialista dal 1921, direttore dell’Avanti! dal 1923 al 1925, nel ‘26 fu costretto a fuggire in Francia, dove lavorò attivamente per arrivare al patto di unità d’azione coi comunisti (1930). Fu uno dei massimi dirigenti delle Brigate Internazionali durante la guerra civile spagnola. Segretario del PSI dal 1949 al 1964, fu Vicepresidente del Consiglio e poi Ministro degli Esteri nei primi governi De Gasperi. Ancora Vicepresidente del Consiglio dal ‘63 al ‘68 e poi Ministro degli Esteri nel ‘68 e ‘69. Senatore a vita, è morto nel 1980) e Togliatti. Quest’ultimo, ad esempio, in qualità di Ministro della Giustizia, nel 1946 firmò l’amnistia per i dirigenti fascisti e, soprattutto, non diede alcun seguito all’epurazione dei funzionari della pubblica amministrazione particolarmente compromessi col passato regime.
Dei magistrati, prefetti e questori - cioè tutti alti funzionari - che avevano prestato servizio sotto le direttive fasciste, praticamente nessuno venne allontanato. Fece molto clamore, anni fa, un episodio che ebbe come protagonista l’allora Presidente della Camera Sandro Pertini: giunto in visita a Milano, si rifiutò di stringere la mano a un certo funzionario, che era stato vicedirettore di un carcere proprio quando Pertini, nel medesimo carcere, scontava la condanna inflittagli dal Tribunale Speciale fascista!
In ogni caso sia De Gasperi che Togliatti erano perfettamente consapevoli che prima dell’inevitabile resa dei conti era indispensabile portare a compimento il complesso lavoro necessario per dare alla Repubblica il suo assetto istituzionale, e per diciotto mesi l’Assemblea Costituente, presieduta da Umberto Terracini, fu impegnata nella stesura della nuova Costituzione. Non mancarono, come vedremo, i motivi di contrasto, ma vi fu una coesione pressoché unanime nel disegnare la forma del nuovo Stato: partendo dal principio, tipico delle democrazie rappresentative, dell’equilibrio fra potere legislativo (Parlamento), esecutivo (governo) e giudiziario (magistratura), venne esclusa qualsiasi forma di presidenzialismo, vale a dire di sistema in cui (come negli Stati Uniti) coincidessero la figura del Capo dello Stato, o Presidente della Repubblica, e quella del Primo Ministro (in realtà in Italia questa figura di capo del Governo è indicata come Presidente del Consiglio dei Ministri), o nel quale (come in Francia) le due figure fossero sì distinte ma con una netta prevalenza del potere del Presidente, in entrambi i casi eletto direttamente dal popolo. Al Presidente della Repubblica italiana, eletto dalle Camere riunite ogni sette anni, vennero riservati solo alcuni poteri limitati, tra cui quelli di promulgare le leggi, di nominare il Presidente del Consiglio, di sciogliere le Camere, di indire le elezioni (Ogni legge votata dal Parlamento, cioè, per diventare operante deve portare la firma del Presidente della Repubblica, il quale può anche rifiutarsi di promulgare un provvedimento se vi sono dei gravi motivi - ad esempio se il Presidente ritiene che tale legge contrasti con la Costituzione, o nel caso non vi sia la cosiddetta copertura finanziaria, se cioè la legge al proprio interno non indica chiaramente come saranno reperiti i soldi necessari per applicarla: in tal caso la legge ritorna al Parlamento per essere nuovamente esaminata).
L’architettura dello Stato doveva basarsi su un regime parlamentare bicamerale, in cui cioè la formazione e l’attività del governo fossero rigidamente sottoposti al controllo dei due rami del Parlamento (Camera dei Deputati, 547 membri, e Senato, 237 membri, che dal 1963 passarono agli attuali 630 e 315). Questi dovevano essere eletti, ogni cinque anni, secondo un sistema elettorale di tipo proporzionale “puro”, in cui cioè anche i più piccoli partiti avrebbero avuto la propria rappresentanza in Parlamento in esatta proporzione ai voti ottenuti: teoricamente si tratta di una formula che garantisce la massima equità, ma col passare degli anni si venne affermando sempre più la consapevolezza che tale meccanismo produceva un’eccessiva frammentazione dei consensi, alimentando il proliferare delle formazioni politiche e rendendo particolarmente complicato il processo di composizione dei governi. Ciascuno di essi, infatti, doveva necessariamente costituirsi per mezzo di trattative, sovente assai difficili, fra i vari partiti, e quindi sulla base di maggioranze parlamentari il più delle volte molto precarie: tant’è vero che da quando l’Italia è una Repubblica si sono avvicendati ben 52 governi, con una durata media inferiore a un anno, a differenza di tutti gli altri paesi occidentali (prima dell'infausto record raggiunto da Silvio Berlusconi nel 2004, il governo più lungo era stato quello di Bettino Craxi, dal 4.8.83 al 27.6.86 (1058 giorni); il più breve: Giulio Andreotti, febbraio ‘72 (9 giorni).
Alcuni articoli della Costituzione, e in particolare quelli riferiti ai rapporti economici, furono oggetto di notevoli discussioni, perché da taluni ritenuti troppo sbilanciati a favore dei lavoratori, ma è sul famoso articolo 7, che regolava i rapporti fra Stato e Chiesa cattolica, che vi fu la battaglia più aspra: il Vaticano fece pressioni enormi affinché venisse integralmente recepito il Concordato firmato nel 1929 con Mussolini, e che tra l’altro proclamava il cattolicesimo religione ufficiale dello Stato e rendeva obbligatorio l’insegnamento della religione cattolica nelle scuole. Le sinistre e i laici ovviamente si opposero con forza, ma alla fine Togliatti impose al proprio partito di votare a favore, motivando tale scelta con la necessità di non accentuare la già pesante spaccatura col mondo cattolico. Ad eccezione di Teresa Noce, tutti i parlamentari comunisti si adeguarono. Un episodio sconosciuto ai più, ma di un certo rilievo: l’onorevole Grilli, senza consultarsi con nessuno, e provocando un notevole scompiglio nelle file della sinistra, riuscì a far passare un emendamento che eliminava ogni accenno all’indissolubilità del matrimonio: ciò che permise, anni dopo, di varare la legge sul divorzio senza dover ricorrere (cosa che sarebbe stata politicamente assai difficile) a una modifica costituzionale. (Cfr.: Ginsborg, op. cit., pp. 132-133)

Il 27 dicembre 1947 il Capo provvisorio dello Stato, Enrico De Nicola, promulgò la Costituzione, che entrò in vigore il 1° gennaio 1948, e che tuttora resta una delle carte costituzionali più avanzate del mondo.